Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana. Giuseppe Rovani

Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana - Giuseppe Rovani


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e continuava a mandar grida.

      —E tu cos'hai fatto allora?

      —Per me non sarei già disceso, cari signori; ma quando m'accorsi ch'era il Palavicino, gli diedi una voce e dissi: Signor marchese, si faccia coraggio! e venni abbasso e uscii sulla strada. Dico al marchese: Fate a modo mio, bevete un bicchiere di Monterobbio, che ne ho ancora una botticina per fortuna… e so cos'è spavento…. A queste mie parole lui s'è messo a ridere… e….

      —Diavolo… volevi che si sconciasse per sì poco uno che fu alla battaglia di Ravenna e di Novara?

      —In quanto a questo avete torto, chè la guerra è tutt'altro gioco…. Ma, come dicevo, lui s'è messo a ridere e mi prese la mano, già sapete quanto è affabile quel signore, e mi fece tenere un mezzo ducatone, che è questo qui che vedete, ancor nuovo di zecca, e mi disse: Il Monterobbio lo berrete voi. Dopo si volse un tratto all'immagine della Madonna, e levatosi il berretto, mi parve dicesse delle divozioni, e subito dopo tornò a Palazzo.

      A questo punto pareva che il barbiere avesse finito di parlare, ma si volse in quella ad un altro.

      —Vorrei mò sapere precisamente, diceva quel tale, come fu codesta storia di jeri notte?

      —Ecco qui; quand'io mi sono affacciato gli assassini fuggivano….

      —Oh, basta! entrarono allora a dire ad una voce molti borghesi, che quella storia l'avean già sentita a ripetere più di tre e più di quattro volte. Di questo ne sappiamo assai…. Adesso sarebbe una gran cosa il poter sapere chi ha pagati i sicarj….

      —Questo è bene quanto vorrei sapere anch'io; ma… fammi indovin….

      —Io l'avrei bene il mio sospetto.

      —Sentiamo, sentiamo, sentiamo.

      —Siccome ognun sa i brutti guai che intervennero fra il giovane ed il vecchio marchese suo padre, e in che duro modo esso abbia cacciato fuor di casa il flgliuol suo, e che anche adesso lo vorrebbe morto, tanto è trasportato dall'ira, perchè sia così stretto amico dello Sforza, pensando poi che domani il giovane marchese sarà a combattere contro i Francesi, pe' quali il pessimo vecchio darebbe l'anima, così crederei….

      —Oibò, oibò! che dite mai?… un padre?… Ma un padre può bene far tutto che vuole, non mai attentare alla vita del proprio figliuolo…. Oibò!… che diavolo avete detto?

      —Ma cosa so io?… se ne odono di così strane a' nostri di, che….

      —No-no-no, entrò a parlare un terzo, che s'era allora allora accostato al crocchio, e al quale tutti fecer largo; Carl'Ambrogio ha parlato bene…. Un padre, per quanti dispetti possa avere, non si attenterà mai di fare una così infame azione. Sapete piuttosto cosa sarà?… Sarà, che siccome a' Francesi è noto che il Palavicino è caldo amico dello Sforza, e che la sua buona spada pesa per dieci, e va poi innanzi a tutti nell'odiar loro, così crederei….

      —Oh questa è grossa, è grossa, il mio caro Burigozzo.

      —Ma lasciatemi dire.

      —Ho compreso bene, non si sbaglia; ma è grossa, torno a ripetere. Se dà la sorte, i Francesi che voi dite non san forse nemmanco che esista il marchese. Il marchese è noto qui fra noi, perchè semina, come suol dirsi, i ducati per le contrade. È noto pei grossi guai che ha detto qui Carl'Ambrogio, per le tante lagrime che è costato a quella cara donna di sua madre, la quale avrebbe avuto a ringraziar Dio se fosse caduta morta il dì stesso che andò sposa del vecchio marchese: per queste cose dunque esso è noto fra noi; ma fuori del Ducato chi volete che sappia nulla di tutto ciò? E i Francesi?… Ma posto anche che i Francesi conoscan lui, com'io conosco voi…. e così…. che credereste?… potrebbe lor forse dar ombra codesto giovane, per quanto sia buona la lama della sua spada?…. È grossa, insomma; è grossa, e non mi par vero che abbiate parlato voi!

      Facendo questi e simili discorsi quelle tre o quattro persone, passo passo, allontanandosi da quel luogo, trassero sotto la piazza del duomo, attraversata la quale, si ridussero verso al portico de' Figini, dove tornarono ad unirsi in crocchio permanente innanzi ad una bottega di merciaio.

      Se un pittore, al quale un comittente, buon amico de' tempi andati, desse a ritrarre in tela una radunata di popolo nel principio del secolo XVI sulla piazza del duomo, si credesse, senza passare più in là, di poter rispondere al bell'assunto, col fare il suo bozzetto ritraendo la piazza quale si presenta oggidì, farebbe assai male le cose sue.

      Nè basta che anche in oggi sia quell'area medesima di tre secoli fanno, quel medesimo duomo; quel portico, quel palazzo ducale istesso. La mano del tempo, quella degli uomini, il progresso, e talvolta, se pur vuolsi, il regresso, coll'assiduo mutare e rimutare, tanto e poi tanto vi ha tolto ed aggiunto, che se il buon Burigozzo, che noi abbiam veduto ridursi alla sua bottega, tornasse, per un miracolo, tra' vivi, assai penerebbe ad orientarsi.

      Quella gran macchina del duomo incompiuta, coperta di tanti impalcamenti quante sono adesso le sue guglie, era tale ormai che già faceva inarcar le ciglia di stupore a' riguardanti; ed anzi non dando luogo a determinare precisamente, per la sua imperfezione medesima, quel che ne sarebbe riuscito, condotta che fosse all'ultimo termine, faceva che nella fantasia degli spettatori, come suole avvenire, più ancora se ne ampliassero le già colossali dimensioni. Nè la natura e più che tutto la forma degli edifizi che le stavano intorno contrastavano a quella gotica mole. Il portico de' Figini, surto da quasi due secoli, non presentava quell'incomportabile miscuglio d'architettura che tanto offende oggidì. Su quelle colonne, su quegli archi a sesto poggiava un sul piano di case co' finestroni di forma al tutto gotica, ornati di pietre cotte ad arabeschi e aventi nel mezzo una sottile colonna sulla quale si congiungevano due piccoli archi; tutta quella parte d'edificio che dalle colonne s'innalzava al tetto, per la forma, per gli ornati, per la tinta di un rosso fatto cupo dal tempo, rendeva immagine press'a poco dell'odierna facciata dell'Ospedal Maggiore. Rimpetto al portico dove or sorge quel rozzissimo corpo d'edifizi, senza un colorito al mondo nè di tempi, nè di civiltà, nè fosse pur anco di vetusta barbarie, l'area era allora affatto sgombra, e soltanto sorgeva qui e colà alcune trabacche, le quali per altro non impedivano che l'occhio da quel lato spaziasse per un ambito infinitamente più ampio che non sia oggidì, e per cui tutto si vedeva il palazzo ducale, d'architettura gotica esso pure, esso pure contesto di pietre cotte, alle quali il tempo aveva dato quella tinta severa, che segna, se può passar l'espressione, l'aristocrazia degli edifizi; archi a sesto acuto in fila, finestroni larghi, alti, a due archi, ad ornati arabeschi. Stemma visconteo e sforzesco in vetta a tutte le porte.

      L'uniformità dunque dell'architettura in due distinti edifizi che sorgevano accanto al duomo, la loro tinta severa era ben lontana dal produrre quella sensazione disgustosa che oggi per avventura può nascere in chi stia contemplando quel pensiero sublime, gigantesco, incomparabile del tempio, in mezzo alle tante incompatibili, dirò, sgrammaticature che gli stanno intorno.

      Un altro edifizio poi concorreva col resto a far sì che la piazza si mostrasse allora con aspetto sì diverso da quel d'oggigiorno, ed era la chiesa di santa Tecla, l'antichissima ausiliaria del maggior tempio milanese, la quale gli sorgeva quasi di fronte e guardava colla facciata la strada Marzia che le si apriva rimpetto.

      E quale all'epoca, a cui ci troviamo, presentavasi la piazza, si può anche dire si presentasse la città, su la cui faccia architettonica, parlando de' principali edifìzi, v'era un colorito di età e di grandezza che presso noi è al tutto scomparsa. Ad onore del vero si ha a dire bensì che immensamente ha guadagnato in quanto a comodo ed a pulitezza; e come potrebbe essere altrimenti? che scomparvero quelle vie bistorte, quelle fronti mostruose di case, gl'impuri angiporti, le corrompenti chiaviche, le lobbie, i cavalcavia, le bicocche, le impalcature che allora la deturpavano; ma con queste quante altre cose scomparvero! Quanto ha perduto in faccia all'arte, in faccia alla storia! A vederla com'è oggi, sembra in tutto una città surta da ieri; per conoscere la sua vita è mestieri ricorrere al volume, nè per richiamarsi in mente le sue epoche memorabili non basta un colpo d'occhio che si getti su lei da qualche eminenza; tutto fu raschiato via, parrebbe a bell'apposta, dagli artistici pregiudizi, costringendola, direi quasi, a far la figura d'un patrizio, il cui nome per demeriti


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