I Mille. Garibaldi Giuseppe
Ma chi furon quei due giovinetti che nel gruppo dei più arditi tra gli Argonauti volevan precederli verso il nemico gareggiando a chi doveva affrontarlo pel primo?
Essi son diversi di forme, l’uno pare un figlio della Germania, colla sua capigliatura bionda, che non potea esser nascosta da un bonetto cui s’attortigliava graziosamente una fascia di seta; l’altro bruno di volto e di capelli, somigliava piuttosto ad un meridionale italiano. Ambi imberbi, ciocchè li mostra giovanissimi. La foggia del vestire è quasi identica, alquanto più accurata del resto dei Mille, ma modesta. E veramente non v’era sfarzo nella famosa schiera.
Giovanissimi sì, ma il moschetto lo maneggiavano da veterani, e siccome tali armi eran pure armi regie, di cui accennammo più sopra, i crik dei colpi falliti eran numerosi e la speranza della vittoria riposava sull’innestata baionetta.
Tra i numerosi giovani studenti v’eran pure imberbi, bellissimi di volto e della persona, ma nessuno certamente pareggiava la squisita bellezza dei nostri due dell’avanguardia. Il loro volto, come abbiam detto, di colore diverso, colpiva lo sguardo colla nobile beltà della robusta Cinzia, indomabile cacciatrice. I contorni dei loro fianchi però accusavano, più d’alcune svolazzanti treccie, qualche cosa esclusiva del sesso gentile.
E veramente mentre, in un momento di sosta sotto una delle banchine descritte nel capitolo anteriore, io contemplava quella bellissima e valorosissima copia davanti a me—P..... diretto a Nullo diceva: «È inutile! queste ragazze non vogliono stare indietro».
Io informato sino a quel momento che una sola del sesso gentile[11] faceva parte della spedizione, venni così a sapere esser esse di più.
Nel turbinìo dell’assalto, della fuga, e della persecuzione, io vidi avvolgersi sempre fra i primi le due incantevoli creature.—E per un momento trasportato dal calore della pugna, e dal fascino della bellezza, mi sembrò d’esser lanciato in quei tempi eroici ove i genii e le dee presiedevano agli eventi delle battaglie.
Le due eroine, giacchè le conosciamo donne, avevano perduto nella mischia i loro fez (bonetti) e turbanti; dimodochè una capigliatura d’oro ed una d’ebano avean per un momento svolazzato sull’altipiano del Pianto del Romani.—Esse indispettite d’essere state svelate, misero le ali ai piedi, e perseguirono disperatamente il nemico.—Le due coraggiose sarebbero forse giunte a Calatafimi la stessa sera, se P.... e Nullo, l’eroe della Polonia—ferito in un piede, correndo sopra il sano solo—non le avessero fatte tornare indietro.
La sera di quel glorioso giorno, io stanco, mi riposavo nella vallata che divide Calatafimi dal Pianto dei Romani; quando P..... presentossi a me con quelle due belle figure che tanto m’avean colpito nella giornata.
«Lina, mia sorella, mi disse, viene colla sua compagna Marzia, a chiedervi perdono, d’aver trasgredito l’ordine di non potersi imbarcare donne nella spedizione».
«Lina è dunque figlia delle belle valli lombarde», io risposi: non potendo decidermi ad un rimprovero, ed un poco sorpreso da tale visita; poi alquanto rinfrancato: «quando per una trasgressione si acquistano tali valorose come sono vostra sorella e la compagna, io, che non sono un modello d’ordine, posso bene accomodarmivi».
Un momento di silenzio seguì l’interessante colloquio, e vedendomi fiso al volto di Marzia, P.... riprese: «Marzia è Romana, e non possiamo dirvi altro di essa, poichè ella stessa non ci ha fatto sapere di più». E senza aspettare la mia risposta, P..... continuò: «Non vogliamo tediarvi, poichè dovete essere stanco».
«Lina vuol presentarvi un mantello incerato, tolto ad un ufficiale nemico, e che vi servirà, sprovvisto come siete, per coprirvi dalla rugiada», e senza darmi tempo di ringraziare, i tre si dileguarono nelle tenebre.
Io m’addormentai, sognando di battaglie, di dee, di genii, d’Italia intiera risorta, e la sveglia, con cui il mio tromba avea petrificato il nemico nel giorno antecedente, mi destò colla piacevole notizia: che il nemico avea abbandonata Calatafimi.
E fu veramente grata tale notizia, poichè tenendo il nemico Calatafimi, noi avremmo dovuto ben sudare per impossessarci di quella formidabile posizione.
NOTE:
[11] La signora Crispi.
Indice
CAPITOLO VIII.
DA CALATAFIMI A RENNE.
La vittoria
È sul brando del forte.
(Autore conosciuto).
La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del 1860.
Era un vero bisogno d’iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto d’armi. Esso demoralizzò gli avversari che colla loro fervida immaginazione meridionale, raccontavan portenti sul valore dei Mille, e sulla impenetrabilità della loro pelle a qualunque proietto, e rinfrancò i prodi Siciliani che, per esser pochi, erano stati scossi dagl’immensi presidii di soldati, e di mezzi accumulati dai Borbonici nell’isola.
Palermo, Melazzo, il Volturno, videro molto più feriti e cadaveri.—Vi furono certamente delle pugne più lunghe ed accanite.—Per me però il combattimento decisivo fu Calatafimi.—Dopo il Pianto dei Romani, i nostri sapevano che doveano vincere; e quando s’inizia una pugna con quel prestigio, si vince!
Novara, Custoza, Lissa, e forse anche Mentana, nullostante tanta disparità di mezzi e di numero, sono una sventura per l’Italia, non tanto per le perdite nostre d’uomini e di mezzi, quanto per la boria dei nostri nemici che certamente non valgono più degli Italiani; e che dovendo combatterci, verranno a noi come su preda facile, su gente che si spinge avanti coi calci dei fucili.
E non dubito: gli oppressori nostri s’inganneranno, ove la gente italica sia guidata da un uomo ben convinto che bisogna vincere.
Le battaglie suaccennate di Novara, Custoza, Lissa, non furono disputate.—In tutte, le nostre forze pugnarono parzialmente, e la maggior parte rimase inoperosa, e ad altro non servì che ad accrescere la confusione della ritirata.
Io ho conosciuto in America un valorosissimo generale che dopo d’aver iniziato brillantemente una battaglia, a qualunque rovescio parziale comandava la ritirata, e ne conseguiva certo che, ritirandosi di giorno davanti a un nemico impegnato, la ritirata si cambiava in sconfitta.
Ridotto oggi a consigliare i giovani che guidavo una volta, io non cesserò di ammonirli sulla necessità di costanza, sia nel durare alle fatiche e disagi, nelle guerre che pur troppo dovranno ancor fare; sia nelle giornate di pugna grandi o piccole.
A Melazzo i Mille furono perdenti fin verso sera, avendo cominciato il combattimento all’alba, ed un ultimo sforzo fatto sul fianco sinistro del nemico, decise della giornata.
Al Volturno, iniziata la battaglia prima dell’alba, il nemico era ancora padrone del campo di battaglia alle 3 pomeridiane; quando giunsero alcune riserve da Caserta che influirono a cacciarlo dentro Capua in men d’un’ora.
Non dirò di Palermo, ove vi fu non solo costanza da parte dei pochi militi nostri e della inerme popolazione, ma sfacciataggine di cacciar via dalla città ventimila soldati che potevan far l’orgoglio di qualunque generale.
Alle prime prove dell’Italia contro i suoi eterni nemici, vi vorrà un Fabio che sappia temporeggiare: ed il nostro paese è tale da poter guerreggiare come si vuole;