Una giovinezza del secolo XIX. Neera
battendo il lastrico con un rumore di cascata.
Dolci ore passavo nel salottino accanto allo studio del nonno, dove la zia Carolina lavorava insegnandomi certe canzonette francesi da lei imparate nel collegio di Madama Garnier.
Arlequin tient sa boutique
Sur les marches d'un palais
Il enseigne la musique
À tous ses petits valets:
À monsieur Pol, à monsieur Li
À monsieur Chi, à monsieur Nel
A monsieur Polichinel!
Guardavo anche con interesse la vecchia Teresa incantucciata dentro il vano di un uscio, sotto il portico, ad agucchiare indefessa intorno ai bucati trimestrali della famiglia e il piccolo Toni sotto il fico a spazzolare energicamente le scarpe del nonno e la lunga Francesca (quanto era lontano il mio viso dal suo) che sciacquava piatti in una vasca di nitido marmo fra quattro pareti fitte di rame di cui ogni oggetto splendeva come un sole. Io andavo dall'una all'altra di queste persone portata da un'aura di simpatia che rendeva il mio passo leggero come un volo. Nessuno mi sgridava mai. Mi sentivo felice.
E come erano belle le sere d'autunno in casa de' miei nonni! Quando il nonno tornava dai campi (aveva terre proprie e molte altre in affitto) si metteva il riso al fuoco e la famiglia vi si riuniva tutta intorno, il nonno, la nonna, la zia Carolina, la vecchia Teresa, la lunga Francesca, il piccolo Toni, ultimo Nicola che era andato a mettere a posto il cavallo. Saliva alta la fiamma sotto la cappa del camino gettando bagliori rossi sulle facce schierate in giro.
Silenzio. Suona l'Ave Maria della sera.
Ai primi rintocchi tutte le fronti si chinano; la nonna fa il segno della croce; tutti la imitano e la breve preghiera recitata insieme da padroni e da domestici si diffonde nell'ampia cucina patriarcale.
La sala da pranzo aveva nel mezzo una grande tavola massiccia apparecchiata e una più piccola da un lato essa pure ricoperta da una candida tovaglia, dove la nonna apparecchiava lei stessa le porzioni per la servitù, in ragione dell'età e dei bisogni di ciascuno, avanzo questo degli antichi rapporti coi domestici i quali sentivano del padrone la soggezione e la protezione insieme. Dopo pranzo il nonno piegava qualche istante il volto pallido e pensoso sull'Eco della Borsa, unico giornale che penetrasse in casa; la nonna allora mi prendeva sui ginocchi, mi baciava, mi coccolava, mi diceva la storia del Mostro turchino e quella delle Due palombe.
Alla domenica si giuocava a tarocchi intorno alla tavola de' miei nonni. A fare il quarto veniva generalmente lo zio Germanico, che era il dottore del paese e aveva sposato la seconda sorella di mia madre. Se capitava qualcun altro la zia Carolina cedeva il suo posto. Io, dopo essermi trastullata un poco a osservare le figurine del giuoco: La ruota della fortuna, Il pazzo, L'appeso, sgaiattolavo dalla mia sedia giù sul pavimento a intraprendere carponi il giro della sala ignorando di aver avuto un celebre predecessore e con intenzioni molto meno filosofiche delle sue. Mi piacevano le pareti rivestite fino a metà da un alto zoccolo di legno scanalato e verniciato, risalendo le quali, fino al soffitto, l'occhio mio fanciullesco si beava in una pittorica esposizione di frutta più grande del vero e di uccelli fantastici; forse l'uccello Roc il di cui uovo miracoloso pendeva dalla volta del palazzo di Aladino?
Poi mi fermavo dinanzi al paracamino dove era dipinta una montagna con un ciuffetto di fumo sulla cima e scritto sotto: Etna o Mongibello. Dall'Etna o Mongibello passavo alla rivista dei ninnoli rinchiusi dietro i vetri di uno di quei mobili che si chiamano étagéres, con un vocabolo francese che non saprei in qual modo sostituire, e finalmente prendevo fiato accanto ad un grazioso Arlecchino alto come me — ma io ero in ginocchio — ricamato a punto croce con una mascherina nera attraverso i cui fori brillavano gli occhietti di vetro. Vestito di verde di rosso e di giallo, con una stecca nel dorso che lo teneva ritto, brandendo la minacciosa spatola di legno, egli faceva la guardia all'uscio vegliando quando era chiuso e tenendolo aperto quando occorreva, contro la forza del vento.
Sollevandomi dal mio viaggio terra a terra, contemplavo il più bell'ornamento di quella sala, i ritratti a olio del nonno e della nonna, opera del pittore Moriggia che della nostra famiglia era amicissimo. Giovanni Moriggia, gloria di Caravaggio, che fu già culla di altri pittori celebri, ebbe l'onore di affrescare la cupola del grande Santuario coi relativi pennacchi rappresentanti le quattro virtù cardinali: Giustizia, Fortezza, Prudenza, Temperanza. Nel pennacchio della temperanza, che ha per soggetto l'incontro del ricco Booz colla dolce Ruth, la figura della spigolatrice è stata presa da mia madre, che ne aveva veramente nel volto la dolce bellezza. Un grande quadro del Moriggia, ideato durante il suo esilio di patriota in Svizzera, è quello del Guglielmo Tell che riconosce Alberto d'Austria sotto le spoglie di un frate francescano. Io lo vidi durante tutti gli anni che andai a Caravaggio appeso nella camera della zia Carolina e mi rimase negli occhi fra le impressioni più vive della mia infanzia. Conobbi anche Moriggia negli ultimi anni della sua vita. Era un vecchio alto e magro cogli occhi scintillanti. Mi colpì una volta che parlava concitatamente con una mia zia, questa frase «Lo dicevo sempre a Luigi Napoleone, ma egli ci ha traditi». Chiesi poi alla zia chi fosse quel Luigi Napoleone che ci aveva traditi e la zia mi fece rimanere di sasso rispondendo con tutta semplicità: «È l'imperatore dei Francesi». Mazziniano, affigliato alla Giovane Italia, Moriggia conosceva tutte le persecuzioni del governo austriaco, compresa la prigione, ed esiliato più di una volta, nell'esilio appunto si era incontrato col giovane principe cospiratore anch'egli e, come è noto e come provò in seguito favorevole al movimento liberale italiano. Oltre ai ritratti del nonno e della nonna, Moriggia ritrasse quasi tutti della famiglia, ma quei due mi sembrano i più efficaci per finezza di lavoro e somiglianza perfetta della quale rimango testimonio io sola essendo tutti gli altri morti. A quei due ritratti di persone, che tanto sorriso sparsero sulla mia infanzia e che il succedersi delle vicende condusse nella casa di parenti che non li conobbero, invio da queste pagine un saluto pieno di commozione.
Sola superstite di un piccolo mondo scomparso! Ripensandoci mi sembra di aver vissuto due vite. La storia dell'universo è scolpita nella memoria di ciascuno; ogni generazione la trasmette ad un'altra per mezzo di piccole evoluzioni quasi invisibili. Sono io la stessa di ieri?
Oh! l'imprudente fanciulla che avendo abusato dei semi di popone ed anche dei poponi e delle belle pesche vermiglie che il nonno portava a casa nel suo calessino, doveva rimanere a letto un giorno o due invariabilmente tutti gli anni a purgare il suo peccato di gola! Ma anche quei giorni nella casa benedetta non mancavano di letizia. Dormivo in una bella camera, detta la camera dei forestieri, attigua a quella della mia cara zia, e, manco dirlo, fiancheggiata da due grandi guardarobe. Non mi sono mai annoiata in vita mia se non in compagnia d'altre persone.
Come si può essere così nemici di se stessi da non saper reggere a rimanere da soli?
Quando non avevo accanto la zia o la nonna, mi divertivo a contare i travicelli e i rosoni del soffitto spostandoli a mio talento formando nella mia mente altre combinazioni; oppure l'occhio, innamorato sin da allora della bellezza, si sprofondava con intenso diletto sulle ampie tende che, dall'alto delle finestre, scendevano a toccare il suolo ed avevano il fondo del colore del cielo cosparso di ghirlande di rose. Il momento difficile era quello di prendere la medicina. Mio zio Germanico, il dottore, buon uomo se mai ve ne fu, ma di una semplicità ruvida di cardo, invece di una graziosa pillola inargentata o di una bevanda al sciroppo d'arancio, si ostinava ad infliggermi un bottiglione pieno di un intruglio nerastro al quale dovevo i soli istanti amari del mio soggiorno a Caravaggio. Ma anche su questi vegliava l'affetto inesauribile della zia Carolina con dolci ragionamenti, con promesse, con carezze. Un giorno che doveva recarsi a Milano mi chiese che cosa mi avesse a portare se prendevo docilmente la medicina. Espressi il mio desiderio per un nastrino di velluto à la reine rosa e la vedo ancora partire col suo cabas in mano, la vedo ritornare traendo da esso il vellutino à la reine che mi aveva resa felice tutto il giorno nella aspettativa. Il cabas della zia Carolina, al pari della sua cuffietta da notte, sono nel mio pensiero indivisibili da lei stessa. Non usavano allora le borse di pelle. Quando a Milano, rientrando dalla scuola, vedevo sopra una sedia una specie di sacca ricamata, che presentava da una parte un cagnolino nero accovacciato sopra uno sgabello rosso e dall'altra su un trapunto