Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana. Giuseppe Rovani
non so nulla.
—Dopo l'attentato è questa la prima volta che mi trovo con te. Ma pure te ne dovrei aver parlato altra volta.
—Ciò non può essere, se nulla me n'è rimasto in memoria.
—Allora ti dirò tutto in breve. Ma rechiamoci in prima alla camera dell'ammenda.
—Non so se mi convenga venir teco, nè, a dir la verità, vorrei esser riconosciuto potendo venir loro in mente ch'io avessi il diritto di grazia.
—Ciò non avverrà; possiamo andare.
Così, passando in mezzo a cento gruppi di soldati, si recarono nel cortile, detto della Torretta. Una labarda che precedeva il duca salì a far l'imbasciata al custode. Questo tosto discese.
—Si vorrebbe entrar nella camera dell'ammenda, gli disse il duca.
—I condannati per l'attentato contro il marchese Palavicino, se son quelli che volete vedere, ci furono condotti oggi di fatto. Io sono agli ordini di V. E.
—Questo che è con me è il marchese Palavicino appunto. È lui che vuol vederli.
Il custode allora, seguito da essi, risalì la scala e corse in fretta a cingersi la spada. Li fece passare per mille andirivieni e corritoi, ne' quali la tetraggine serrava gli animi. Finalmente il custode, spalancata una grossa imposta di legno di quercia tutta rivestita di ferro:
—Eccoli, disse, sono costoro.
La scena che si offerse a' due riguardanti era truce e curiosa nel medesimo tempo. Su ciascuno dei quattro angoli d'un carcere a volta, ampio e nano, v'eran quattro letti di lucido legno inchiodati a terra. Legato a ciascun letto con una grossa catena che poteva esser lunga forse tre passi un uomo. La foggia dei vestiti, benchè diversi l'uno dall'altro, pure li dava a conoscere per soldati. Accostandosi poi a ciascuno di essi, non si durava fatica a conoscere che non appartenevan tutti ad una nazione medesima. Ed erano infatti due Piccardi, un Valacco, un Italiano. Stando a quanto s'era potuto raccogliere dalle loro deposizioni, all'Italiano, come al più esperto delle vie di Milano, era stato dato carico di far la scorta agli altri tre, i quali non avevan poi a far altro che ferire.
Il Palavicino, dopo aver gettata un'occhiata su ciascheduno chiese al custode se avesser deposto altro in aggiunta alla confessione del dì prima, e avendogli il custode fatto cenno di no, volle accostarsi allora ad uno di essi per tentarlo in qualche modo, e il primo a cui si presentò per combinazione, fu il Valacco.
Disteso quant'era lungo sul nudo legno, immobile, calmo, ritto come se facesse l'esercizio, cinto così strettamente ai fianchi che pareva avesse il corpo diviso per metà, rendeva la figura di una gran mosca, con un vestimento compiuto alla foggia tartara, poco diverso da quello di un odierno ungaro, (perchè costumi e civiltà in quelle regioni puntandosi alla consuetudine come un mulo, che adombri, alla terra, non hanno voluto, per battere che siasi fatto, dar mai un passo innanzi.) Aveva quell'ossatura di teschio più larga che lunga che distingue la razza tartarica, naso schiacciato, bocca larga e labbro gonfio, coperto da un filo di pelo, nero, lungo, appuntato, lucido come la coda di un sorcio impiastricciata di lardo. La tinta del volto era tutta soffusa d'un bel giallo d'ottone misto ad una leggiera dose di verde di rame, zigomatiche alte, occhi tondi e grossi ed una fronte così bassa e angusta che l'intelligenza ci doveva star comoda come un condannato ai forni di Monza. Da quel complesso insomma si conosceva un vero discendente di Cam, il Maledetto.
Allora il Palavicino si provò a scuoterlo da quello stupido letargo, e fattosi dire dal custode il nome di colui, lo chiamò ad alta voce.
Il Valacco piegò un momento la testa.
—Sai tu perchè sei qui? gli domandò il Palavicino.
Il Valacco stette un momento cogli occhi fissi in chi gli aveva fatta quella domanda, poi rispose:
—Credo bene di saperlo.
—E a che pensi tu adesso?
—A questa carogna di custode, il quale mi ha dato del pessimo lardo che non si può masticare.
—Faresti assai meglio a pensare a quello che sarai tu domani, gli disse allora il custode.
Il Valacco crollò più d'una volta la testa, poi disse:
—Capisco quel che vuoi dire. L'uomo che venne qui un momento fa, tutto bigio come un bufolo del Niester, credo bene che fosse il boja…
—Era lui di fatto.
—Va benissimo.
—E a momenti sarà qui il frate…
—Perchè il frate? Io non voglio frati.
—È per la salute dell'anima tua.
Il Valacco tenne un istante gli occhi fissi come uno scemo al quale siasi dato un pugno sulla testa, poi soggiunse:
—Ah… capisco! Si poteva però anche risparmiare, chè in quanto all'anima, m'è indifferente s'ella sia per uscirmi dalla bocca, o da qualsiasi altra parte, e che viaggio sia per fare di poi, non ne voglio aver notizie.
Detto questo, si voltò per la prima volta su di un fianco, e non volle risponder più a nessun'altra domanda.
Nel frattempo che il Palavicino s'intratteneva innanzi al letto del Valacco, il condannato che gli stava rimpetto, non si ristava pur un momento dall'agitare e dallo scuotere le sue catene furiosamente, mutandosi e rimutandosi or sull'una, or sull'altra gamba cambiando ad ogni tratto postura gestendo, parlando ad alta voce; egli solo, in quel camerotto, faceva tanto rumore quanto ne poteva fare un'intera compagnia di lancieri.
Il custode avendo detto al duca e al Palavicino che quello era l'Italiano, subito a lui si volsero, vedendo che dal Valacco non era possibile cavare un costrutto. Aveva colui uno straordinario aspetto, capelli neri, lunghi, arruffati che gli adombravano un'alta fronte segnata da spessi solchi; occhi neri, acuti, sinistri, mobilissimi. Non pareva vero che il Valacco e costui fossero due esseri d'una medesima specie, tanto erano opposte le loro indoli.
E qui lo sguardo del Palavicino cadde a caso su d'uno sgorbio fatto sulla parete alla quale era inchiodato il letto dell'Italiano. Era un disegno ch'esso aveva tentato di fare col carbone, il qual disegno era diretto a rappresentare una forca con appesovi un uomo. Sotto all'uomo si leggevano queste parole che occupavano quasi tutta la parete:
—Io mi chiamo Giovanni Adolfo Gavazzola, figlio di Bernardo, mastro mirrante, e di Gaspara Spada, levatrice. La mia disgrazia è quella di non esser nato quarant'anni prima, che a quest'ora sarei forse maresciallo come il Trivulzio, che non è niente più galantuomo di me. Cosi invece domani sarò impiccato; non è che una combinazione.—
Più sotto, e con molto spazio interposto, il condannato, forse in un momento di riflessioni serie, aveva scritte quest'altre parole:
—Non so bene che opinione abbia di me il padre eterno, ma se è giusto, dovrebbe usarmi dei riguardi.—
Queste parole fecero una strana impressione tanto nel duca, che nel Palavicino, il quale, dopo alcuni momenti, cominciò a far molte interrogazioni a quel tristo. Ma non gli venne fatto di cavarne ciò che desiderava. Quel soldato non aveva conosciuto neppur di persona il Lautrec, nè disse altro se non d'esser stato obbligato per forza a quell'assassinio e che se coloro che lo avevano condannato a morte avesser conosciuto com'era corso il fatto in tutto e per tutto, lo avrebbero senz'altro rimandato assolto.
Sollecitato allora a palesare ogni cosa, rispose, che quel ch'era stato era stato, che lui aveva data la sua parola, e che non avrebbe mai detto nulla di più.
Accortosi allora il Palavicino che non riuscivasi a nulla, staccatosi da lui, si volse ai due francesi, dai quali potè finalmente raccogliere tale circostanza che lo raffermò nella sua credenza.
Potè sapere che il caporale francese che aveva dato carico a quei quattro soldati d'assassinare il Palavicino, prima della battaglia di Novara, essendo ancora agli stipendi del Lautrec, era stato da costui spedito espressamente a Milano, dove si fermò qualche tempo e dove