Novelle e ghiribizzi. Fanfani Pietro
picchia nel bicchiere; e al cameriere, che venne súbito:—Che ci avete di buono?—Eh, signor professore, non potrò darle, se non una zuppa e una bistecca.—Bene: porta súbito la zuppa e prepara la bistecca.—Súbito.—Quella zuppa si fece aspettare un pezzo: e lo stomaco del povero Ficchíno latrava rabbiosamente. Finalmente èccola... L'aveva mangiata mezza cogli occhj nel tempo che il cameriere la portava in tavola: appena messa davanti, ne ingolla furiosamente una cucchiajata; un puzzo e un saporaccio orribile! il povero Ficchíno ebbe a dar fuori il primo boccone che gli diede la bália[15].—Geppíno, Geppíno!—Comandi, signor professore.—Ma questa zuppa puzza che mena la saetta.—E Geppíno, annusando:—Puzza? scusi, signor Professore: ma a me non mi pare...—Pòrtala via, e affretta la bistecca.—E Geppíno porta via la zuppa. Dopo un altro pezzo viene la bistecca; e se la zuppa era stata puzzolente, questa era puzzolente e mezzo. Allora Ficchíno montò su tutte le furie: maltrattò padroni e camerieri, e andava via tutto stizzito: ma fu trattenuto, e dovè pagare lo scotto, come se avesse mangiato. Affamato, assiderato, arrabbiato, corse al caffè; stavano per chiudere, e non c'era più nè latte, nè caffè, nè sèmelli o chífelli. Non restava altra speranza che il trovare qualche cosa di avanzato al povero desinare della sua donna di servizio; una montanína appannatotta[16], che Don Ficchíno teneva anche per maestra di lingua e di poesía; e che gli costava poco, avvezza com'era a necci[17] e polenda, suo cibo prediletto quando il padrone non mangiava in casa, che vuol dire quattro o cinque giorni per settimana. Erano le dieci quando Ficchíno tornò a casa; e domandato alla Zelinda se c'era nulla da mangiare, gli rispose che non c'era nulla, se non un po' di polenda, e un rosícchiolo di cacio.—Datemi quello.—E senza fare altre parole, mangiò la polenda con quel poco di cacio, ingollando, come suol dirsi, un boccone di quella e un boccon di veleno[18]: bevve un bicchier di vino, e insaccò nel letto a digerire la bile. Ma non era finita! Quando fu così sulla mezzanotte, che Ficchíno ruminava sempre chi diavolo potesse avergli fatto la celia, meditando vendetta, e la Zelinda se la dormiva placidamente; si ode una grande scampanellata. La serva si desta di sobbalzo, e súbito salta il letto. Ficchíno chiamava, bociando, Non aprite; ma un'altra scampanellata, e poi un'altra più rovinosa.—Affacciatevi, disse allora Ficchíno: potrebbe esserci qualcosa di grave. E la Zelinda si affaccia:—Chi è?—Un plico per il signor professore.—Senta, io non iscendo; lo metta dentro a questo paniere.—E, calato un paniere, lo tirò su con un involto assai grosso, che portò súbito di là al padrone, il quale, fattosi accendere il lume, rimandò a letto la donna, e sbuzzando[19] l'involto, vi trovò un Almanacco del gastrònomo, un pacchettino d'inviti a pranzo per più giorni alla fila nelle prime case della città, e un biglietto di questo tenore;
Caro Don Ficchíno,
«Un pasto buono e un mezzano, mantien l'uomo sano» come sapete; e «chi troppo mangia scoppia». Avendo voi mangiato a strippapelle tanti giorni alle còstole altrui, oggi, impauriti di vedervi scoppiare, vi abbiamo fatto la celia de' due finti inviti, della trattoría e del caffè, mandandovi a letto digiuno. Come però «Chi va a letto senza cena, tutta la notte si dimena», così abbiamo pensato di mandarvi questo Almanacco, dove leggerete descritte le più ghiotte vivande, per una qualche consolazione del forzato digiuno, e della veglia che ne è la conseguenza. Acciocchè poi non crediate che lo abbiamo fatto per ischerno della vostra magnificággine, o per altra cagione che per tenerezza della vostra sanità, vi mandiamo questi inviti a pranzo, che abbiamo raccolti stasera al teatro da que' signori, che parlavano e ridevano della celia fáttavi, ma che pur vogliono darvene un qualche compenso.
Valutate, illustre Ficchíno, la nostra buona volontà, e il Signore vi conservi lo stomaco.
Alcuni vostri ammiratori.
È facile l'immaginarsi che effetto fece sull'animo, già tanto amareggiato, del povero professore questa novella canzonatura; e come lo rodesse la stizza di non potersi almeno sfogare un poco. Libro, inviti, lettera e ogni cosa scaraventò in fondo alla camera: spense il lume; ficcò il capo sotto le lenzuola, e stette quasi tutta la notte senza poter chiuder occhio, tra per la fame, per la rovella e per la vergogna. Come prima fu giorno, chiamò la Zelinda che gli portasse il caffè, dove inzuppò non so quante fette di pane. Per quel giorno non volle metter piede fuori dell'uscio, e fece propòsito di non accettar più inviti da nessuno... Ma poteva egli Don Ficchíno star fermo in sì fatto propòsito? Una, due volte, fino alla terza disse di no; ma poi, trattandosi di un pranzo dove si sapeva dovervi essere ogni più squisita delizia, non potè resistere, e accettò. Povero Don Ficchíno! fu l'ultimo pranzo! Era stato tanti giorni lontano dalle ricche tavole; erano tante e tanto preziose quelle vivande e que' vini, che lasciò libero il freno al suo poderoso appetito. Nella notte lo prese un'orribile gravezza di capo; poi una febbre da leoni; e dopo tre giorni era morto. Il suo corpo fu sepolto nel camposanto della sua città, e distingue le sue dalle infinite ossa che quivi ha seminato la morte, una pietra con questo epitaffio:
Ficchíno giace qui;
Nacque, mangiò, morì.
NOVELLA II.[20]
LA CONSOLAZIONE DELLA VEDOVA.
La novella della Vedova d'Efeso, raccontata prima da Fedro, poi da Apulejo, e poi da altri e altri, non è fatta se non per provare quanto facilmente l'uomo, e specialmente la donna, dimentica le persone più care furátele dalla morte. Se non la sapete, ve la dico in quattro parole. Le morì il caro marito; e lei giurò di voler finire i suoi giorni presso alla tomba di esso, accanto alla quale fece fare apposta un piccolo tugúrio, dove star sempre a piangerlo. Fu nel giorno stesso appiccato un famoso birbone, e lasciato esposto in mezzo alla campagna, proprio lì presso alla tomba, póstovi a guardia un soldato, acciocchè nessuno lo spiccasse. Quel soldato era un pezzo di giovanotto, ma dite bello![21] e la vedovella un occhio di sole.—Povera donna, mi fa proprio compassione!—E va là per consolarla un poco. Era fiato gettato: la voleva morire per amor del marito. Ma si guardarono...—Che bell'uomo! somiglia il mio povero marito.—A farvela corta, finì come doveva finire: s'innamorarono come due gatti di gennajo. Mentre però quel soldato consolava la vedovella, i compagni dell'impiccato, che stavano alla posta, veduto il bello, lo spiccarono, e via a gambe: e tornato lui alla guardia, e vedendo sparito il pènzolo, gli cascò il fiato, e dava in tutte le smanie. La vedova allora andò a consolar lui:—Che è stato, amor mio? datti pace; a tutto c'è rimedio: o non c'è il corpo del mio marito buon'anima?... Vien con me.—Vanno: levano il marito morto dalla sepoltura, lei per il capo e lui per le gambe: te lo portano alla forca; e lo lasciano a penzolare pasto obbrobrioso dei corvi.
Questa vedova è parlante esempio della verità del nostro proverbio: Chi muore giace; e chi vive si dà pace, ma almeno non fu ipòcrita. Tanti filosofacci battezzarono per virtù una certa loro fortezza d'animo; e si fossero veduti morir mezzo mondo lì a' loro piedi, non si crollavano. Altri rimediano col fatalismo: i cattolici con la rassegnazione cristiana, e col Dominus dedit, Dominus abstulit, fiat voluntas Dei; e così non pèrdono un'ora di sonno, nè mangiano un boccon di meno. Tutti però fanno testimonianza dell'alta sapienza dei Greci che la Morte appellarono Oblío.
NOVELLA III.[22]
I TORDI-MERLI.
Antonio Guidi era un assai valente calzolaio di Pistoja, che, facendo buoni guadagni, volle accasarsi, e sposò una onesta fanciulla di Prato, buona, timorata di Dio, e martire del lavoro, se non quanto era un poco ciarliera e caparbia; con la quale visse in concordia due o tre anni, andando sempre le loro cose di bene in meglio, e facendo vita molto agiata e lietissima, raramente turbata da' piccoli diverbj che ci sono sempre tra moglie e marito: tanto che erano l'invidia de' loro pari. Accadde una volta che ad Antonio furon mandati a regalare da un suo ricco avventore[23] due bei mazzi di tordi, e un