Novelle. Cesare conte Balbo

Novelle - Cesare conte Balbo


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venne accompagnandosi con me.

      Da quel giorno ei mi ricercò molto più, e avendo trovato il tono giusto su cui andar insieme, ci misimo a parlare molto sovente; e benchè egli fosse rozzo e senza educazione di libri, non è a dire come l'educazione della sperienza e della vita attiva gli avessero conformato tal cuore e ingegno da svergognare i più colti uomini; nè io, benchè di vita e professione così diversa, ho trovata persona mai con cui mi confacessi tanto come con lui. Povero Toniotto! Mi rimanevano sempre fitti nell'animo que' due pensieri che avrei voluti tôrre dal suo; che era inutile a suo padre, e che a' trent'anni non si ricomincia. Ma questo principalmente mi parea tanto più vero che l'aveva veduto anche negli altri tornati; chè quelli che erano intorno a' venticinque anni si facevano facilmente come una vita nuova, [pg!48] e quasi non pensavano al passato; ma quelli che eran tornati co' trent'anni addosso, difficilmente si eran adattati a mutar vita; e chi non sapeva altro che appiccicarsi senza profitto al passato, e tentar di rifar la medesima vita, e scioccamente lamentarsi del presente; ed altri anche rimaner nell'impresa e morire, ch'eglino stessi non sapean forse di che, ed io ben credo che era di seccatura. A tutti questi io aveva sempre consigliato prender moglie, e mi era messo a far matrimonii, non badando alle celie di coloro che mi chiamavano il gran matrimoniero. Ed io lasciava dire, perchè questa credo che sia la sola maniera di rivivere diverso da quello che si è vivuto; e la moglie se s'incontra buona, e i figliuoli, che tutti son buoni, sono un balsamo e un rinnovellamento che farebbe rivivere i sepolti. Ma al povero Toniotto come si facea? Dico il vero, il pensiero me ne venne: ma non glie lo seppi mai dir chiaramente; e girandovi intorno due o tre volte, ei non l'intese; e un'ultima volta che l'intese, mi lasciò con un aspetto aspro e di mal umore, che non gli ho veduto mai; e stettimo quindici dì senza che il potessi raccapezzare a riparlare insieme. Io vedeva il povero uomo mutarsi di dì in dì, e indurirsi a un tempo ed accasciarsi sempre più; ben pensai che non potea durare. Fui, senza dirgliene nulla, in città, e per certe mie relazioni con un colonnello tentai avergli un posto di sotto uffiziale; e mi si fece sperare; e tornando gliene riparlai. Ma egli con un mestissimo sorriso mi ringraziò, ma non volle; e vidi che il corpo infiacchito gli diminuiva anche la risoluzione, e benchè ora sarrebbe stata buona e necessaria a prendersi quella di partire, non gli dava più il cuore seguirla. Del resto io solo credo, e forse forse Maria, ci accorgevamo di questo suo infiacchirsi ed ammalarsi. Non si lagnava mai, non lasciava nè scemava il lavoro, e questo anche contribuì a farlo peggiorare; mai non si riposava se non quando potea credersi solo, come io l'avea sorpreso quella prima volta, ed ora seguendolo lo sorpresi più altre. Sei mesi passarono; era diventato come uno scheletro; venne l'inverno; non voleva rimanere in istalla ozioso; da Maria andava più di rado che [pg!49] mai. Appena era qualche giorno scoperta di neve la terra, egli riprendeva la zappa, e andava a lavorar a un fossato di viti nel tufo, che era una fatica peggio che mai. Io vi feci capitare una volta come a caso il medico, che s'informò di sua salute, e gli disse di lasciar quella fatica, e si curasse. Ma egli rispose allora, e poi: «Quand'io mi metta a letto son morto.» E così fu; preso un raffreddoruccio o che so io, che il tenne in casa, gli venne una febbre violenta, e mandò chiamare a un tempo il medico e me che il confessassi, e io 'l confessai, benedetta anima; e poi mi chiese di veder Maria con Francesco. E dicendo io: «Povera donna? a che serve?» rispose: «Avete ragione, anzi fate che non venga; io sono pur un uomo senza forza; ma ora me ne vuol poca più.» Fu sagramentato, e al terzo giorno gli si dava l'estrema unzione; trovammogli appesa al collo una treccia de' capelli di Maria: «Levatela» disse, «forse ho fatto male di continuar a portarla dopo il mio ritorno qua; questa, e questo libro di preghiere cristiane datomi da voi già, mi hanno accompagnato sempre, e tenuto caldo il cuore in Russia; prendetelo voi con le croci.» E si tirò il libretto e le croci di sotto il capezzale; mezza ora dopo perdè cognizione; e un'altra ora, e poi morì. Quest'è che m'ha fatto lasciar quel paese; e fui poscia da cappellano in quel regimento dove io aveva voluto far entrare Toniotto. «E Maria?» dissero alcuni degli ascoltanti. «Maria visse tranquilla altri quattr'anni; e or sono sei mesi, assistita da me, che là fui chiamato, e tornai per ciò, è morta in pace.»

      Detto questo, il maestro s'alzò e s'avviò al giardino! e gli uni dopo gli altri tutti gli uditori, che alcuni mi parvero commossi dalla storia; altri all'incontro dicevano che di queste cose, se ci si volesse badare, ne accadono tutti i dì, e questo non si chiamava nè storia nè novella. Ma il vero è che nessuno riprese la disputa di prima; nè era stato altro l'intento del buon maestro. Poco dopo, già non essendo più persona nel salotto, vi tornava egli, ed io l'udii che preludiava sul gravicembalo, e intuonava come [pg!50] una cantilena d'improvviso molto semplice, e poi incominciava a cantare a mezza voce, onde io m'accostai, e udii questa canzone:

      Tratto alle pugne oltre all'ignota Moscova

      Dell'italo guerrier tai fur gli accenti,

      Mentre ei forbiva al sorger del sol nordico

      L'armi lucenti.

      Nordico sol, fa, che da lungi splendano

      L'italiche armi in mezzo all'armi franche;

      Del sangue ostil oggi fien prime a tingersi,

      L'ultime stanche.

      Nordico sol, oggi per te dimentico

      Il chiaro italo sole e l'alma terra,

      Ove nodrito io fui, che parte Eridano,

      E l'Alpe serra.

      Ardito e lieto al giorno di battaglia

      Me veda il Franco, che pur me deride,

      Primo al giuoco, alla mensa, ai vani cantici

      Quando s'asside.

      Alle mense, alle danze il pregio tolgasi

      Il Franco pur: ma sull'arduo ridotto

      Me segua il Franco, quando il passo sgombrogli

      E l'oste ho rotto.

      Dimesso il capo, basso il crine ed umile

      Serba alla stalla l'Arabo destriero.

      Squilla la tromba? — Ei chiama co' suoi fremiti

      Il cavaliero.

      Quando scomposto stuolo indietro timido

      Fugge del soverchiante oste l'incontro;

      Ditelo, o duci, chi si ferma, e impavido

      Si volge contro?

      Quando la schiera spalle a spalle accumula

      Irta di ferro, ed i cavalli aspetta;

      Chi figge i piè, chi tiene il posto immobile,

      O l'arma stretta?

      Or ben, terso è l'acciar, la squadra s'ordina,

      Batte il tamburo, omai suona ogni tromba;

      Cresce il frastuono; odi, di guerra il fulmine

      Da lungi romba.

      Ve' come a passo egual marcia terribile

      Schiera cui duce guidar sembra morte.

      Ecco i verde-vestiti; or deh proteggavi

      L'itala sorte.

      Felici voi cui diede il ciel combattere

      Itali tutti l'un a l'altro accanto:

      Felici almen, cui resta d'una patria

      Il nome e il vanto.

      [pg!51]

      Col Franco, o col German misto, o col Belgico,

      Franco di nome io pur divido il letto.

      Ma invano, italo cuore invariabile

      Mi balza in petto.

      «Giorno verrà, dall'Alpi all'Adriatico,

      Una favella unirà Italia, e un nome;»

      Tu 'l promettevi c'hai le man, tu Italo,

      Entro sue chiome.

      Folle


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