Racconti. Francesco Dall'Ongaro

Racconti - Francesco Dall'Ongaro


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fiamma seconda.

      I miei abbonati, sparsi per tutta l'Italia, divenivano a vicenda i miei collaboratori gratuiti. I giornali, in quel tempo, non erano organi del governo o di un partito contro il governo: erano un ricambio d'affetti e d'idee, un amo gittato a caso per pescare, dovunque fosse, un amico del buono e del bello.

      Una volta l'amo venne su carico di una grave censura ad uno dei più gentili poeti viventi; censura acerba ma vera, sottoscritta da un nome di donna. Il poeta rispose; la donna replicò col vigore e col senno di un critico provetto. Invitata ad onorare de' suoi scritti il giornale, mandava un altro scritto in cui rivedeva le bucce all'Ariosto, a proposito d'una sua versione o imitazione elegante ma poco esatta di Catullo o di Virgilio, sempre colla medesima firma. Credetti, sulle prime, che quel nome di donna coprisse quello di un letterato barbogio, il quale per rendersi accetto al pubblico usurpasse il nome di una gentil damigella.

      Ma fatta un'inchiesta, venni a sapere che l'autore di quelle critiche argute era veramente una donna, e che il nome di Caterina Percoto, ond'erano sottoscritte, apparteneva davvero al libro d'oro della nobiltà friulana.

      Ringraziando la mia incognita collaboratrice de' suoi eruditi articoli di critica letteraria, osai pregarla a mutar qualche volta registro; e poichè aveva l'onore di appartenere al sesso gentile, volesse mandarci qualche scritto da donna.

      Tre mesi di silenzio punirono l'indiscreto consiglio. Poi, sollecitata a rispondere, mi fece significare che non sapeva indovinare che cosa io intendessi per uno scritto da donna.

      Invece di scriverle una dissertazione, scrissi e le mandai stampato il racconto sovraccennato, dicendole, nel miglior modo ch'io seppi, ch'io le davo in mano l'orditura di una tela ch'ella saprebbe tessere e ricamare meglio di me. Nata contessa, e vivendo alla buona cogli abitanti della sua terra, avrebbe potuto meglio d'ogni altro descrivere i mille aspetti della natura, i costumi, le tradizioni, le vicende, gli affetti di quei campagnuoli.

      Dopo un silenzio più lungo, la contessa Caterina Percoto mi mandò il manoscritto della sua prima novella Lis Cidulis. Ella aveva non solo compresa, non solo giustificata, ma superata la mia aspettazione.

      Il mio raccontino era stato la cote di cui parla Orazio, che affila il ferro, inetta per se stessa a tagliare.

      E questo vi spieghi perchè i Complimenti di Ceppo mi sono cari, e perchè mi applaudo segretamente di averli scritti e stampati. Senz'essi forse la contessa Caterina Percoto avrebbe continuato a scrivere le sue elucubrazioni erudite, e l'Italia aspetterebbe ancora la sua gentile e simpatica novellista.

      La cote d'Orazio, affilando l'altrui stile, affilò pure il mio. Noi scrivemmo a prova racconti e novelle, dipingendo ciascuno le proprie impressioni, e commentando i fatti cotidiani di cui eravamo testimoni, o che ci arrivavano, comunque fosse, all'orecchio. Io ritraeva più spesso la città co' suoi vizj; essa la campagna e le sue modeste virtù. Poco ella prese da me: io molto da lei, massime i colori che resero accetta la mia Rosa dell'Alpi, ristampata da ultimo di là dell'Atlantico, e data come testo di lettura italiana ai concittadini dell'illustre Longfellow.

      Ecco come nacque il mio primo racconto, e come fu seguìto dagli altri. Fate loro buon viso, o lettori, se non foss'altro, perchè furono stimolo ed occasione a cose migliori.

      L'Autore.

       Firenze, 20 luglio 1869.

       Indice

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      Gli uomini più saputi e più accorti del nostro tempo, udendo parlare di leggende, di tradizioni, d'apparizioni, si contentano di sorridere, e danno dei semplici, per non dir altro, ai nostri nonni che vi prestavano tanta fede. I filosofi, gli storici, i poeti fecero fino a' nostri giorni altrettanto, o al più al più, questi ultimi ne traggono qualche visione o qualche ballata per loro divertimento, quando hanno vuotato il sacco delle loro liriche appassionate o disperate, e delle lor querimonie contro il secolo positivo. La gente semplice, grossa, ignorante, benchè per un certo pudore sorrida anch'essa della propria credulità, pur si compiace ancor troppo di tali racconti, per credere che ne rida di buona fede.

      Non so in quale di queste classi vorranno mettermi i miei lettori, nè in quale dovrò metter loro. Per ciò che mi concerne, dirò candidamente che non ebbi mai paura di streghe nè di folletti: aggiungerò che i miei sonni infantili non furono mai nè dall'aia, e molto meno dalla madre blanditi con queste favole. E pure, essendomi trovato sovente in luoghi e fra persone assai diverse, avendo l'abitudine di studiare i vari caratteri della gente che mi circonda, non ho saputo astenermi dall'esaminare questi fatti dello spirito umano. Dico fatti, perchè ogni opinione, ogni superstizione, ogni credenza, per falsa che sia, è un fatto, in quanto esiste nella mente del vulgo. Esaminando alcune di queste leggende, ci ho quasi sempre trovato sotto una ragione, e spesso tutt'altro che frivola. Credete pure, miei buoni lettori, che una favola destituita d'ogni senso non si trasmette di bocca in bocca, e non dura per secoli. Dico questo non per celia, ma di tutto il mio senno, e se ho raccolto di quando in quando alcuni di questi fatti e ho procurato di raccontarli alla meglio in prosa od in versi, non ho inteso di contar pure favole, o almeno, ho scelto fra queste le poche che mi parevano celare alcun che di morale e di significativo.

      Questi pensieri mi giravano per la mente l'altr'ieri, recandomi da Conegliano a Collalto per visitare il teatro di una di codeste leggende. — Come! direte: tu facesti un viaggio per recarti costà? o che forse t'aspettavi di vederti apparire la Donna Bianca? A chi vuoi far creder codesto? — Io non ebbi mai il vezzo di voler far credere checchessia; meno a voi, miei lettori, che siete gente fina e aliena da ogni credulità. E il viaggio ch'io dissi, per quanto vi paia strano e ridicolo, non è per questo men vero; e aggiungo che, senz'esso viaggio, io non avrei oggi l'onore d'intertenermi con voi.

      Or dunque, lasciata Conegliano alle spalle, sur un leggero calesse io m'indirizzavo verso Collalto. Aveva il sole di fronte, il quale precipitava al tramonto. A sinistra l'immensa pianura della Marca, a destra i bellissimi colli che dolcemente s'innalzano, verdi, pampinosi, festanti, curvandosi in mille forme, digradando e sfumandosi nel lontano azzurro del cielo. I colli di Conegliano non hanno invidia a quelli della Toscana, ai Berici, nè ai Lombardi. Un pittore, sia pure d'immaginazione la più ricca e feconda, non potrebbe nulla aggiungere e nulla togliere al vero, per figurare in tela l'ideale dell'Eden. E chi crede ch'io esageri, non ha che a fare il riscontro.

      Spiccato in nero dalle roscide tinte del tramonto, mi sorgeva di rimpetto il castello di San Salvatore. Quando dico castello, intendo un paese; chè questa non è punto una delle solite ruine che piacciono ai paesisti. Il castello di cui parlo è ancora in perfettissimo stato, e più abitabile e abitato che mai. La principesca famiglia da cui si nomina ci viene a passare l'inverno in numerosa comitiva, e vi fa operare continui ristauri, che se non giovano all'arte, giovano al comodo. Un ampio terrazzo s'innalza dai circostanti edifici, come il tubo di un'immensa locomotiva. Verso la sommità si allarga per l'aggetto d'un'ampia cornice, sopra la quale, costrutta in età più recente, si curva la pina a modo di tulipano gigantesco. Perdonate la meschina similitudine; non saprei con qual altra immagine porvi sott'occhio codesto comignolo esagono ch'espande le curve merlature nell'aria, proprio come i petali di quel fiore.

      Giace alle radici del colle l'ameno villaggio di Susegana, e di là dolcemente salendo la strada, ti conduce fino allo spazzo dove sorgeva la prima torre a saracinesca. Questa ed altre parecchie di queste torri furono atterrate, atterrate non poche altre costruzioni massiccie che difendevano il castello dalla parte di tramontana. In tempi pacifici, si sa bene che tutti codesti ripari sono più un lusso che altro; pure non può fare che non ci spiaccia la perdita infruttuosa di questi monumenti d'un'altra età. Ma io non intendo di fare il piagnone, tanto più ch'io vengo in traccia di tradizioni e non di ruine.

      Feci sostare il cavallo, e salii pedestre fino alla casa d'un


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