Speranze e glorie; Le tre capitali: Torino, Firenze, Roma. Edmondo De Amicis
del movimento socialista in Europa, vi dicono:—Non ve ne date pensiero perchè il nostro paese ne è fuori,—e ripetono la sentenza pronunziata l'anno scorso alla Camera da un illustre pensatore, a parer del quale, per ragion dell'indole e delle condizioni proprie del popolo italiano, ci vorranno più secoli prima che il socialismo metta larghe radici fra di noi.—Non credete neppure a costoro. Come se intorno all'Italia ci fosse la gran muraglia del Celeste Impero, come se il socialismo dottrinale e popolare che ci venne tutto in questi ultimi anni dal di fuori non dovesse continuare a discendere per le stesse vie per le quali è entrato! Sarà vero che la quistione sociale in Italia sia agraria principalmente, come tra i nostri fratelli latini d'occidente, e che anche sotto questo aspetto, per la costituzione particolare del nostro suolo, essa non sia della natura medesima che in altri paesi; ma non scema l'importanza e l'urgenza della quistione per la singolarità della sua natura. Certo v'è terreno men preparato al socialismo fra noi, perchè v'è più bassa che altrove la coltura del popolo, perchè v'è appena nascente la grande industria, perchè in più di mezzo il paese, come gli stessi socialisti riconoscono, il ceto operaio come ente collettivo non è ancor nato, e nell'altra metà è nato appena. Ma non dobbiamo credere che non esista l'esercito perchè, invece di esser serrato in colonne, è sparso in tiragliatori, nè che mancanza d'organamento voglia dir mancanza d'elementi, nè che non vi sian le passioni perchè mancano o sono informi le idee. E in questo appunto, per chi ben considera, dovrebbero riconoscer gli illusi il maggior pericolo. Le verità generali d'ordine sociale e economiche—è un vecchio assioma—si ritrovano allo stato di intuizione istintiva anche nell'animo dei più incolti, e però anche la parte più incolta del proletariato italiano, confusamente, le intende. Senonchè le idee—come dice un grande psicologo—seminate in menti incolte e feconde si svolgono in escrescenze selvagge e si trasformano in chimere mostruose; che è quel che avviene fra noi dove è tanto maggior temerità di dottrine quanto minor capacità vera di metter in atto anche le più ragionevoli. In luogo di rallegrarci, dunque, dell'ignoranza e della mancanza d'ordinamento collettivo che rallentano il moto fra noi, avremmo gran ragione di dolercene, poichè è appunto quest'ignoranza e questo disordine che fa le moltitudini impazienti e turbolente, come quelle in cui il furore dei desideri non è temperato dalla coscienza sicura delle proprie forze e del proprio avvenire, nè dalla soddisfazione che hanno i ceti operai d'altri paesi di sentire la saldezza del proprio organesimo e di numerare giorno per giorno i loro progressi e le loro vittorie, donde ricavan la virtù di aspettare con pacatezza e di apparecchiarsi con raccoglimento. È perchè là son colti e ordinati che studiano e discutono; è perchè studiano e discutono che vedono tutte le difficoltà del problema sociale e non credono che si possa risolvere d'un colpo. Ed è perchè le classi superiori non oppongon loro, come tra noi, o un'indifferenza o una negazione assoluta, l'una e l'altra insensata, ed entrambi irritanti, che non trascorrono e neppure minaccian di trascorrere alla violenza.
In verità, se anche fossi nei panni del più egoista e del più pauroso dei conservatori, io desidererei che le nostre classi proletarie, percorrendo il cammino di trent'anni in un solo, arrivassero d'un tratto al grado di maturità civile che hanno raggiunto nella Germania e nel Belgio; lo desidererei per esser ben certo che questo spostamento, che è col tempo inevitabile, del centro di gravità del sistema sociale dalle classi medie alle inferiori, si compisse senza scosse funeste. Io vorrei esser persuaso d'ogni più sacra verità come sono di questa: che compie un'opera santa e benefica per tutti ogni colto giovine italiano, il quale, qualunque sia il suo giudizio intorno all'essenza e all'avvenire del socialismo, ne studia con amore le cause, le dottrine e le vicende per poterle esporre con schiettezza al popolo e fargliele comprendere e discuterle con lui e sfrondargli le illusioni pericolose ed eccitarlo, aiutarlo a istruirsi, a ordinarsi, a mettersi in grado di attuare sensatamente, quando il giorno verrà, la maggior parte possibile delle sue aspirazioni. Per questo, invece di dirvi:—Lasciate stare la quistione sociale perchè siete italiani,—vi dico:—Occupatevene tanto più perchè siete italiani—fate quanto è in voi perchè il vostro popolo non rimanga troppo addietro degli altri su questa via, se volete che, quando vegga gli altri vicini alla meta, non sia tentato di raggiungerli con uno sbalzo che lo potrebbe travolgere in un precipizio, nel quale sareste travolti voi pure. Mettetevi alla sua testa e ai suoi fianchi invece di sbarrargli la strada o di lasciarlo andar solo, come l'istinto e il caso lo movono. Tempo verrà in cui sarete ringraziati e benedetti da coloro stessi che ora vi supplicano o vi minacciano perchè vi tiriate in disparte. Son tutti concordi nell'eccitarvi ad amare e a servir la patria. Ebbene, l'amerete e la servirete sapientemente in tal modo. Perchè la patria non è soltanto la terra, la storia e la bandiera: la patria è viscere e sangue umano, e la felicità del popolo sta sopra alla potenza dello Stato, e la giustizia è più grande della gloria.
V'è poi il coro dei mille, i quali vi gridano:—Passate oltre: la guarigione delle infermità sociali è un'utopia.—Ma non l'ha dunque ancora sfatato la storia del mondo questo grido malauguroso, tante volte sbugiardato quante son le pietre miliari del cammino della civiltà, questa vuota parola così comoda alla infingardaggine intellettuale, così utile agli interessi minacciati, così abusata da tutte le ignoranze e da tutte le paure, con la quale si sono vilipese, beffate, respinte tutte le conquiste più gloriose della mente umana?
Voi tutti vi ricordate la notte tempestosa dell'«Innominato», quando sul punto di bruciarsi le cervella con un colpo di pistola per liberarsi dai rimorsi che lo dilaniano, egli domanda a sè stesso:—E se quest'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre come se fosse cosa sicura, se quest'altra vita, non c'è, se è un'invenzione dei preti; che fo io? perchè morire? che cos'importa quello che ho fatto?… È una pazzia la mia!—Ma allora gli balena un pensiero tremendo:—E se c'è quest'altra vita!—Voi rammentate pure che cosa avviene a quel dubbio nell'anima sua.—Ebbene, un che di simile segue nell'anima di chi è agitato dalla nuova idea. Egli si domanda:—E se questa possibilità, che tanti affermano come sicura, di scemare i dolori del mondo, di far trionfare tra gli uomini la fraternità e la giustizia, se questa idea è un'utopia, un sogno di filantropi allucinati, se avesse ragione quel famoso parroco inglese che fissò il destino dell'umanità tra due formole matematiche, che cosa importa allora quello ch'io faccia? Perchè ho da combattere i privilegi di cui godo, da rendermi inviso alla classe in cui son nato, da torturarmi il cuore e il cervello per mali che non hanno rimedio, invece di badare ai miei interessi e di viver beato?… È una pazzia la mia!—Ma a questo punto balena anche a lui un altro pensiero.—E se non fosse un'utopia?—ed egli pure, a questo pensiero, è stretto da un senso di sgomento. Sì, e se non fosse un'utopia?—Utopia si può giudicare ogni idea che non abbia ancor avuto la prova dell'attuazione, e quale grande idea sociale fu mai provata prima che accettata? E la concordia di molti nel crederla attuabile non è una delle prime condizioni dell'attuabilità d'ogni idea? Sì, e se a questo organamento sociale che spreme la ricchezza per uno dalle vene e dalle ossa di mille, che condanna milioni d'uomini a un lavoro da bruti, non confortato da alcuna dolcezza di vita, da alcun godimento intellettuale, da alcuna speranza di sorte migliore, che smembra milioni di famiglie, che fa di milioni di case un inferno, che sfrutta ed opprime la donna, e decima, corrompe e deforma l'infanzia; se a questo stato di cose che, assoggettando una parte dei lavoratori a una fatica inumana, ne ricaccia nell'ozio forzato e nella fame l'altra parte, metà della quale, dopo aver lottato invano per risalire, cade nella mendicità, nella prostituzione e nel delitto; se a questa sciagurata divisione del mondo che, provocando di sotto l'odio e di sopra il terrore, fa somigliare la società civile a un triste castello dell'età media, dove la famiglia dei signori, seduta a banchetto, rabbrividisce al suono dei singhiozzi e delle imprecazioni dei prigionieri sepolti sotto i suoi piedi; se a questo mucchio d'orrori ci fosse davvero un rimedio, che uomo sarei io che non me ne curo, che non cerco di giovare quanto posso a scemarlo, che anzi concorro, pur non volendo, ad accrescerlo, e voglio fabbricarvi su la mia fortuna? Con che fronte posso io parlare di progresso, di civiltà, di fratellanza, di patria? E quand'anche fosse un'utopia il rinnovamento della società che ci propongono, quando non ci fosse che una minima parte di idee sane e di speranze fondate, non dovrei dedicare ogni mia forza a far sì che almeno quella minima parte s'attuasse? Utopia! S'è spenta pochi giorni sono quella menta vasta e limpida d'economista, che, or fa trent'anni, metteva il mondo a rumore con quella sua sentenza:—Il diritto di proprietà si modificherà nel senso sociale, o si sfascierà il consorzio civile.—È stato sepolto ieri quel generoso cardinale Manning che