Il Professore Romualdo. Enrico Castelnuovo

Il Professore Romualdo - Enrico Castelnuovo


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scrosci di risa sgangherate tenevano dietro alla insulsa facezia.

      La signora Dorotea, come si vede, era conosciuta dalla scolaresca. Chi si recava dal professor Grolli la trovava spesso in salotto seduta davanti al tavolino con la calza in mano e gli occhiali sul naso, e doveva assoggettarsi da parte di lei ad un succoso interrogatorio, modellato sempre sul medesimo stampo.

      — Di chi domanda?

      — Del professor Grolli.

       — È uno studente?

      — Sissignore.

      — Vada pure avanti.

      Non passava poi giorno che la signora Salsiccini non comparisse a due o tre riprese nelle strade della città; la mattina per la spesa, il dopopranzo per le visite, senza contar le volte ch'ella andava a desinare da qualche famiglia amica. A malgrado de' suoi cinquantacinque anni, ella camminava svelta e spedita, dimenando alquanto i fianchi e rassettandosi di tratto in tratto la mantellina che le scivolava giù ora da una spalla, ora dall'altra. Portava per solito un vestito bigio di lana e un cappello di paglia scura con tese sporgenti, con due barbine di fioretti artificiali, e con un velo celeste sul davanti, sotto al quale la buona vedova passava frequentemente il fazzoletto per soffiarsi il naso con gran romore.

      — Ecco la trombetta dei bersaglieri — esclamò una mattina uno studente di prim'anno, sentendo quel suono e vedendo quel passo marziale.

      — Questi studenti — disse la signora Dorotea — si prendono libertà anche con le femmine più contegnose.

      Del resto, la signora Salsiccini, quantunque fosse un po' pettegola, quantunque avesse la passione del lotto, era una eccellente pasta di donna. Pel professore aveva cure materne, ed ella lo avrebbe giudicato un uomo perfetto se fosse stato più espansivo con lei e le avesse concesso di metter lingua nelle sue faccende. Nondimeno ella lo aveva sempre difeso e aveva sempre levato a cielo l'illibatezza de' suoi costumi. Guai a lui s'egli le faceva far cattiva figura, guai a lui se tanto apparato di virtù veniva a risolversi in una figliuola clandestina!

       Indice

      Era già tramontato il sole quando il treno che conduceva il dottor Romualdo giunse alla stazione di Genova. Il nostro amico, la cui inquietudine era andata crescendo di mano in mano ch'egli si avvicinava al termine del suo viaggio, salì nel primo omnibus che gli si parò dinnanzi, e si lasciò condurre ad un albergo di aspetto signorile, ove ebbe la soddisfazione di esser preso pel servitore di una famiglia inglese arrivata insieme con lui. Tolto l'equivoco, egli venne affidato alle cure di un cameriere d'infima categoria, il quale, dopo avere acceso una candela, lo accompagnò in una stanzuccia del quinto piano. Lo scarso bagaglio e il vestito dimesso del viaggiatore non meritavano maggiori riguardi. Era già molto ch'egli pagasse il conto. Il cameriere, tanto per iscarico di coscienza, gli chiese s'egli avesse bisogno di nulla, e senz'aspettar risposta, lasciò la stanza tirando sgarbatamente l'uscio dietro a sè. Ma il professore non se n'accorse nemmeno, assorto com'era in un solo pensiero: cercar subito del capitano Rodomiti.

      Onde, risciacquatosi alquanto per liberarsi dal caldo e dalla polvere, scese le scale, e domandò subito la via per giungere in piazza Banchi. Non gli fu difficile arrivarci, ma dovette convincersi che per quella sera bisognava rinunciare all'abboccamento col capitano. Perchè l'ufficio dei signori Radice e Lupini, shipbrokers, era chiuso, e non si sarebbe riaperto fino alla mattina successiva. Il professore girò un poco a caso; poi, facendo di necessità virtù, ritornò all'albergo, ove si risovvenne che non aveva ancora desinato e mangiò un boccone in fretta e senza appetito. Quando si ridusse nella sua cameruccia al quinto piano, erano circa le dieci. Il dottor Romualdo spalancò la finestra e s'accorse che la sua soffitta aveva il pregio inestimabile di dominare il magnifico porto di Genova. Qua e là lungo la costa brillavano, mutando di tratto in tratto colore, i fanali dei fari lontani; più presso, la colossale lanterna disegnava sull'orizzonte la sua mole maestosa, come un bruno fantasma cinto il capo di luce spettrale; dalle oscure masse dei bruni navigli si levava al cielo una selva d'alberi; il silenzio dell'ora era rotto dal gemito del vento che investiva le sartie e dal suono dell'onda che veniva a frangersi sulle carene. Dai mari del tropico e dai mari del polo, ora cullati sulle acque tranquille, ora sbattuti dal flutto minaccioso, ora protetti dal più bel padiglione d'azzurro, ora avviluppati fra nuvole dense di pioggia e gravi di fulmini, attraverso bonacce, attraverso tempeste, lottando, soffrendo, quei mille e mille navigli erano convenuti allo stesso punto, e ora riposavano uno a fianco dell'altro dalle lunghe fatiche, salvo a dividersi presto per non incontrarsi forse mai più. Ma fra tanti legni quale era la Lisa? Gli occhi del professore cercavano invano d'indovinarlo, mentre il cuore con battito affrettato gli diceva che l'arrivo di quel bastimento, di cui ventiquattro ore prima egli ignorava perfino il nome, non doveva rimanere senza influenza sui suoi destini.

      Il nostro Romualdo dormì poche ore di un sonno interrotto. Al primo albeggiare calò impaziente dal letto, e si appoggiò di nuovo al davanzale della finestra. Una nebbietta sottile si stendeva sul mare e cingeva d'un tenue velo i legni ancorati nel porto; sotto, nella via buia, principiavano a muoversi delle ombre, a levarsi dei suoni; la città più operosa d'Italia si svegliava rapidamente. A poco a poco cresceva il moto e lo strepito; il fischio acuto della locomotiva fendeva l'aria; sui ciottoli della via si sentiva il rumore sussultorio dei carri pesanti e lo scalpitar delle zampe ferrate dei cavalli e dei muli; i ragli e i nitriti si mescevano al vociar dei facchini. Indi il sole, alzandosi sull'orizzonte, pennelleggiava d'una bella tinta di arancio le nuvolette sparse pel cielo; s'indoravano al caldo raggio le punte delle antenne dei bastimenti, spiccavano i colori delle allegre bandiere sventolanti da poppa, l'onda palpitante di voluttà si colorava di sprazzi argentini; sgombre dal grigio vapore che le avvolgeva si disegnavano con netti contorni le cupole delle chiese e le guglie dei campanili, e le case, e le villette disseminate sui colli, finchè i fasci luminosi invadevano anche le strade più anguste portando dappertutto il movimento e la vita baldanzosa della giornata che comincia.

      Prima delle sette, il professore era già fuori dell'albergo e passeggiava su e giù per la piazza Banchi aspettando che l'ufficio dei signori Radice e Lupini si aprisse. Lo aspettava con impazienza, e nondimeno, quando vide le imposte spalancate, e un signore dalla faccia rubiconda (certo il signor Radice o il signor Lupini) dondolantesi sulle punte dei piedi nel vano della porta, coi due pollici nelle tasche del panciotto, col sigaro in bocca e col cappello in testa, dovette fare altri tre o quattro giri prima di trovare il coraggio necessario per presentarsi. Intanto alcuni individui, che al vestito parevano gente di mare, vennero a scambiar poche parole col mediatore. Poi si lasciarono con una stretta di mano, e il signor Radice, o Lupini che fosse, gettò via il sigaro, aperse la bocca a un lungo sbadiglio, stirò le braccia ed entrò nel suo banco. Il dottore Romualdo, pensando che fra coloro i quali si allontanavano poteva esservi anche il capitano Rodomiti e che con la sua esitanza egli aveva forse perduto l'opportunità di veder subito il misterioso personaggio, ruppe finalmente gli indugi, e affacciatosi all'uscio con la mano al berretto: — Di grazia — chiese — c'è qui il capitano Antonio Rodomiti?

      Il signor Radice (o Lupini), vista l'esotica figura del professore, ne fu esilarato, e, da quell'uomo faceto ch'egli era, prima di rispondere, guardò sotto alle sedie, sotto ai banchi e perfino dietro le imposte di un piccolo armadio infisso nella parete; poi disse con una risatina; — Non lo vedo.

      Sconcertato un po' da questo strano accoglimento, il Grolli ripensò con desiderio alla sua cattedra, al suo laboratorio chimico e alla graziosa formola x sen ysen α; tuttavia rinnovò la domanda con altre parole: — Ma non viene qui il capitano Rodomiti?

      — Sicuro che viene, ma adesso non c'è.

      — E... scusi... a che ora posso...?

      Il professor Grolli non aveva finito la frase quando il signor Radice (o Lupini) scoppiò in una risata sonora. Gli è che l'ottimo sensale di noleggi coglieva finalmente il frutto della sua facezia di pochi minuti prima. Poichè sulla soglia dell'ufficio, dietro la personcina esile e smilza del professore, era comparso un colosso alto quasi due metri e grosso in proporzione, e questo colosso era precisamente il capitano


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