Racconti politici. Ghislanzoni Antonio
un grosso ragno dal suo telaio? — Se il ragno cade a terra, subito si raggruppa, diventa piccino, si perde fra i sassi e rimane immobile fino a quando non lo abbiate perduto di vista. — Così ho dovuto far io, così ho fatto in quell'occasione, — come non avessero parlato con me... come se nulla ci fosse stato... Restai là parecchi minuti... cogli occhi a terra... fino a che, dopo essersi sfogati con delle parole da far raccapricciare le anime del purgatorio, quei due cani si furono allontanati... Appena mi parve che il pericolo fosse cessato, levai timidamente lo sguardo... e vidi quei due che se ne andavano con aria di trionfo picchiando la terra colle sciabole... Avevano cessato di bestemmiare in tedesco, ma ridevano in italiano... Ed uno si volse indietro a guardarmi, — lui, proprio lui — quell'infame rideva con una bocca da vipera! — Don Remondo: credete voi che qualche volta... in certe occasioni... quello che sta lassù... possa udire certe parole che si pronunziano a voce bassa col veleno nell'anima? Io per me ci credo. Ho sentito dire che il basilisco, quando guarda fissamente una persona, la uccide. Orbene: ponete che in quel momento io avessi nel cuore e negli occhi tutto il veleno del basilisco — ma io non lo fissava per ucciderlo, quell'assassino del mio sangue — io lo fissava per piantargli nelle viscere la maledizione. Sentite le parole che io scagliava dietro lui, senza muovermi d'un passo, appiattato nel mio fango come un rospo su cui è passata la vanga: «Che tu possa vivere finchè venga un altro quarantotto!...» Questa sentenza l'ho scagliata dietro lui non meno di trenta volte. Egli non ha avuto più il coraggio di volgere indietro la testa — io credo che egli debba aver sentito nel cuore qualche cosa come un chiodo gelato. Ed ora, non saprei dirvi, don Remondo, come io partii da Milano, come tornai al paese — Sono uscito da una porta... ho camminato due giorni e una notte... sono entrato in casa una mattina, mi sono inginocchiato presso al letto della mia Veronica che dormiva — e ho pianto per due buone ore. Dopo, ho potuto dormire anch'io — e quando mi sono svegliato, il primo pensiero che mi venne in mente fu questo: Gregorio: ora bisogna vivere, e aspettare l'altro quarantotto! — Intanto si è dovuto tirare avanti dieci anni... La Veronica stette ammalata ventidue mesi... e sempre domandava di sua figlia... Ho dovuto inventargliene per risparmiarle il dolore...! Io andava tutte le settimane ad Osteno a vedere quella poveretta che dimagrava a vista d'occhi... — La sua prima parola era sempre questa: come va la mamma? — e poi subito, a bassa voce, facendosi tutta rossa: per l'amor di Dio... ch'ella non sappia mai nulla! — Ed io ho tenuto parola — quella brutta istoria è rimasta qui dentro... Voi solo, ne sapeste qualche cosa... Era ben necessario che qualcuno mi consigliasse in quei brutti momenti...! Ma pure io non vi ho mai detto il capo o la fine come ho fatto questa sera... Vi ricordate? Il bambino è venuto al mondo la mattina del sedici giugno... Voi mi avete insegnato la via della via per mandarlo al sicuro... E nessuno, meno la mia sorella di Osteno, nessuno ha saputo della disgrazia. Due mesi dopo, quando io aveva stabilito di ricondurla al paese... chè ciò avrebbe fatto tanto bene a sua madre... la povera Martina morì come una santa. Sono arrivato in tempo a vederla... Mi ha domandato perdono... Di che? Cosa aveva fatto di male quella povera creatura?... Le sue ultime parole furono quelle che mi ripeteva sempre ogni volta che andavo a trovarla: «mai!... nè anche quando sarò morta... non dite mai nulla a mia madre... glielo dirò io... quando ci incontreremo in paradiso...!» — Così è morta... Dopo ventiquattro ore l'abbiamo collocata nella cassa... io e mia sorella — e poi sono rimasto là fin quando l'hanno portata via... A Osteno non aveva amiche... nessuno la conosceva... Non c'eran più di dieci donne ad accompagnarla al campo santo... Io mi sono inginocchiato presso una finestra... l'ho seguita cogli occhi fin oltre il muricciuolo del sagrato — e quando non si vide più nulla... allora... Ah! voi credete, don Remondo, che durante quella cerimonia io abbia risposto alle litanìe dei morti... che io abbia pregato il Signore? Nè anche un deprofundis! Quando non si vide più nulla di quel povero cofano coperto di stracci, mi è sembrato di trovarmi ancora laggiù... a Milano... in quella grande pianura... Ma il castello non c'era più... tutto era deserto... non eravamo là che noi due... io e quell'assassino — egli inginocchiato a domandarmi la vita, io sopra di lui a piantargli una baionetta nelle viscere. — Questa orribile visione è stata il mio deprofundis, la preghiera che io ho recitato in quella stanza donde era uscita la mia povera Martina per andare al campo santo.
VII.
La voce di Gregorio si era fatta roca — i muscoli neri delle sue braccia si erano gonfiati. Don Remondo con accento di compassione e di benevolenza si studiava di moderare quegli impeti appassionati.
— Sentite, don Remondo — riprese il vecchio col suo energico accento — io credo che la mia anima andrebbe dannata se prima di morire non facessi qualche cosa anch'io per aiutare la giustizia di Dio. Se si è fatta la guerra ai tedeschi, vuol dire che i tedeschi ne devono aver fatte tante e poi tante a noi poveri italiani, che finalmente anche quel lassù si è stancato. Le ho sapute tutte... A me la figlia... a quest'altro la moglie... dei poveri innocenti mandati alla forca... bastonate a dritta e a sinistra... centinaia di individui morti nelle prigioni... E senza andare lontano... da noi... nella nostra piccola valle... quali orrori... quanti assassinii!... Basta! Il secondo quarantotto è venuto... Hanno dovuto andarsene un'altra volta... dai nostri paesi... ed io — vedete maledizione! — io... nel cinquantanove, non sono arrivato in tempo... E voi ci avete avuto un po' di colpa, don Remondo... Mi dicevate: «aspetta, Gregorio!... non è tempo di partire... non è tanto facile passare il confine... Garibaldi verrà su da Varese... quanto prima egli dovrà passare per Como, e allora noi andremo ad arruolarci con lui!» Sicuro ch'egli ci è passato per Como, Garibaldi!... e poi si è portato a Lecco... e noi... bel da fare!... siamo corsi laggiù per farci iscrivere... e abbiamo avuto il nostro fucile quando non c'era più modo di adoperarlo! E loro le avevano già amministrate le loro pillole di piombo... si erano battuti a Laveno, a Varese, a San Fermo... mentre noi, gira di qua, gira di là, daghela avanti un passo... caricate le armi — un bel giorno vengono a dirci: fermo, signori!... alto!... non c'è più guerra... hanno capitolato... hanno accomodato l'armistizio... la diplomazia... l'accidente che li fulmini tutti...! E dopo alcuni giorni — vi ricordate, don Remondo?... noi eravamo a Lecco a fare il diavolo sulla piazza — e quel signore di Tirano colla barba rossa ci ha rimandati al paese con queste belle parole: basta! quel che ho fatto, ho fatto, e quel che voi non avete fatto, lo faremo noi! — (Col tempo e colla paglia!...) Dio! le belle parole! Ma intanto...! Intanto daghela avanti un passo come i gamberi... ed io sono tornato al paese con quel gusto!... Oh! non sarà così questa volta... ve lo prometto io... Questa volta non si perderà il tempo a piantar delle carote... e dovranno lasciarci fare... perdio! La vuol esser l'ultima, don Remondo! Ci venite voi? Ebbene: non bisogna perder tempo... Preparare i nostri arnesi, e via tutti quanti!...
VIII.
In quel momento Ernani rientrava nel cortile tutto affannato. Quel gracile fanciullo di sedici anni, giuocando cogli altri contadinelli, si era fatto tutto rosso — le sue guancie diafane stillavano come il muro di una cantina.
— Diamine!... Mi vai tutto in sudore, figliuolo mio! Ci vuol altro... ci vuol altro! Con Garibaldi bisogna marciare! Venti... qualche volta trenta miglia al giorno... e a gamba levata!
— Oh! non dubitare, papà Gregorio! — rispose il fanciullo — io non ho paura delle marcie.
— E degli schioppi... avrai tu paura? chiese don Remondo accarezzando il fanciullo collo sguardo.
— Degli schioppi...! Ma ne avremo anche noi degli schioppi, non è vero, papà Gregorio?...
— Per noi due il governo non avrà da far spese... c'è tutto... Gli schioppi, le baionette, il sacco, le cartuccie... Questa volta ci siamo provveduti in tempo...
— Ma dunque? andremo proprio con Garibaldi? domandò il fanciullo saltando al collo del vecchio.
— Sicuro che ci andremo...
— Quando?
— Quando... quando!... Bisogna domandarlo a lui... a don Remondo... Ci capisco io qualche cosa di queste gazzette?... Là! fatemi il favore, don Remondo... tornate un po' a leggere il proclama di Garibaldi!
— Ma finora non ci sono proclami — rispose il prete — non sono che notizie da Caprera... dei si dice...
—