Racconti politici. Ghislanzoni Antonio
«In settembre... è successo... quel che è successo. Quegli altri, che erano scappati in Isvizzera, volevano tornare... Val d'Intelvi andò tutta in repubblica... e il povero oste di Argegno fu il primo a pagarla.... Un uomo della legge — compar Brenta!... Mi voleva bene come ad un fratello... Ah! io doveva capirla finalmente che s'aveva da fare con dei cani senza legge e senza timor di Dio...! Ma no... testa d'asino!... Quando vennero a contarmi la fine del povero Brenta, ho detto: non è vero! non può essere... la gendarmeria non commette di questi orrori!... Un accidente a me, e a quanti pensavano in quella maniera! Ma io fui servito come meritava... altro che accidente!... Sentite, don Remondo... Io sono vecchio... ho settant'anni compiuti... ma se Dio non mi concede la grazia di ammazzare due tedeschi... io sento che morirò dannato! Aspettate... Il litro è vuoto... datemi il tempo di andare e di venire... e poi vi dirò cose che non ho mai detto a nessuno... cose da far piangere un badile!»
IV.
Il vecchio Gregorio discese nella cantina, e tornò poco dopo col litro ricolmo. Egli riprese la sua storia a voce bassa:
«Tutta la valle era piena di tedeschi... ma di quelli... voi sapete... si diceva che mangiassero le candele e i ragazzi appena nati! — Io cominciava ad aver paura... Mi era venuto in mente di mandar via la Martina, come avevo fatto alcuni mesi prima, quando passavano i crociati dello Stelvio. Veronica era malata — come si fa?... E poi, c'era pericolo — le strade erano piene di soldati — e quegli altri... i nostri battevano le montagne per ritornare in Svizzera — Ero là: sotto quel fico, a pensare, colla testa nelle mani. Vedo comparire il Console sulla porta del cortile — (allora chiamavano Console quello che oggi... presso a poco... si chiama sindaco) — Buon dì, Gregorio! — Signor Console, il mio rispetto! — Hai tu una camera per dar alloggio ad un uffiziale? — Camere! alloggio!... ma quando mai ho avuto delle camere io? — Eppure bisogna avere una camera! — Bisogna...! è presto detto... ma come si fa?... — Si fa... si fa...! insomma... bisogna che tu metta in ordine la camera... Fra mezz'ora io verrò qui coll'uffiziale... Hai capito? — Ho capito... ma quanto poi all'intendere...»
Il Console aveva messo un'aria, quella mattina!... Mi rideva in muso!... Basta!... Nel cinquantanove ho liquidato i miei conti con quella mummia... gli ho fatto sputare i due denti dinanzi... e d'allora in poi nessuno lo ha più veduto ridere. — Figuratevi il mio imbarazzo... e la mia paura! Pensa... rifletti: — che serve? se io non preparo l'alloggio, quelle bestie mi infilzano sulla baionetta e dànno il fuoco alla casa per arrostirmi! Non c'era verso... La povera Martina consentì a cedere la sua stanza che era imbiancata di fresco — fra noi due, in meno di un quarto d'ora, vi collocammo i mobili migliori pian pianino... come se si portasse attorno del vetro — ma pure l'ammalata si accorse di quell'insolito vai e vieni. «Mio Dio! che novità son queste! esclamava Veronica dal suo letto... con voce affannata...» Io corsi a lei per calmarla... In quel momento si intese nel cortile un rumore come quando il pescivendolo mette a terra la sua stadera — Il Console gridava: Gregorio! dove è andata quella bestia?... Presto! non si faccia aspettare il signor tenente!!! E l'altro colla sua stadera a battere le muraglie... che pareva satanasso colle sue mille catene. Io non poteva staccarmi da Veronica... La povera donna era presa dal convulso...e spasimava fra i singhiozzi. — In quel momento, Dio aveva la testa rivolta d'altra parte...od era occupato a far cadere le foglie!...Quando io scesi nel cortile, la Martina aveva già parlato all'uffiziale — questi le rispondeva a bassa voce coll'aria più mansueta. — Era biondo come una pecora...quel boia — ed io, che mi aspettava di veder un orso colla bava alla bocca e cogli occhi pieni di sangue... io... bestione... Ma quella faccia di latte e ciliegia avrebbe ingannato il diavolo!....
«La Martina era smorta come la cera — l'altro tutto leccato le diceva: non affer paura!... tettesco star bona!... E quel muso da forca del Console... anch'egli si era messo a far il bocchino... e non cessava di ridere... Ve l'ho già detto, don Remondo — quella vecchia birba ora non ride più!...» «Se il signor tenente vuol vedere la sua camera... gli dissi io, entrando di mezzo — Oh! pasta! pasta! rispose il tedesco — mi piacer tutto in tua casa, pono uomo! — Egli sedette presso la tavola, mandò via il console con un segno della mano — e ordinò da colazione. Mi è mai passato un sospetto — un mezzo sospetto per la testa? Quindici giorni lo abbiamo tenuto in casa — timido... rispettoso...! Parlava poco, e sempre a voce bassa, per paura — diceva — ti tisturpare la mamma. — Egli andava, veniva, tornava ad uscire... mangiava molto e beveva pochissimo...non si lagnava di nulla!... Io mi fidava interamente di lui... Quanto alla Martina poi... Ve l'ho già detto... una ragazza che non distingueva la capra dal montone, e credeva che i figli nascessero fasciati. Non è bene che le figliuole sieno proprio all'oscuro di tutto... A una certa età, bisogna metterle in guardia... bisogna ammaestrarle, perchè senza avvedersene non abbiano a giuocare colla vipera... Voi mi capite, don Remondo. Io non vi dico altro... Cosa hanno fatto... cosa non hanno fatto...? Il tenente è partito... chi si è visto si è visto... e lei è restata... come Dio ha voluto!...»
V.
Il vecchio si interruppe — in quell'anima semplice da contadino c'era il pudore di una vergine. Egli arrossiva per sua figlia. Dopo breve silenzio riprese:
«La mia Martina m'avrà perdonato... Io sono stato un po' duro con lei... e non doveva... Sua madre, come vi ho detto, era malata — le madri hanno la mano più dolce nel medicare certe piaghe... Ma io non l'ho mica strapazzata quella povera creatura... Sulle prime sono andato un po' in furia... che volete, don Remondo?... bisognava sgridarla un poco... tanto da farle capire che aveva fatto male... perchè lei... quel povero angelo... non capiva... non sapeva proprio nulla... È morta che pareva una madonnina di cera!... Ma ora, ci vuol altro che piangere... sentirete, don Remondo, quello che intendo fare... Dunque... come dicevo... ho alzato un po' la voce sul principio... e poi ho detto subito: non è con lei che io devo prendermela... io devo rimediare alla meglio... perchè Veronica non sappia... perchè nel paese non succedano degli scandali... La condussi a Osteno in casa di una mia sorella vedova — una santa! E poi, dopo alcuni giorni, andai a Milano — aveva un pensiero — quell'uffiziale si chiamava Francesco Nëipper — il suo reggimento era di guarnigione a Milano... Mi era messo in testa io che ci potesse essere dei galantuomini anche fra loro... oppure... che parlando a qualche superiore... a qualche coronello... Sentite mo questa, don Remondo!... Arrivo a Milano... In quei giorni c'era lo stato d'assedio... Soldati di qua, gendarmi di là... commessi... pollini ad ogni angolo di contrada... Milano pareva una caserma. Prima di fare dei passi coi superiori... voleva vederlo lui... voleva un poco sentire come la pensasse... Vederlo! non era facile... Eppure... una mattina... girando nei dintorni del castello... vedo un uffiziale che ha la sua statura... Era in compagnia di un altro... e parlavano a voce alta in tedesco. — Mi avvicino... gli prendo la volta... è lui... proprio lui... quella faccia falsa da san Sebastiano!... Con tutto il rispetto... levandomi il cappello... me gli accosto di fianco, e gli dico: buon dì, signoria! — Quei due campioni balzano lontano tre passi, e subito fanno l'atto di cavar fuori le sciabole... «Farcflutter... staiffer! crazzer!...» sa Dio cosa bestemmiavano quei due mostri!... — e mi vengono addosso che sembrano due jene! «Ma il signore sa chi sono... l'oste di Val d'Intelvi... Gregorio... il padre della Martina...» — «Tartaifel... ludro... flucter! porco talliano... andar tua strada... o far fucilare sul momento!» — E poi tutti e due a bestemmiare in tedesco e battere lo squadrone che volevano subissarmi! — Ah! sono stato un gran vile... una carogna! Ma chi poteva aspettarsi...? so io cosa è avvenuto di me in quel momento?... Non ero più io... Quella piazza... quel castello... tutti quei soldati... non si vedeva un solo cristiano nè dappresso nè in distanza... Mi sono lasciato avvilire... E poi... cosa sarebbe avvenuto di quelle due povere donne...? Mia moglie ammalata... e l'altra!... Iddio mi ha tenuto la mano... e ve lo giuro, don Remondo, quei due moscardini di gesso avrei potuto mangiarmeli come due paste sfogliate... e li avrei digeriti in un attimo!... Invece... mi è rimasto un gruppo qui dentro... qualche cosa che non ha mai voluto andar giù... Ma prima di morire, voglio farmela passare, perdio!
VI.
Gregorio vuotò un bicchiere. — Don Remondo mormorò