Una giovinezza del secolo XIX. Neera

Una giovinezza del secolo XIX - Neera


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noiosi, ma non gli manca la speranza che parlando del suo Io quelli che lo ascoltano non penseranno che a se stessi. Tutti i ricordi, le confessioni, le meditazioni onestamente soggettive, mentre sono nate dal bisogno di esprimere un certo Io, riescono appunto per l'intensità della propria commozione a comunicare cogli altri uomini o, quanto mai, con gruppi e categorie sociali più interessanti di una vaga e generica umanità. Così, conclude un altro pensatore, i libri autobiografici, colla forza espressiva delle cose individualmente vissute, illuminano circoli di vite più ampie, danno la voce a più vaste ansie che non sanno parlare. Documentano insomma.

      È vero che Taine chiama l'Io detestabile, ma per Gian Paolo Richter l'Io è ciò che la lingua può esprimere di più alto e di più comprensivo, essendo ogni Io una personalità che significa una individualità spirituale. Fra l'affermazione di Taine e quella di Richter sta di mezzo un equivoco subito spiegato dalla parola spirituale. E del resto il grande istoriografo della Francia non è andato a cercare le origini alle memorie e ai documenti più oscuri?

      E sarò io tanto ingrata da dimenticare l'argomento più persuasivo, l'amore de' miei lettori? Tra le soddisfazioni più vive della mia carriera letteraria devo pure annoverare la larga onda di simpatia che mi venne, non dalla critica ufficiale, ma dal mondo ignorato invisibile e lontano delle anime che mi amarono attraverso l'anima mia.

      Sapere che qualcuno dei miei libri ha asciugato delle vere lagrime e qualche altro diede ala di fede a coscienze turbate, è tale profonda contentezza da giustificare l'opera e compensarla al di là di ogni speranza. Ricordo con particolare commozione la preghiera di una madre, la cui unica figlia consunta da mal sottile non trovava altro oblio de' suoi dolori che nella corrispondenza del mio spirito, e la madre, troppo povera per acquistare i miei volumi, me li chiedeva come si chiede il pane. E un giovane, perfettamente sconosciuto, dopo aver letto Senio in una crisi particolare del suo cuore, mi scrisse ringraziandomi del bene che gli aveva fatto quella lettura salvandolo da un cattivo passo che stava per compiere.

      Ora Senio è un romanzo mediocrissimo, del primo periodo della mia produzione, quando l'idea e la forma non si erano ancora concretate in sostanza d'arte, e la fanciulla che alleviava il suo male nella comunione col mio pensiero non era probabilmente un genio, ma ho scelto a bella posta questi due esempi fra i più umili, perchè da essi si avvalora la mia tesi, che molta luce può venire alle anime quando un'anima si apre alle sue sorelle.

      Ai nostri giorni è poco probabile avvenga ciò che si narra di una città della Tracia, la quale da corrottissima e abbietta come era tutta quanta si convertì per un verso di Euripide che cantava le glorie d'amore; tuttavia ognuno di noi ricorderà i momenti e le ore di vera gioia passate sulle pagine dell'autore prediletto, vale a dire colui che ha maggiori affinità colla nostra psiche, che meglio intende le nostre passioni e i nostri dolori. Vi è qualcuno, che leggendo quel mirabile canto d'amore che è la Nuit d'octobre del De Musset, rivive talmente se stesso, da sentire cadere sul proprio cuore i conforti della Musa al Poeta; ripetere quei versi in certi momenti è aver vicino un fratello, è posare la fronte su un cuore che ci comprende. E vi è chi in alcune pagine delle Confessioni di S. Agostino si trova portato in alto dal profondo senso di umanità che vi domina, quasi preso per mano dal grande santo, che conosceva così bene le passioni degli uomini, e guidato da lui verso sentieri di perfezione.

      In seguito a simili esempi è arduo ritornare al mio modesto Io e tuttavia non mi sento sbigottita. Penso quante volte i miei buoni lettori desiderarono conoscermi, e quante volte mi chiesero dove sono nata e chi mi istruì e come mi venne l'idea di scrivere e tante altre cose. Ebbene, eccomi sono qui! Molti, purtroppo, troveranno una Neera diversa da quella, che il bel nome classico e la loro stessa fantasia, potrebbe aver suscitato; nè di tale disappunto mi vorrò soverchiamente dolere, perchè nella mia ansiosa ricerca del vero preferisco essere conosciuta come sono, anzichè avvantaggiarmi di meriti che non ho.

      Chiarite così le intenzioni di questo libro che sarà l'ultimo mio e quasi una specie di commiato, rammento a' miei lettori con malinconica rassegnazione che lo scrivo penosamente dal letto, servendomi di una matita guidata dalla mano sinistra, avendo la destra inferma, condizione forse unica fra tante Memorie che furono scritte.

      Dedico queste pagine d'amore e di dolore a tutti coloro che mi hanno amata nella vita o nell'arte, un'ora, un giorno o sempre; ai miei morti diletti; ai vivi che mi amano ancora e che mi circondano dalle loro cure, ai lontani che non mi sarà più dato di rivedere; a coloro che non vidi mai e che mi amarono nei miei scritti, infine a coloro che mi ameranno quando non sarò più. Lasciatemi quest'ultima illusione, cara fra tutte, di credere che nei tempi che verranno, qualche solitario, qualche ingenuo sentimentale, qualche innamorato (se ve ne saranno ancora) trovando sulle bancarelle delle fiere uno sciupato volume di Anima sola o di Teresa, dell'Indomani o di Vecchia casa, di Duello d'anime o di Rogo d'amore sarà tentato di leggere questo autore sconosciuto e, forse, lo amerà per la misteriosa corrispondenza delle anime che sopravvivono alla distruzione della materia e si incontrano nel tempo e nello spazio. Lasciate che io ripeta il motto ultimo di Giovanni dalle Bande Nere: «Amatemi quando sarò morta».

       Indice

      Viaggi, specialmente negli ultimi vent'anni della mia vita, ne feci parecchi tanto in Italia che all'estero, ma nessuno fu romantico e pittoresco come il primo, che compii a mia insaputa sotto il tabarro di mio zio Bona, attraverso i muriccioli di due o tre giardini, intanto che le palle dei fucili austriaci fischiavano intorno alla mia culla.

      Erano le famose Cinque Giornate del quarantotto. Mio padre e mia madre abitavano in via Monte di Pietà la casa segnata ora col numero 9 di rimpetto al palazzo della attuale Cassa di Risparmio sulla cui area sorgeva allora il palazzo del Genio militare, al quale i cittadini avevano dato l'assalto, terminato felicemente coll'atto audace di Pasquale Sottocorno che diede fuoco alla porta, come è noto.

      Molte volte, attraversando la contrada così signorilmente tranquilla dove sono nata, mi figuravo le lotte sanguinose di cui fu teatro in quei giorni e lo spavento di mia madre per quelle fucilate che le entravano in camera. Già ad una finestra della medesima casa era caduto ferito mortalmente l'Anfossi, patriota nizzardo, che armato di un fucile aveva tenuto testa alle scariche del palazzo del Genio. Fu allora che un fratello di mia madre, lo zio Bona, pensò di salvarmi nascondendomi sotto il suo tabarro e col piccolo fardello vivo sulle braccia scavalcando il muro del giardino, via per altri giardini consecutivi, mi portava in salvo dalla mia nonna, che abitava in quelle vicinanze.

      Ed ancora molte volte, leggendo le lapidi che in via Monte di Pietà ricordano i nomi sacri alla patria di Federico Confalonieri, di Pellico, di Porro Lambertenghi, pensavo che avrebbe potuto trovar posto anche un ricordo per l'Anfossi e per il Sottocorno in quella via e in quel quartiere, che è tutto un documento prezioso per la storia del nostro risorgimento nazionale. Perchè senza uscire dal Monte di Pietà troviamo la casa dove andò sposa Clara Maffei e nella vicinissima via Manzoni quella dove morì e tra l'una e l'altra nella stretta, solitaria, antichissima via Andegari l'ultima dimora di Carlo Tenca, tutti uomini che devono far balzare di tenerezza e d'orgoglio il cuore di noi milanesi, e che possiamo riassumere chiudendo la breve elissi di questo quartiere eroico fermandoci reverenti dinanzi alla targa che alla estremità di esso fissa per i posteri col nome di Giuseppe Verdi una delle glorie più pure d'Italia, l'aedo canoro delle aspirazioni di un popolo.

      Sono nata a Milano, ma i miei genitori non erano milanesi. Essi appartennero alla grande fiumana che dalla provincia accorre continuamente ad alimentare di sangue nuovo le arterie delle grandi città. Si erano incontrati, amati e, dopo qualche contrasto da parte della famiglia di mia madre che si credeva forse superiore per ampiezza di mezzi e parentele distinte, sposati; ma di quel primo soggiorno in via Monte di Pietà non ho altre memorie oltre la fuga attraverso i giardini narratami dallo zio Bona molti anni più tardi. Lo zio Bona si chiamava Bonaventura, ma essendovi due cugini dello stesso nome per cui avvenivano malintesi ed equivoci, mia madre aveva sciolta la questione affidando a suo fratello la prima parte del nome, Bona; a un cugino la seconda parte, Ventura; all'altro cugino il nome intero, Bonaventura. E furono contenti


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