Novelle e ghiribizzi. Fanfani Pietro

Novelle e ghiribizzi - Fanfani Pietro


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ma un po' per l'ajuto del protettore; un po' per le dedicatòrie spante; un po' per le lodi che egli svergognatamente chiedeva, e spesso otteneva, dai giornalisti; e un po' perchè cercò di razzolare in materie che fossero di moda, gli riuscì, sempre strisciando, leccando e ficcandosi, di farsi dire qualche parola dolce da due o tre valentuomini, della qual cosa non potete immaginare la gallòria che ne menava, e lo strombettío che ne faceva, e ne faceva fare. E come gli ignoranti sono sempre i più, ed egli bazzicava sempre de' signori, che generalmente sono ignorantissimi, lo cominciarono a chiamar professore, non cessando per altro di divertirsi alle spalle di lui, che era la più riderfacente caricatura dell'universo mondo. Poi volle pubblici ufficj; e qui sì che andò, s'arrabattò, si strisciò, si ficcò, s'incurvò, si prostrò, si scappellò, e ò ò ò ò. Quando c'era il Granduca, faceva giaculatòrie granducali ch'era una delizia: si teneva beato, se poteva parlare, non che altro, con uno staffiere de' Pitti: se poi poteva avere un'udienza, non entrava più nella pelle, e la camicia, come suol dirsi, non gli toccava il sedere: la raccontava, la commentava, e piangeva di gioja. Il Granduca fuggì; e lui, puntuale, s'inchinò a chi l'aveva fatto scappare: diventò un liberalaccio per la pelle; e quasi quasi si spacciava per martire: cercò, insieme con altri, di mettere in mala voce, e di dare uno sgambetto a un suo amico e benefattore: poi lisciò, strisciò, si prostrò, encomiò Vittorio Emanuele co' suoi figliuoli; e chi sa che cosa sarebbe stato capace di fare, se quella benedetta indigestione non lo mandava illuc quo plures abierunt. Sopra tutte le sue cardinali virtù per altro c'era quella di essere un grande uccellatore di desinari; e come tutti lo sapevano, così tutti coloro che apparecchiavano più o meno lautamente, lo invitavano sempre, essendo per essi uno spasso grandissimo il vederlo mangiare con sì raro appetito, e il sentire le ingegnose lodi che sapeva dare al padrone, al cuoco, e a tutte le pietanze ed i vini; le quali lodi erano spesso sotto forma di sonetti o di brindisi, che rallegravano maravigliosamente tutta la brigata. Accadde una volta che fu invitato nello stesso giorno dalle due più ricche famiglie della città, ciascuna delle quali aveva un'ottimo cuoco e una famosa cantina. Don Ficchíno, tra questi due inviti parimente attraenti, stava come il famoso asino degli scolástici, i quali pensavano che posto in mezzo a due profende di fieno parimente fresco e odoroso, sarebbe prima morto di fame che abboccarne una[9]. Leggeva ora l'uno ora l'altro: prendeva la penna per ringraziare; ma non veniva all'atto. Guarda e riguarda, leggi e rileggi, a un tratto fa un salto d'allegrezza, e un sonoro frullo con una mano. Che cosa n'era cagione? La famiglia A., tenace un poco degli usi antichi, pranzava alle 2; l'altra famiglia B. alle 7. «Gua', posso andar qui e là.» E di fatto la mattina della gran giornata, prese un bel bicchiere d'acqua del Tettúccio[10], per disporre lo stomaco; fece una sottilissima colazione, e alle 2 fu a casa A. Il pranzo era eccellente, e Don Ficchíno si mostrò pari alla sua fama. Vedendo andare attorno tanta grazia di Dio, non poteva lasciarla passare, senza intinger nel vassojo: «Chi lo sa, pensava, se a quest'altro desinare ci son tante delizie!» E lì trincava, e ingollava di santa ragione. Alle quattro era già finito il pranzo; e Ficchíno pensò tosto ad accomodar le cose per quell'altro delle 7. Si sdrajò un'oretta sul canapè; fece un pisolíno; e poi, ripicchiatosi tutto[11], andò a fare una bella passeggiatona, piuttosto faticosa: insomma alle 7 fu in grado di porre il piè sotto la tavola da capo; e se al primo pranzo si mostrò, come solevano dir di lui, la prima forchetta di Toscana, in questo secondo non canzonò. La cosa si sparse súbito; e non vi so dire che grasse risate vi si facessero su, e che saporiti e arguti motti si dicessero a propòsito del buon appetito di Don Ficchíno, in quelle conversazioni dove soleva andare. «Gli s'ha a fare una bella celia.—Sì sì: guardiamo se si gastiga la sua ingordigia.» E fatto capannello tra due o tre capi armònici, che altre volte si eran divertiti alle spalle del nostro abatíno, restarono d'accordo in questo, di fargli un altro doppio invito fra qualche giorno; ma in modo che non gli tornasse più voglia di accettarne de' simili. La settimana appresso, eccoti un servitorino in livrea, che picchia alla porta del professore, e lascia un elegante biglietto, col quale il signore e la signora D. lo pregavano di favorirgli a pranzo il giorno di poi alle 2: pranzo d'addio, perchè la sera partivano. Quel pranzo d'addio fece venir l'acquolina in bocca a Ficchíno... Poco dopo un'altra scampanellata. «Chi è?—Una lettera per il signor professore.» Era un altro invito stampato, per un pranzo di giorno natalizio, la sera di poi alle sette e mezzo. Sòlite esitazioni; sòlita risoluzione:—Pranzai due volte l'altro giorno, e stetti benone. Dunque?... Alle due del giorno dopo, un'eletta compagnía di signori e signore era nel palazzo D. Don Ficchíno, secondo l'usanza, trottolava qua e là[12], a chi facendo inchini, chi adulando, con chi sdottoreggiando; ma con l'occhio sempre volto alla sala da pranzo. Finalmente arrivò il sospirato: Signori, è in tavola. A Ficchíno toccò l'onore di accompagnare la signora: ciascuno si mette al sue posto; l'apparecchio ricchissimo promette ogni più fino allettamento della gola; già si distribuivano le scodelle della minestra; quando entra un servitore con una lettera per il padrone. Questi l'apre, e cade abbandonatamente col capo sopra la tavola.—Dio mio! che è stato? grida la signora: e tutti si alzano, chi dicendo una cosa, chi l'altra... Una sventura gravissima era sopraggiunta alla nobile famiglia: il signore e la signora si scusarono alla meglio; il pranzo andò all'aria; e gli invitati, fatte le loro condoglianze, andarono chi qua chi là. A Don Ficchíno seppe proprio male di questo fatto inaspettato; ma, Fortuna, disse dentro di sè, che stasera ci ho quest'altro pranzo! rimetterò le dotte lì. E mezzo sbalordito andò via, cercando di far le sette e mezzo. La prima cosa andò a mangiare un tagliuolo di stiacciat'unta, perchè, avendo, come l'altra volta, preso l'acqua del Tettúccio, e fatta una colazioncína leggiera, si sentiva assai fame: poi una capatína qui, una là[13]: finalmente l'ora tanto aspettata arrivò; e l'amico s'avviò súbito a casa F. portato dal desío e dall'appetito. Eravamo là sul principio del decembre; e il tempo nuvoloso si buttava al crudo, accennando a neve; sicchè non gli parve vero di infilarsi in quella casa, dove sperava riscaldarsi e refocillarsi tutto[14], tanto più che non aveva pensato a coprirsi troppo bene. Egli era dei frequentatori più assidui della conversazione di que' signori, sicchè il portiere lo salutò familiarmente ed il servitore d'anticamera lo annunziò tosto alla signora, la quale era nel suo salottino con altre due amiche. A Don Ficchíno parve un poco strano il veder queste donne così sole, il perchè, dopo le solite riverenze, inchini, e strette di mano: Come mai queste signore così sole?—Gli uomini, rispose la signora, son su nella stanza da fumare: ma ora scenderanno. Sanno che dobbiamo andare al teatro. Al povero Don Ficchíno non rimase sangue nelle vene; e tutto confuso, con atto di gran maraviglia, esclamò: Al teatro!—Già, o non lo sapete che stasera c'è gran cose? venite anche voi.—Grazie, signora... Ma lei... ho forse sbagliato leggendo?... o la stampería?...—Ma che almanaccate, professore?... E il povero professore, levatosi di tasca l'invito, lo mostrò alla signora, la quale trattenendo a stento le risa: Noi non abbiamo mandato tali inviti; qualcheduno ha voluto farvi una celia. L'ira, la vergogna, la fame, si dipinsero stranamente in figura diversa sul volto del povero Ficchíno, il quale, se non fosse stato tanto ridícolo, avrebbe fatto pianger le pietre: A me! a un mio pari!... me la pagheranno... la mia penna!... Intanto eccoti giù tutti coloro che erano stati a pranzo, ed uscivano da fumare, i quali, saputa la cosa, dolenti in vista del mal tiro fatto al professore, sotto i baffi se la ridevano gustosamente.—Signori, ci sono le carrozze—disse un servitore, affacciandosi all'uscio; e tutti si alzarono, e andarono al teatro, dove, più che la commedia, dette materia di spasso la celia fatta a Don Ficchíno, la quale si sparse in un momento per tutti i palchi, e anche per la platea. Ma la celia non finì qui. Il povero professore, con una fame da lupi, fece pensiero d'andare a pigliar qualcosa alla trattoría. Erano già sonate le otto da un pezzo; veniva un nevíschio fitto fitto, con un vento diaccio che pelava: quella città, piccola e pochissimo popolata, nell'inverno dalle sette in là pareva un deserto; e solo rimaneva aperto fino alle dieci il caffè, e quella trattoría, dove qualche rara volta soleva andar Don Ficchíno, il quale era fieramente in úggia al trattore e a' camerieri, come colui ch'era famoso lesinante, e seccatore pertinacissimo. Coloro che avevano ordito la trama pensarono che il professore, rimasto a denti secchi nelle due case, sarebbe andato alla trattoría; e però s'indettarono col padrone, che gli secondò a meraviglia, avendo, come dissi, in úggia Don Ficchíno, un di quegli avventori, com'egli diceva, che è meglio perdergli che trovargli. Bisogna sapere che Don Ficchíno, oltre all'essere spilòrcio e seccatore, era schizzinoso in estremo grado; e
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