Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana. Giuseppe Rovani
tu non mi dicessi altro, disse allora il duca a Manfredo, stando così le cose io sarei già del tuo medesimo avviso. Ma ora usciam tosto di qui, chè la presenza di costoro mi guasta il sangue; usciamo che son pure impaziente di sapere il resto da te.
Così non avendo altra cosa che li trattenesse colà, si partirono da quel tetro luogo, e per logge e scale riuscirono sullo spaldo occidentale del castello, colà appunto dove di presente ci si offre come un punto appoggiato a que' due archi di sì straordinaria ed ardita altezza, che di quella parte di castello, se si ha riguardo anche all'effetto del torrione interposto, ti fanno una scena grandiosa e pittoresca.
In quel luogo adunque interrotti da tante migliaja di voci che ronzando incessantemente al basso salivano sin là con un rumore d'acque scorrenti, i due giovani s'intrattennero a lungo nell'abbandono della loro amicizia, e il Palavicino fu sollecito di narrare al duca quanto anche a' nostri lettori potrà schiarire la faccenda dell'attentato.
CAPITOLO III.
—Io ti racconterò, prese a dire il Palavicino allora, quanto il Morone ancor non sa; perchè, fuori di ciò ch'era indispensabile per metterlo sulla via di far qualche scoperta, a lui ho taciuto il meglio, ovvero sia il peggio della storia mia… Son cose strane, cose intralciate, alle quali per verità io non saprei dar fede se non fossero accadute a me stesso; ma sentirai… Tu sai bene, e tante volte ne ho parlato, com'io, scacciato dalla mia casa e messo, come suol dirsi, in sulla strada da quell'uomo inesorabile di mio padre, mi trovassi a un tratto tutto solo, senza mezzi e senza speranze, che mio padre troppo bene lo conoscevo, e dalla povera mia madre, per quanto si struggesse di angoscia e d'amore per me, non poteva sperar soccorsi, tanto era severamente guardata. E così in quella stretta, per quanto la disperazione m'intorbidasse la mente e il pensiero di quella donna soave di mia madre, di cui gli atti e le lagrime e le ultime parole mi risuonavano troppo bene nell'animo, non mi lasciassero aver pace un momento, pur presi un partito, ed era l'unico per verità ch'io potessi prendere allora. Sapevasi da tutti come Giulio II, unitosi improvvisamente, e contro l'aspettazione universale, ai Veneziani ed agli Spagnuoli, avesse pensato mover le armi contro Francia; come ardesse un furioso incendio nel mezzo dell'Italia, e si fosse al punto oramai che tutto avevasi a decidere con una risolutiva giornata. Io, che in quei momenti avrei desiderato, e per verità ne andavo in cerca, che qualcuno m'assalisse così a man salva e mi finisse una volta, colà, dissi, fra quegli orrori della guerra troverò molto bene il fatto mio. Ancora mi rimane a tentar qualcosa pel mio paese, e s'egli è vero che talvolta una penna fa traboccar la bilancia, chi sa ch'io non sia quel tale che la faccia appunto traboccare al danno di questi Francesi; e in tal pensiero confortandomi tutto, mi recai dal conte Mandello, l'unico uomo in tutta Milano al quale potessi domandar qualche cosa senza timore che mi ributtasse, o ch'io ne dovessi poi arrossire per rinfacciamenti. Recatomi da lui dunque, e dettogli il miserabile fatto mio, egli mi offerì ogni sorta d'aiuti, tanto è largo il cuore di quell'uomo, ma saputi i miei propositi, mi diede dell'oro e un cavallo. E mi ricordo benissimo che nel darmi la ben andata, mi baciò in fronte tutto commosso e quasi in lagrime, lui che non si sconcerebbe se crollasse il mondo, ed è quel capo strano che tutti dicono. Con quell'ajuto me ne uscii così da Milano, e un po' a passo, un po' a trotto, fra pochi dì mi trovai nella Marca, proprio nel cuore della guerra. Era una faccenda, una confusione, un tramestio indicibile. Un passare e ripassar continuo di soldati ora alla spicciolata, ora a truppe. Uno spavento di quei poveri abitanti, che non aveva tregua un istante, e un fuggire, un ritornare, un disordine insomma che a tutt'altri, Dio sa, che noia avrebbe recato, fuorchè a me che aveva bisogno d'alcuna cosa ben forte che mi sbalordisse e più non potessi ricordarmi delle mie miserie. In quel viaggio incontratomi con un tal Tullio Orlando di Macerata, assai ricco gentiluomo, col quale allo studio di Padova aveva vissuto assai intrinsecamente.—Io vado a Rimini, mi disse, se tu vieni con me, vedrai che il tempo che vi passeremo sarà il men male buttato della nostra vita.—Ed io vengo, gli risposi, ben contento d'aver trovata compagnia, e così senz'altri incontri, entrammo in Rimini la seconda festa di Pasqua nel 12. Ma appena misi il piede in quella città, m'accorsi, come si suol dire, di aver dato in un trabocchetto. Era tutto pieno di soldati e di baroni francesi, e per ciascun uscio ve ne saran stati un dieci buonamente.
Pensa or tu, com'io potessi star bene colà. Dovetti per altro stupire, vedendo come que' soldati francesi, contro il loro solito, si comportassero tanto gentilmente con lutti gli abitanti, e se mai per parte loro intervenisse alcun disordine, le punizioni fossero esorbitanti. D'un fatto così straordinario, ragionando appunto con quel mio amico Orlando egli mi fece capace della vera cagione.
Il signore di Lautrec, o il conte Odetto di Foix, come altri il chiamavano, che era già marasciallo de' Francesi, e il braccio più forte e più terribile dell'esercito, s'era fieramente invaghito della duchessa Elena di Pitigliano, signora di Rimini, ed ella di lui, come tenevasi da tutti. Egli era già da qualche tempo che si eran conosciuti, ma in quell'anno del 12, salito il Lautrec a molta altezza, aveva chiesto la mano di lei, e quand'io arrivai a Rimini si stava appunto apprestando ogni cosa pel dì delle nozze, e gli apparecchi erano regali. Si diceva tra il popolo, che l'amore di quell'uomo per la duchessa molto somigliava a furente pazzia, e se la signora gli avesse comandato facesse passare a fil di spada tutto il suo esercito, volentieri lo avrebbe fatto.
Quella donna, quantunque non avesse più di ventun anni, era già vedova del duca di Pitigliano, ed era gran tempo che parlavasi dei fatti suol per tutta Romagna, per Roma segnatamente, dov'ella era nata. In qual modo, mortole il marito, a lei fosse data investitura della città di Rimini, tolta già da molti anni ai Malatesta e passata d'uno in altro padrone, alla maggior parte non era ben noto. V'era bensì chi ne sapeva qualcosa, ma ne facevano grandissimo mistero, e quando mai se ne domandasse, il discorso lasciavasi cadere in terra. Capii insomma, che quella storia doveva bruciar la lingua a chi la raccontasse, e perciò fui costretto a rimanermi co' miei desiderj, e adesso non ne so più d'allora. Di costei io ne avevo già udito parlare qualche mese prima a Bologna tra que' signori, ma con parole di profondissimo disprezzo, e d'altro non mi avevano invogliato che di veder la sua grande bellezza e di sentirla cantare, chè tutti dicevano ch'era una Sirena, e ne aveva difatto tutto il costume. A Rimini per altro, e segnatamente fra il popolo minuto, se ne diceva un gran bene, non già della bellezza e dell'altre sue virtù che nessuno metteva in dubbio, ma della carità e delle sue larghezze nel beneficare, e tutti ne parevano innamorati, e fra 'l popolo era chiamata la Semiramide. Per questi vari giudizj, e per sentir sempre a magnificare quella sua straordinaria bellezza, venni in grandissima volontà di vederla, e mi raccomandai per questo all'Orlando, che era assai ben conosciuto dalla duchessa medesima. Una sera che c'eran grandissime luminarie per la città, e nel palazzo della signora ci dovevan esser musica e danze, l'Orlando mi dice:—Se vuoi venire il momento è buono,—ed io quantunque sapessi che mi sarei trovato tra quella maledetta peste di Francesi, che ammorbavan l'aria di tutta Rimini, pure molto volentieri mi lasciai condurre.
Aspettato colà molto tempo tra una densa moltitudine che già cominciava a darmi noia, vidi entrar finalmente la duchessa nella maggior sala. Circondata dalle gentildonne, dalle ancelle, dai paggi che formavano il suo seguito, corteggiata da un numero infinito di quei baroni francesi, tutta coperta com'era d'ori e gemme, a me fece in sul primo l'effetto d'un'apparizione straordinaria. Allora avendo tentato avvicinarmi a lei più che fosse possibile per osservarla meglio, mi parve che quel suo viso non mi riuscisse nuovo del tutto, e ch'io altra volta avessi veduto talun'altra chele somigliasse. E affaticandomi così a cercar nella memoria chi mai fosse quella, mi sovvenne allora d'aver veduto alcuni di prima il ritratto della Cenci. Ed era appunto l'immagine di questa sciagurata ed infelice fanciulla la cui perfidia e la cui bellezza m'aveva fatta tanta impressione, che non mi faceva parer più nuovo il viso della duchessa Elena; e se quel ritratto fosse stato eseguito espressamente per lei, non si sarebbe potuto far cosa più al naturale.
Questa strana somiglianza, e le misteriose e tronche parole che mi vennero udite sul conto di colei produssero in me, così di volo, un'impressione di raccapriccio e d'orrore. E allora, facendo certi strani sospetti, mi son messo ad osservarla con più d'attenzione ancora, tentando quasi di raccapezzar qualche notizia, leggendole ne' tratti del volto,