Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana. Giuseppe Rovani

Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana - Giuseppe Rovani


Скачать книгу
ed è probabile che il giovane non arrivi a saper nulla prima della battaglia. In ogni modo lasciate che le cose camminin da sè, nè gli dite cosa che possa metterlo in apprensione.

      —Io non parlerò, ve ne do parola; ma se non lo saprà da me, lo saprà bene da altri, ch'egli è impossibile che non ne sia trapelato nulla in Milano… a quest'ora la figlia stessa del Bentivoglio troverà bene il mezzo di renderlo avvisato di tutto.

      —Sapete pure che il Palavicino non ha la pratica della casa del Bentivoglio, nè in altro luogo parlò mai alla Ginevra che in questo palazzo medesimo in occasione di pubbliche feste. Però, essendo probabile che la cosa gli rimanga segreta, attendete voi pure a far quello ch'io vi dico che sarà pel meglio, e il suo coraggio non gli verrà scemato così da questa nuova sciagura.

      —La stornassero almeno da lui i suoi santi protettori, come hanno stornato l'attentato di ieri notte!

      —Così fosse, lo dico io pure.

      —A proposito, messere… non han deposto altro i quattro assalitori?

      —Null'altro… ma da quello che mi disse il Palavicino stesso, tengo il colpo sia venuto dal Lautrec.

      —Dal Lautrec? il maresciallo di Francia?

      —Da lui stesso; fatevi raccontare ogni cosa dal Palavicino stasera, e vedrete anche voi come la mia e la sua congettura non sia in fallo, sebbene di certissimo non ci sia nulla ancora. Sentirete….

      In questa si spalancò la porta di prospetto, e il duca in mezzo a due uomini di camera si presentò a coloro che lo aspettavano. Il Morone e il cardinale di Sion gli andarono incontro e lo condussero nel mezzo della sala, presso al duca di Bari, che non si mosse.

      I due figli di Lodovico il Moro, il primo ed il secondogenito si trovavano vicini; tutti gli sguardi di quanti si trovavano in quella sala caddero sui due fratelli, e non vi fu chi non pensasse allora, che le sorti sarebbero forse corse più propizie per Milano se Francesco Sforza fosse stato il primogenito invece di Massimiliano.

      È una cosa curiosa che di quel miscuglio di grandi virtù e di molti vizi che distinsero la dinastia sforzesca, quando si venne a due figli di Lodovico, che erano destinati a chiuderla per sempre, avvenne, quasi potrebbe dirsi una compiuta secrezione.

      Osservate le restrizioni debite, e avuto riguardo ad una quasi degenerazione, per la quale e vizi e virtù, passando di padre in figlio, grado grado si eran venuti dilavando, pare che i destini abbiano diviso in due esatte metà quel retaggio, come a compensazione ai vantaggi della primogenitura abbiano accollato il tristo fardello di tutti i vizi della dinastia, ed alla secondogenitura abbian dato per conforto le virtù, onde la dinastia stessa, al primo comparire sulla scena del mondo, era stata splendida di una luce non moritura. Persin nell'aspetto, quantunque tra due fratelli fosse grandissima la somiglianza, c'era qualche cosa che dinotava questa esatta divisione. A Massimiliano era toccata quella bellezza morbida e fiacca che già abbiamo avuto il tempo di ammirare. A Francesco invece l'ampia fronte, le linee grandiose del primo Sforza, l'acuta e vivace bellezza della Beatrice sua madre, e un po' di quel bruno che aveva dato il secondo battesimo a suo padre Lodovico.

      Il Morone, dette in prima alcune parole al duca Massimiliano, il quale senza mai aprir bocca solo si accontentò di mostrare una faccia stravolta e accorata, si volse al cardinale di Sion dicendogli, che non era a porsi altro tempo in mezzo, e tosto desse gli ordini alle labarde di precedere il duca. Così tornò a spalancarsi la gran porta, e tutti quanti stavano assembrati in quella sala, l'uno dopo l'altro uscirono. Il duca in mezzo al Morone ed al cardinale, dietro lui il duca di Bari che si era accompagnato col Palavicino, e in seguito tutti gli altri gentiluomini.

      Discesi al piede della gran scala, ventiquattro uomini con torce accese stavano ad aspettare intorno ad una larga botola con aperta cateratta. Tra il palazzo ducale e il castello di Porta Giovia era stata aperta una via sotterranea di comunicazione, la quale veniva praticata ogniqualvolta piacesse al duca recarsi in castello senza mostrarsi al popolo. In questa straordinaria occasione il Morone aveva consigliato il duca ad uscire per di là, e quella botola conduceva appunto alla via sotterranea.

      —Attendete a star di buon animo, disse il Morone al duca quando fu per discendere; stasera sarò io medesimo in castello; e si licenziò.

      Accompagnato dal cardinale e preceduto da sei torcie, discese dunque pel primo il giovane duca. Dopo lui discese tutto il seguito in mezzo alle altre diciotto torcie. Quando s'udì il rimbombo che fece la cateratta rivestita di ferramenti nel cadere sull'incastro della botola, tutti si misero in via.

      Fu un viaggio lugubre quanto mai poteva esserlo, nè il duca aprì mai bocca, nè altri. Solo il duca Francesco, che camminava a paro col Palavicino, gli disse un tratto a voce sommessa e come di fuga:—Il Morone mi ha fatto parola del Lautrec; in castello mi dirai tu il resto.

      E tenendo stretta la mano del Manfredo con un'affabilità ed amorevolezza straordinarie non aggiunse altro finchè durò il cammino.

      Ma noi, cogliendo questo ritaglio di tempo, terremo qualche parola del Palavicino, per quel tanto che può bastare a mettere in luce alcune condizioni particolari alla vita di lui.

      Figlio al marchese Anton Maria Palavicino ed alla contessa Giulia Flisca, che, giovinetta, aveva sposato il marchese già vedovo, già padre di quattro figli e già vecchio, trovò nel seno della propria casa più di quanto poteva bastare per alienarlo da lei e dal ceto patrizio a cui la famiglia apparteneva. Fanciullo, fu affidato alle cure degli uomini che allora più fiorivano in Milano per lode di buoni studi e d'ingegno. Giovinetto, ebbe a maestri il Merula, il Calcondila, il Minuziano; studiò geometria e logica dalle pubbliche cattedre istituite da quel Tomaso Piatti stato in sì gran favore presso Lodovico il Moro. Oltre l'ingegno non comune, aveva dati segni di un'indole al tutto particolare, un misto di procelloso e di tenerissimo, di violento e d'affettuoso, con eccessi di giocondità e di concentrazione profonda. Qui racconteremo succintamente due fatti leggeri in sè stessi, ma che, mentre valgono a dare alcuna idea di codesto suo temperamento, potranno anche far conoscere i primissimi motivi, dai quali in certo modo fu determinata la vocazione dell'intera sua vita.

      Trovandosi, quand'era fanciullo di circa otto anni, presente al racconto che Cristoforo Palavicino, fratello di Anton Maria, faceva del modo col quale Lodovico il Moro era stato preso da' Francesi, fu insensibilmente attirato dalle parole dello zio, il quale, a differenza del fratello, essendo piuttosto sforzesco, narrava il fatto con quell'accento di verità e di compassione che si imprime negli animi. Quando si fu al punto dell'imprigionamento dello Sforza, la contessa Giulia, che si teneva in grembo il fanciullo, vide cadere due grosse lagrime sulle guance di lui e tremare di commozione i suoi labbruzzi infantili. Nè questo bastò; ma quello che fece una profonda impressione in tutti gli astanti, quando si parlò dei due figli del Moro, dei pianti disperati del secondogenito Francesco nel momento che fu staccato da suo padre, il fanciullo Manfredo, che lo aveva conosciuto e s'era trovato spesso con lui ne' giardini ducali, diede in un sì dirotto pianto con tanta furia di singhiozzi, che la madre penò molto ad acquetarlo; e fin da quel momento ogni qualvolta in sua presenza parlavasi di Francesi si riscuoteva tutto, e la bella sua faccia si rannuvolava.

      Nel 1507 un'altra circostanza accrebbe ancor più quell'avversione che il giovinetto aveva per Francia. Venuto re Luigi in Milano per la seconda volta, il marchese Anton Maria volle invitarlo ad uno splendido banchetto nel proprio palazzo. Godeva quel re intrattenersi famigliarmente con tutti, e dilettandosi a far domande ora all'uno, ora all'altro, s'era pure in quel dì rivolto al giovane Manfredo, il quale o stesse sopra di sè impensierito, o fosse dispettoso di quella domanda, non seppe o non volle rispondere. Il re attribuendo a quel silenzio una causa troppo lontana dal vero: questo giovane dev'essere ben sciocco, disse in francese ad uno de' suoi cortigiani, e si volse altrove. L'indole altiera di Manfredo, che aveva comprese troppo bene quelle parole, rimase così colpita e piagata, come se gli fosse avvenuta qualche sventura, e Luigi gli diventò così odioso, che ad arrovesciargli l'animo non v'era cosa più pronta che nominargli quel re.

      Ma l'anno 1512 fu per lui ben più terribilmente memorabile. Le cronache non raccontano con chiarezza il fatto; ma tra il Palavicino e il nipote del governatore Chaumont intervenne una gravissima contesa


Скачать книгу