Una giovinezza del secolo XIX. Neera
Mantova, favoriva efficacemente lo sviluppo della letteratura drammatica in Italia e coll'epico frammento sulla Giostra di Giuliano dei Medici illeggiadriva l'ottava ancor stentata del Boccaccio e sgombrava la via all'Ariosto e al Berni. Moriva quarantenne il giorno stesso in cui Carlo VIII di Francia entrava in Firenze e lo dissero di carattere invido scostumato ed attaccabrighe».
Non riusciva, perchè nessuna di noi sapeva nulla di Lorenzo il Magnifico, meno ancora di Tibullo e di Anacreonte e ignorava affatto l'entrata di un Carlo VIII in Firenze; e non ce la spiegarono nemmeno dopo questo dettato.
Non so se oggi i maestri si sono persuasi, che l'insegnamento a base di nomi propri e di cifre è un corpo morto, il quale entra nel cervello dell'adolescente come in una tomba e vi si adagia nel sonno eterno. Il tedio, l'ira, l'odio in me suscitati dallo Skager Rak e dal Kattegat mi durano tutt'ora mentre, sarebbe stato tanto più interessante e istruttivo farci conoscere le terre della nostra bella Italia e condurci come in un viaggio di piacere sulle sponde dei nostri laghi e dei nostri mari, prima di ingombrarci la mente con nomi ostrogoti. Occorre bandire la pedanteria dall'istruzione primaria, alleggerirla, renderla fresca e parlare al cuore, parlare all'immaginazione, svegliare la sensibilità sana delle giovani creature che devono svilupparsi nella vita e non ammuffire sui testi. L'educatore che s'accosta alla fremente anima del fanciullo sbadigliando gli aridi spunti, che la sua indolenza gli fa ripetere d'anno in anno, senza che mai vi palpiti l'ala di un pensiero suscitatore, somiglia a colui che applicando a una cassa di legno un cartone sforacchiato e girando una manovella crede di fare della musica. Quella del maestro non è una professione, è una missione; egli è il sacerdote laico dell'umanità che sorge. Il destino di molti uomini, come ruscello avvelenato alla fonte, si guasta e si corrompe, sui banchi della scuola; molti dotati delle migliori attitudini per lo studio se ne svogliarono in causa della cretineria dell'insegnamento scolastico.
Io a scuola non mi ci potevo vedere; preferivo di gran lunga le sgridate di mia madre e il desiderio di finirla con quella oppressione degli studi era tanto che su tutti i miei quaderni scrissi questo ammonimento a me stessa: «Ricordati, se mai un giorno venissi a rimpiangere la scuola, che ne hai tu desiderata ardentemente la liberazione». Ma quel giorno non venne mai.
Oh! soavissimi autunni lontani, quando chiusi tutti i libri e dato un fervido addio alla scuola andavo a passare le vacanze dai miei nonni materni, a Caravaggio, che nel trasporto della mia gioia chiamavo Caro-viaggio. Tutto era letizia per me in quella casa benedetta; le carezze della nonna, la soave indulgenza della zia Carolina, lo sguardo benevolo del nonno che mi poneva la mano sulla testa per assicurarsi che i capelli crescevano. E li rivedo tutti e tre in certe loro particolari attitudini. Il nonno, quando al calar del giorno tornava dalla campagna e noi se ne stava ad ascoltare il rumore del calessino per essere pronti a spalancare il portone, vedere la sterzata sapiente del vecchio Nicola e l'entrata trionfale del nonno fiancheggiato da due enormi canestri di frutta. Egli balzava, lindo e lesto, piccolo vecchietto dai capelli bianchi, vestito di una giubba scura a bottoni dorati, con un cravattone al collo che partendo dal mento gli girava sulla nuca e tornava sotto il mento ad allacciarsi in un nodino minuscolo: in qualunque giorno e in qualunque ora non l'ho mai visto con altro abito. La nonna invece, che non usciva mai di casa, aveva un giorno fisso per mettersi in gala; era il giorno del mercato. La si vedeva allora vestita di seta verde, splendente ne' suoi ori e nella matronale persona, avviarsi in piazza seguita da un domestico carico di sporte e, quando ritornava in possesso di ogni ben di Dio, la si sarebbe detta la figura simbolica dell'abbondanza.
La zia Carolina (oggi si direbbe Carla e pochi anni addietro Carlotta, ma allora si diceva Carolina: nell'intimo nostro poi io l'avevo battezzata Tuina) la mia zia Carolina, dunque, io la vedo sopratutto nella sua cuffietta da notte semplice semplice, una bianca striscia di percallo, ma che stava tanto bene intorno alla sua faccia rosea; la vedo china sul mio letto ad aspettare il mio risveglio; la vedo, meglio ancora, quando seduta dinanzi alla pettiniera si toglieva la cuffietta e l'onda magnifica della sua chioma corvina scendeva fino a terra. Era l'ultima dei sei figli della mia nonna e la meno avvenente delle tre sorelle; la palma della bellezza spettava a mia madre, ma una serenità dolce ed eguale era, insieme ai capelli, la bellezza sua e sempre, ripensando a lei, mi appare come l'angelo tutelare della mia infanzia.
Anche la nonna mi voleva molto bene, mi viziava un po'. È vero che un nonnulla bastava a farmi contenta: un pizzico di semi di popone, (i poponi specialità di Caravaggio trionfavano alla mensa dei miei nonni dove se ne tagliavano fin tre o quattro prima di trovarne uno degno di essere gustato) un nastrino dai bei colori, qualche cencetto per vestire la bambola; ma il maggior piacere era quello di ammettermi nelle sue stanze private. Non ricordo di aver visto in altre famiglie tante guardarobe quante ne aveva la mia nonna. Quelle casette di legno tutte chiuse eccitavano la mia curiosità; ce n'era un po' dappertutto; mi tentavano tuttavia maggiormente quelle che si trovavano sotto la sua diretta sorveglianza, riunite in uno stanzone accanto alla sua camera da letto. Trotterellando dietro le sue sottane m'era dato di vedere talvolta, allo schiudersi di una magica porticina, montagne di lenzuola frammezzate da sacchetti di spigo, che odoravano tanto buono, coltroncini di seta damascata nelle tinte più vaghe, che mi facevano pensare ai divani delle sultane nella reggia di Haaron al Rachid ed alle vesti della bella Shecherazade che lucevano come il sole e come la luna....
Davvero, col mio pizzico di semi di popone in mano, evocavo i tesori delle Mille ed una notti che la zia Carolina mi aveva dato da leggere, e dove capivo, ed anche dove non capivo, mi piacevano immensamente. Altri due stanzini, dei quali la nonna teneva sempre le chiavi, servivano il suo istinto raccoglitore e conservatore e il medesimo istinto in me trasfuso per consanguineità vi trovò il suo primo sviluppo. Ogni forma antica mi attirava irresistibilmente; io amavo i cassettoni panciuti, gli scrigni dagli innumerevoli tiretti, le sedie fuori di moda. Perchè le amassi non appare ben chiaro in una bambina che ne ignorava affatto il pregio, ma io lo so bene il perchè, esso è tutto sentimentale. Sono ancora ignorante; non saprei distinguere un mobile del seicento da uno del settecento, un Brustolon da un Fantoni, un lavoro d'autore da un nulla di nulla; ma io amo tutte queste cose che hanno vissuto, dove palpita tanta parte di umanità, sola sopravvivenza di tanta gente morta. L'uomo colle sue passioni e colle sue illusioni, colle sue ebbrezze e co' suoi dolori è scomparso, la cosa è qui; essa racchiude parte della sua anima, del suo pensiero, della sua volontà; lo strumento ha cessato di lavorare, ma l'opera è salda nel tempo; l'amore che noi le portiamo è la segreta rispondenza all'amore che l'ha creata. È certo che il piccolo bacherozzolo trotterellante dietro alla nonna non faceva queste riflessioni, ma la mente del fanciullo è pari al vetro di una negativa, dove il viaggiatore raccoglie le fuggevoli impressioni che incontra sulla sua strada e che sviluppa più tardi cogli acidi dell'esperienza.
Negli stanzini della nonna attirava particolarmente la mia attenzione uno di quei cofani ricoperti di velluto con leggiadre applicazioni di ferro battuto, nei quali le spose di una volta tenevano il loro corredo. Dolorose circostanze mi privarono per lunghi anni della sua vista; mi riapparve dopo la morte della nonna nell'ora triste e volgare della divisione delle spoglie, e siccome nessuno lo voleva, così tarlato e spelacchiato neppure come cassa da imballaggio, me lo portai via come una santa reliquia. I segreti delle mie proave vi stanno al sicuro sotto la custodia rispettosa del mio affetto.
Da quanti anni è incominciata la voga degli oggetti antichi, da quando abili speculatori percorrendo le nostre provincie, le vallate profonde dove erasi rifugiata la religione delle memorie se ne vennero alla città col loro prezioso bottino? La data la troveranno i freddi compositori di cataloghi. Io penso che tolte dal luogo dove vissero le cose hanno perduto il loro profumo; conservano ancora le belle forme di ciò che fu la loro vita, ma la voce è spenta; appoggiate ai muri della casa straniera, sono lapidi in un cimitero. Oh! come vorrei trovare una parola energica, che fosse l'opposto di snobismo, per esprimere il mio vero sentimento, ma non la trovo. Di fronte a questa giostra di snobs, rincorrentesi su cavallucci di legno per darsi l'aria di cavalieri in sella guardo, con un misto di sdegno per loro e di un certo orgoglio per me, il cofano della mia nonna che ho amato quando tutti lo disprezzavano.
La casa dei miei nonni, ampia e comoda, colle sue sei finestre verso strada e il solito cortile caratteristico del tempo, fra il pozzo e la pianta di fico, aveva pure sul tetto quei draghi di ferro che prima dell'incanalamento delle pioggie le scaricavano sulla via e un grande piacere mio era di stare a vedere le colonne d'acqua