Il Principe della Marsiliana. Emma Perodi
nella quale il trono, formato di arazzi portanti lo stemma della famiglia nel centro e le imprese del celebre cardinal Urbani, sulla parte laterale, occupava tutta una parete, si fermò e disse al servitore di guardia di annunziarlo, e senza aver la pazienza di attendere la risposta, si mise alle calcagna di lui per l'ampia galleria, nella quale tutto un passato di deità olimpiche e d'imperatori romani parevano schierati per far gli onori a chi passava.
Fabio non volse neppure uno sguardo su quei marmi preziosi; il suo occhio grande e dolce pareva che non provasse il bisogno di guardare nulla di ciò che lo circondava, che non ubbidisse a nessuna curiosità. Eppure era la prima volta che entrava in casa Urbani, o almeno in quella parte del palazzo riservata alla famiglia, poichè il principe aveva al pianterreno due stanze che guardavano sul Corso e nelle quali riceveva la mattina tutte le persone che non erano presentate alla principessa. Fabio Rosati, segretario di una quantità di comitati, nei quali figurava il nome del principe della Marsiliana, e anche del Circolo dei Cittadini di cui don Pio era presidente, aveva frequentissime occasioni di avvicinarlo. Svelto, intelligente, benchè privo affatto di cultura, rispettoso senza cortigianeria, e sopratutto buono e abile, Fabio era riuscito a conquistare l'animo di molti patrizii romani, e specialmente di don Pio, il quale ora aveva rimesso nelle mani di lui l'esito della sua elezione a deputato.
Il servo si fermò in fondo alla galleria, dinanzi a una porta grigia tutta coperta di dorature, e bussò leggermente. Il cameriere di fiducia del principe, un francese sbarbato, con gli occhiali che davano alla sua fisonomia l'aspetto di prete, comparve sull'uscio, e vedendo Fabio, che conosceva, lo pregò di entrare in un salottino precedente la camera del principe.
Don Pio, appena udita la voce di Fabio, gli andò incontro e gli strinse cordialmente la mano.
—Grazie di essermi venuto a prendere,—disse al Rosati.—Mi annoiava di giunger solo in mezzo a tutta quella gente.
—Non vengo per questo,—rispose Fabio guardando in terra e non sapendo come riferire al principe le parole del sor Domenico. Dacchè era entrato nel palazzo sentiva maggiormente tutta la stranezza della proposta che doveva fare, e non aveva il coraggio di esprimerla.
—Occorrono altre somme per le spese elettorali?—domandò il principe.—Me lo dica francamente; so quanto bevono gli elettori romani, e nulla mi stupisce.
—No, no; ho ancora qualche migliaio di lire,—disse il Rosati sorridendo.—Si tratta di una cosa molto più difficile a dirsi.
—Me la dica subito,—insistè il principe senza turbarsi;—sono preparato a tutto.
—Senta, il sor Domenico, l'oste di Muzio Scevola, dice che se stasera non viene la principessa insieme con lei, i voti del Trastevere le saranno per la massima parte negati.
Il principe sorrise mettendosi il monocolo all'occhio sinistro, e guardò fisso il Rosati dicendo:
—È una condizione curiosa e non so se donna Camilla l'accetterà; tenterò. Ma l'ora è passata già,—aggiunse il principe guardando una piccola pendola di smalto posata sopra la scrivania;—lei vada a far pazientare chi mi aspetta, io cercherò d'indurre la principessa a venir meco.—E accompagnando il Rosati nella galleria, don Pio penetrò nel salottino di sua moglie, e appena passata la soglia di quella stanza sparì dal volto di lui tutta l'espressione di dolce bonarietà, che aveva durante la conversazione col Rosati.
La principessa nel vedere il marito si alzò e fece cenno a due monache di Santa Rufina, che erano sedute in faccia a lei, di lasciarla.
—Che cosa vuoi?—domandò la piccola signora al marito con voce leggermente nasale, andando verso lui dopo aver accompagnato all'uscio le suore.
—Sai che io voglio in ogni modo esser deputato e che sarebbe un'onta per me se col mio nome, col mio passato, con le mie aderenze e i miei mezzi non riuscissi a essere eletto!
—Non le capisco certe vanità,—diss'ella alzando gli occhi al cielo.—Quando uno si chiama Urbani non ha bisogno di tenere a un titolo che il popolo può conferirgli, e può anche ritorgli.
—I tempi sono cambiati, bisogna camminare con essi se non si vuol restare schiacciati e soffocati appunto da questo pondo grandissimo che il passato ci ha posto sulle spalle; bisogna far qualcosa noi pure per esser degni degli avi.
Il principe pronunziava queste parole con voce monotona, senza nessun sentimento, come una lezioncina imparata a mente. E infatti da quindici giorni la ripeteva di continuo a sè stesso per dirla in ogni occasione.
La principessa lo ascoltava a testa bassa, come se riprovasse quelle massime.
—Dunque che cosa vuoi?—gli domandò parlando sempre con voce nasale e a denti stretti, come chi ha la consuetudine di servirsi della lingua inglese.
—Voglio che tu mi accompagni stasera all'adunanza elettorale.—Quel nome di osteria faceva ribrezzo anche a don Pio e non poteva pronunziarlo.
—E dove?—domandò la principessa, alzando in volto al marito due occhi piccoli e fieri.
—Da Muzio Scevola.
—E che luogo è?
—Una locanda, dove mi danno una cena elettorale.
—Non ci vengo.
—Ma, Camilla, pensa a quello che fai; mi tacciano di clericale per colpa tua; per colpa tua non sarò eletto; io voglio riuscire deputato, e tu, tu devi venire.
—Non vengo,—rispose la piccola signora sedendosi.—Tu sei padrone di derogare al tuo nome, alla tua nascita, ma non puoi imporre a me di avvilirmi. Io, oltre a esser custode del nome tuo, sono anche custode di quello di mio padre; sono una Grimaldi, lo sai.
E fieramente alzò la piccola testa dal volto pallido, sul quale non si leggeva altro che una grande espressione di fierezza.
—Camilla, tu sei la mia rovina,—disse il principe, uscendo senza stenderle la mano.
Nella galleria lo attendeva il suo cameriere per infilargli il soprabito e presentargli i guanti, il bastone e il cappello.
Don Pio, calmo in apparenza, dette alcuni ordini, scese le scale inchinato dai servitori, e dopo essersi seduto nel phaéton prese in mano le redini dei cavalli e uscì dal palazzo.
Era quasi notte quando il phaéton si fermò sulla piazzetta dinanzi all'osteria, già illuminata dai lampioncini colorati, e il principe, sceso prontamente, si trovò a fianco Fabio Rosati e il sor Domenico, il quale si tolse il cappello a cencio e gli disse a bruciapelo:
—Non mi ha voluto dar retta e le cose si imbrogliano. Faremo un buco nell'acqua se non viene la principessa.
Don Pio infilò il braccio familiarmente in quello del sor Domenico e tirandolo in disparte gli disse:
—Che volete, la principessa non c'entra per nulla nella mia elezione; le signore hanno idee che noi dobbiamo rispettare, ma che non dividiamo.
—Lo capisco,—diceva il sor Domenico spartendosi con le dita la lunga barba, come soleva fare quand'era soprappensieri,—lo capisco, ma lei sa, Eccellenza, che abbiamo da far con certa gente cocciuta e siamo in certi tempi...! Basta, vedremo; bisognerebbe che per amicarsi i trasteverini lei avesse qualche buona promessa in riserva e la manifestasse stasera.
—Vedremo,—disse il principe ritornando verso Fabio Rosati, che era circondato da un gruppo di persone ben vestite e parlava a bassa voce con loro.
Appena a quel gruppo si avvicinò don Pio tutti si tolsero il cappello e si fecero addietro alcuni passi. Il principe stese la mano all'ingegnere Marini e al professore Arnaldi. Fabio Rosati gli presentò subito quelli che non conosceva.
—Il signor Massa, giornalista,—disse accennando un giovinotto pallido, con le scarpine lucide e l'aria spavalda,—il signor Caruso, giornalista pure—aggiunse accennando un omaccione grasso, dallo spiccato tipo meridionale con le lenti sul naso e una barbetta rada sulle guance butterate dal vaiuolo.
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