L'evoluzione di Giosuè Carducci. Alfredo Panzini
periodi armonicamente partiti come un edificio della rinascenza, tendenti al loro fine come getto di balestra, gli togliesse per così dire la mano: era una breve ed occulta lotta fra il voler dire o seguitare il commento linguistico; ma infine l'onda delle imagini crescenti come l'impeto della marea, vinceva ogni resistenza e si udivano allora le più alate e scintillanti digressioni che mai siano risonate in quelle scuole di filologia.
Chi, ad esempio, tra i frequentatori della facoltà di lettere a Bologna non ricorda, specie in certi giorni senza sole, grigi di nebbie e di piogge, il caratteristico entrare del Carducci nella scuola di filologia? Non era l'aula detta sopra, ove Egli faceva le sue lezioni di letteratura, ma un'altra molto più piccola e abbastanza chiara al primo piano.
Benchè i banchi fossero quasi per intero occupati dagli studenti della facoltà e si sapesse che quel giorno il Carducci non teneva che le solite lezioni di magistero, ciò è a dire di critica e d'interpretazione, tuttavia l'affluenza del pubblico era sempre tale da riempire tutti i vani possibili: studenti di altre facoltà, signore e signori venuti o per amore d'arte o per curiosità di vedere ed udire il grande Poeta.
Rammento fra gli uditori illustri la biblica, pensosa e dolorosa figura del conte Aurelio Saffi; la faccia animata della nobile donna Vitthe Jessie Mario. Egli li scorgeva appena che rendeva loro ossequio prima di salire su la cattedra.
Ma qui una parentesi cade giusta: voglio dire che l'universale degl'italiani press'a poco sa chi è il Carducci: il primo poeta della nazione, che ha scritto l'inno a Satana, le poesie barbare con l'ode alla Regina, che prima era repubblicano e adesso è senatore e monarchico.
Questo lo sanno tutti e nessuno lo contrasta. Alcuni, è vero, discutono se più Egli valga come poeta o come prosatore; ma per compenso quasi tutti spingono la loro erudizione sino a recitare a memoria un certo sonetto del Rapisardi, e tutto ciò va bene: però se questo allegro popolo per sue speciali ragioni non può intendere nè il poeta, nè il prosatore, nè l'uomo, sarebbe però giusto che sapesse come il Carducci che prima accusavano di godersi lo stipendio governativo, lui repubblicano; ed oggi accusano di avvantaggiarsi del suo mutamento politico (di diversa fede gli uni dagli altri, uguali gli uni agli altri nella cosciente calunnia), non abbia fra tutti gli ufficiali dello Stato alcuno che lo sorpassi nell'adempimento continuo, austero, pieno del proprio dovere.
Egli è il primo maestro del regno; ed anche oggi prosegue ed insegna con l'animo e con la fede d'allora. Una sola volta, in quattro anni che fui suo scolaro, venne alla scuola e disse, come confessando un suo errore da cui voleva che noi giovani dati all'insegnamento molto ci guardassimo, di essere costretto per quella volta a improvvisare la lezione a braccia e fu, ricordo, un poderoso raffronto fra i classici ed i romantici, denso di sintesi e di riattacchi storici quali Egli sa fare.
Del resto ogni lezione era una primizia de' suoi studi, che Egli recava alla scuola ancora viva e palpitante delle ultime ricerche: e da quel vigoroso e sicuro percuotere del pensiero entro le viscere del passato balzavano fuori scintille di verità e di luce: e in alto, senza alcun preconcetto di scuola o di politica, ma naturalmente, in alto, come faro luminoso, splendeva o s'intravvedeva risplendere l'ideale di questa gran patria italiana.
Tale il Carducci come maestro, tale la sua opera rigeneratrice in quella scuola piccola, dalle finestre luminose donde il giorno fuggiva e dove la sua parola richiamava la luce.
Lo ricordate voi, compagni buoni, dispersi per le scuole d'Italia, lo ricordate voi? Si chiosavano i canti dell'Inferno, si leggevano le stanze della canzone di Rolando, i sonetti del Guinizelli e del Petrarca, lo ricordate? L'ora era trascorsa; era venuta la notte e il silenzio: le sei lampade a gaz mandavano il loro ronzio e la loro viva fiamma. Egli saliva su per i banchi, si sedeva talvolta presso di noi, accennava ora all'uno ora all'altro con la sua nervosa, breve e bianca mano di continuare; e spesso, vedendoci stanchi per l'ora tarda e per il prolungato lavoro, Egli stesso leggeva e spiegava, e ci trascinava oltre, fuori del presente, per quelle grandi ondate degli antichi canti. Taluno, ricordo, che era in maggiore dimestichezza, levava fuori l'orologio come a dire: «Maestro, l'ora è trascorsa, anche quella del desinare.» Egli vedeva, sorrideva bonariamente e interrompeva dicendo: «Fra poco, sino a questo punto e poi basta.»
Si usciva: fuori frizzava la nebbia e sotto i lunghi portici batteva largo il vento; pure noi scolari non si cessava del conversare animato. Lo ricordate, buoni amici, se pure vi rimane animo e tempo di ricordare?
E chiudo la parentesi perchè l'indugiarmi con memorie subbiettive ripugna a me e alla natura di questo scritto.
* * *
Dunque Egli entrava regolarmente alle tre e come un fremito di rispettoso silenzio lo precedeva su per l'ampio scalone sino agli angoli più remoti della scuola: era un ultimo bisbiglio, un adattarsi alla meglio degli uditori su le poche seggiole fornite dalla premurosa solerzia del bidello Monti, dalla voce fessa e dal cuore mite.
Il Carducci volgeva attorno uno sguardo aggrondato, tediato alla vista di quel troppo numeroso uditorio: un altro sguardo lungo fuori dei vetri al cielo grigio, ai tetti umidi; poi un altro ancora agli uditori attenti, aspettanti e maraviglianti in silenzio.
Noi che si conosceva l'uomo, ci scambiavamo sguardi d'intelligenza, chè di parlare anche sottovoce non era quella la buona occasione e si rischiava di pigliarci un rabbuffo secco e terribile.
Ah, voi vi aspettate oggi la conferenza letteraria, forbita e oratoria che si convenga all'aspettazione e vi faccia passare piacevolmente queste ore incresciose! Ve la darò io la lezione! Ma questo non è un ridotto per conferenze, nè io son qui per divertirvi col sentimento e con l'estetica, e nè meno per avere applausi: questa è semplicemente una scuola dove io devo e voglio attendere a fare de' buoni maestri per i ginnasi ed i licei d'Italia: null'altro.
Questo pensiero si leggeva in certe sue mosse brusche, nello sguardo, nell'aggrottare della fronte e in certo suo tormentarsi la barba; poi si esplicava di solito in poche, burbere e rotte parole che sonavano presso a poco così:
«Avverto lor signori che questa è lezione di magistero: farò della pura filologia, molta filologia...» come a dire: ciò non può interessarvi e fareste meglio per voi e per me ad andarvene.
La minaccia riusciva, come è a credere, vana: nessuno si moveva.
Alcuni scolari, ad un suo cenno, andavano a prendere i soliti testi di consultazione: Egli passava dall'uno all'altro scolaro; rivedeva i quaderni, i libri, gli appunti. Erano per noi momenti terribili!
«A lei!» questa era la parola sacramentale.
L'interpellato cominciava e leggeva. A poco a poco la scuola si animava e ripigliava il solito aspetto; la voce e la fisonomia del maestro scendevano al livello normale, e lezione cominciava.
Il suo metodo didattico è ammirevole e perfetto. L'interrogato legge e chiosa; ne' passi controversi od oscuri ognuno è libero d'esporre la sua interpretazione. Egli ascolta, accetta, disapprova, corregge, talvolta loda, in fine amplifica e fornisce tutti gli elementi per cui il giudizio si possa accostare al vero; e se alcuna cosa ignora in quella sua molteplice ricerca, lo confessa liberamente; ne prende appunto per sè ed invita altri ad approfondire la questione. La più scrupolosa esattezza critica e linguistica si congiunge senza sforzo, senza stacco, alla più alta e spirituale concezione del testo: piano, insensibilmente, forse senza volerlo, ma con la forza intuitiva del genio, spesso movendo dal più semplice esame filologico, solleva la mente dello scolaro fino a far sì che questi fissi diritto, quasi allo stesso livello, il pensiero de' sommi autori di cui si ragiona.
Pure Egli così rimesso e semplice, avea degli scatti invincibili di sdegno se s'imbatteva in qualche scolaro che si fosse presentato a rispondere impreparato di tutto quel corredo di nozioni filologiche e storiche che si richiedevano.
Tale mancanza, spesso scusabile in un giovane, si presentava al Carducci sotto l'aspetto assoluto di un'affievolita coscienza del dovere e dello studio, e allora scoppiavano di que' rimproveri che dove toccavano levavano la pelle.
E anche di ciò bisogna ricercare la causa nel concetto che Egli aveva della scuola. Il Carducci, io penso, non si è mai illuso di avere sotto di sè dei geni in erba, ovvero che