Mater dolorosa. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Mater dolorosa - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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fa freddo. È meglio che ci ritiriamo,—disse il duca alla moglie.

      —Scendiamo pure.

      —Che cosa vuoi mangiare?…

      —Non ho fame…

      —Vuoi forse che pranzi solo?… Non posso più avere mia figlia, nè mio genero… Ho sofferto e soffro abbastanza per colpa tua!

      In quel punto il capitano, che passava per caso, esclamò rivolgendosi a Maria:—Badi, duchessa, farebbe bene a coprirsi…

      —Lo dicevo adesso adesso!… Prendi il mio plaid, cara…—e il duca lo offrì subito e con molta insistenza a Maria.—Vuol favorire con noi, capitano?—Il capitano accettò l'invito, e scesero tutti insieme nella sala da pranzo.

      Il duca era un gentiluomo compito. Dalla parola melata, dal sorriso facile e complimentoso, discorreva di tutto con una verbosità assordante e frettolosa. Parlò, col capitano, di nautica, di commercio, di politica, della pesca del tonno, dell'America e dell'emigrazione.

      L'affabilità del duca aveva una dote particolare: teneva le persone sempre allo stesso posto, come il primo giorno che le avea conosciute. Le strette di mano erano frequenti, le scappellate profonde, ma la cordialità era solo apparente. Per altro chi non lo frequentava, chi non poteva conoscerlo bene, lo diceva un uomo tutto cuore, alla mano, senza superbia… Simpatia invece non ne avevano troppa per la duchessa, che parlava pochissimo, che stava troppo sulle sue, e la chiamavano la Madonna di neve. E così appunto aveva pensato di lei, quella sera, anche il capitano della Newton.

      Maria non vedeva l'ora di trovarsi sola, e tentava ogni via perchè terminasse la conversazione, mentre il duca faceva del suo meglio per tirare innanzi. Egli lo sapeva pur troppo: se fosse andato a letto prima del solito, non avrebbe più dormito. Solamente quando le dieci e mezzo suonarono all'orologio della sala, egli disse alla moglie:—Vuoi ritirarti, cara?… Sei stanca, avrai bisogno di riposarti.

      Il capitano si alzò e accompagnò la duchessa sulla porta della cabina, dov'era aspettata dalla cameriera. Maria la licenziò quasi subito, si chiuse a chiave… e finalmente, dopo tante ore di martirio, era sola. Allora quasi fosse soffocata dalle vesti, se le strappò dal petto, e prorompendo in un pianto secco… in un singulto, in uno schianto senza lacrime, cadde prostrata in ginocchio mormorando:—Dio! Dio mio! fatemi morire!… fatemi morire!…—E così rimase tutta la notte gemendo e singhiozzando rannicchiata, colla febbre, in un cantuccio della cabina.

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      Nobile, ricco, tutt'altro che imbecille, coll'aureola dell'uomo pubblico. Prospero Anatolio aveva avuto tutti i requisiti per essere fortunato in galanteria; invece colle donne egli non era stato mai un Cristoforo Colombo… solo qualche volta un Amerigo Vespucci. E ciò non per altro che per un difetto di pronuncia; difetto che non gli era abituale, ma che gli si faceva pur troppo sensibilissimo quando si trovava vicino a una donna che gli piaceva.

      Il povero duca, che fra gli amici parlava spedito, che nel Consiglio Comunale godeva fama di eloquente, quando si metteva a far la corte alle signore si confondeva, ciangottava fra i checchechè e i chicchichì, e invece di un sorriso di aggradimento, otteneva una risatina di buon umore.

      E a proposito della balbuzie intempestiva del duca d'Eleda, nel gran caffè di Borghignano si raccontava certo fatterello piuttosto piccante.

      Un giorno, alla Camera, il duca d'Eleda doveva fare un lungo discorso sul nuovo trattato di commercio tra l'Italia e il Belgio.

      Il nome del relatore, nuovo alle battaglie parlamentari, la importanza della tornata, avevano popolata l'aula e le tribune. Il duca incomincia a discorrere. La sua parola chiara, facile, senza affettati ghirigori, correva spedita e ascoltata, quando nella tribuna, fra le signore, comparisce madamigella Blasch, che aveva da poco tempo sostituita la Clarence-Lory nella troupe del Maynadier.

      Fra questa giovane virtuosa… di canto e il neo-deputato esisteva da poco tempo un'intimità molto sospettata. Era una tentazione… superlativa, madamigella Blasch, e vestiva, in quel giorno, un abito di velluto turchino-mare molto attillato. Il volto aveva freschissimo, le labbra tumide, l'occhio stanco. Il duca la vede… Che cosa mai gli ricorda quella donna? Non si sa; ma da un momento all'altro l'agitazione s'impossessa di lui, la paura del pericolo lo confonde, perde la parola, il pensiero divaga, egli impallidisce… è perduto! Allora cocotoni, cu-cuoi, co-commercio, e i prodotti d'esportazione e d'importazione passano fra le risa e i commenti degli onorevoli.

      Intanto Prospero Anatolio passava la trentina, e sua madre venendo a morire gli balbettò un nome e una preghiera. La preghiera di finirla con la sua vita da scapolo, il nome della signorina Maria di Santo Fiore.

      Era il luglio del sessantuno. La Camera, chiusa dopo la morte del conte di Cavour, non occupava gli ozi del duca; l'infedeltà scoperta di un'amica gli aveva messo nell'animo quello sconforto che qualche volta persuade l'uomo anche a prender moglie e, ad ogni costo poi, non avrebbe voluta estinta la lunga discendenza dei d'Eleda. Tutto ciò calcolato, strinse la mano alla morente, giurando che il nome gli resterebbe impresso nel cuore, e la preghiera sarebbe stata esaudita.

      Il duca viveva molto a Torino, allora capitale del regno, e nelle sue corse a Borghignano era un miracolo se interveniva ad una serata di sua madre. Quelle riunioni informate al più austero cerimoniale lo seccavano cordialmente.

      Ancora, dunque, egli non conosceva affatto la signorina Maria. Ma sapeva bene che la geologia del Santo Fiore si perdeva nella notte dei secoli, e che la giovinetta, ultimo rampollo dell'albero vetusto, aveva ereditato dalla madre inglese l'indole, il sangue, la bionda e pallida bellezza… e centomila lire di rendita.

      Presto egli fece la domanda, e la risposta, favorevole, fu data ancora più presto. I parenti della fanciulla, orfana da vario tempo, diedero una festa di famiglia, dove la high-life di Borghignano fece pompa di tutto il suo splendore e dove Prospero Anatolio incontrò Maria per la prima volta.

      Maria, bella a trentacinque anni, allora che ne aveva sedici era una meraviglia. Nude le spalle, nude le braccia, nudo il seno, fra le rose del suo abito bianco, tutta quella nudità, alla quale era costretta per la prima volta, le tingeva coll'amabile rossore della verecondia le carni alabastrine. Il cuore le batteva forte forte, e la commozione delle gioie promesse e fantastiche, le angosce dell'ignoto, i segreti turbamenti dell'innocenza, la rendeano più bella e più attraente.

      Prospero Anatolio fu sedotto, affascinato, e:—Vi a-a-aspetta nella mia casa il po-posto venerato di mia madre—balbettò alla fanciulla.

      Maria levò sopra di lui il suo sguardo dolce, sereno: e la goffaggine, la confusione del duca, non dissiparono la favorevole prevenzione che ella già sentiva per l'uomo colto e reputato che le stava dinanzi. Invece gli fu grata di quella goffaggine, di quella confusione, che la povera illusa credeva fosse il turbamento dell'amore.

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      Ma non era il turbamento dell'amore. Era il turbamento dei sensi.

      A Maria il duca Prospero Anatolio non domandò che due cose: il piacere e un figlio maschio.

      Egli non pensò mai a farsene un'amica, la cara compagna e l'inspiratrice del suo lavoro, la consigliera, il conforto nelle ore della sconfitta e dello scoraggiamento.

      Nè alla donna, a sua moglie, a questo essere, ch'egli a torto o a ragione giudicava inferiore all'uomo, si degnò mai di stender la mano per inalzarlo; invece si compiacque, autocrate capriccioso, di dominarlo dall'alto della propria superiorità. Carezze, baci, moine, specialmente in principio; ma i tesori della mente e dell'anima di sua moglie nè prima nè dopo conobbe o curò, forse distratto, forse incapace d'intenderli; confidenza insomma gliene concedeva pochina, stima del pari,


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