Il Principe della Marsiliana. Emma Perodi

Il Principe della Marsiliana - Emma Perodi


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madre, mercè l'aiuto di un buon amministratore, che si diceva fosse vice-principe di nome e di fatto, aveva estinto gran parte delle ipoteche e preparato al figlio, che faceva educare nel collegio dei gesuiti a Mondragone, un avvenire ricco e senza fastidi. Don Pio, appena uscito di collegio, aveva corso la cavallina, e col pretesto di viaggiare, per dar l'ultima mano alla sua educazione, aveva girato il mondo in compagnia di una donna più anziana di lui, celebre a Nizza e a Parigi per la sua eleganza e per la disinvoltura con cui rovinava la gente. Da quei viaggi don Pio era tornato sfiaccolato, senza aver imparato null'altro che a vestirsi e a spendere. Cresciuto senza nessun ideale, senza nessun attaccamento nè all'antica causa dei papi, nè alla nuova causa dell'Italia, tornava a Roma dal suo viaggio quando la più grande rivoluzione del nostro secolo si era già compiuta. Quel grande fatto, che aveva afflitto così profondamente tutti i partigiani del papato e che aveva fatto esultare tutti gli italiani, lo aveva lasciato indifferente. Sua madre, rimasta fedele alle antiche idee, sua madre lo aveva inutilmente spinto a schierarsi fra i sostenitori del Vaticano, fra quelli cui lo legavano vincoli di parentela e di consuetudini di famiglia; egli sorrideva, si metteva il monocolo all'occhio sinistro e non rispondeva. Del resto la duchessa Teresa Urbani si limitava a esortare il figlio, e si sarebbe guardata bene dall'imporgli la sua volontà. Giunta a quarant'anni senza avere eredi, ella provava per questo figlio, tanto invocato e tanto vivamente bramato, una di quelle passioni cieche che le donne sentono per quelle creature che le hanno salvate dal marchio della sterilità, passione più forte di ogni altra della loro esistenza. Agli occhi di donna Teresa nessuno era più bello, più intelligente e più spiritoso del suo Pio, benchè egli non avesse nè una bella figura signorile, nè una bella intelligenza, e di spirito ne possedesse quel tanto necessario a fare buona figura in un salotto. La vera qualità del principe della Marsiliana era piuttosto la scaltrezza, che egli sapeva nascondere sotto un aspetto di grande bonarietà. Egli aveva inoltre una specie di fiuto che lo poneva sulla traccia delle persone da sfruttare, e che ora gli faceva indovinare nel Caruso l'uomo opportuno, l'uomo che avrebbe potuto cavarlo d'impaccio.

      Si discuteva a Roma da molto tempo il nuovo piano regolatore della città, e durante queste discussioni la capitale si trasformava a vista d'occhio, ponendo, come tanti ostacoli al nuovo piano, i lavori che già erano compiuti.

      La questione di trasportare altrove la stazione ferroviaria era all'ordine del giorno. Nelle adunanze della Società degli architetti si era messa avanti l'idea di trasportarla ai Prati di Castello, fuori della porta San Giovanni, lasciando quella vecchia riserbata soltanto per la piccola velocità.

      Già si erano fatti studî e disegni, si erano pubblicati opuscoli per sostenere l'una o l'altra idea, ma il pensiero di fare la stazione nel Trastevere non era balenato a nessuno, e quel pensiero, di cui il principe riconosceva l'opportunità, per assicurare la sua elezione, ora lo tormentava non sapendo egli come esprimerlo, e, mentre con la punta del coltello egli cercava di scalcare una quaglia, pensava, pensava che avrebbe dovuto fra poco parlare, e quel pensiero gli faceva aggrottare le ciglia.

      La banda sul palcoscenico continuava a suonare, tutti parlavano a un tempo, quando il sor Domenico si alzò e fece cenno ai sonatori e ai convitati di tacere. La sora Lalla andò sulla terrazza a dare un ordine eguale, e a un tratto per tutta l'osteria, un momento prima così piena di rumore, regnò un silenzio solenne; nessuno osava neppur portarsi la forchetta alla bocca per non far rumore. Il sor Domenico si alzò e con quella voce dolce e vellutata, che scendeva al cuore, e nella quale era riposto in parte il segreto della sua popolarità, disse, imitando Garibaldi che era il suo idolo:

      "Ragazzi! Voi sapete se io sono sempre con voi. Da anni e anni non mi considero più un uomo isolato; mi pare di essere il vostro padre, il capo di tutte le famiglie del Trastevere, perchè quando qualcuno soffre io soffro insieme con lui, come quando qualcuno gode io mi associo alla sua gioia. Sapete pure che il mio amore non è limitato a questo generoso rione dove si mantenne sempre viva l'ammirazione per le virtù passate di questa Roma, il cui nome solamente è simbolo di grandezza o di gloria, ma si estende invece a tutta la città e all'Italia, che ha dovuto cinger qui la sua corona regale! Voi sapete pure che io non ho mai parlato a voi altro che il linguaggio della verità, che non vi ho mai dato un consiglio che non fosse onesto e ispirato da quell'amore di patria che ci anima tutti. Ora che siamo alla vigilia delle elezioni, io prendo la parola e dico, con quella sincerità che tutti conoscete, di porre il nome del principe della Marsiliana accanto a quello degli uomini liberali cui deste il suffragio nelle passate legislature. Questo nome non è portato da nessuna combriccola, non rappresenta interessi parziali, e sopratutto non è legato a nessun passato. Per noi ci vuole un uomo nuovo, che capisca i nuovi tempi, un uomo al disopra di qualsiasi sospetto; e tale è il principe della Marsiliana; io, ragazzi, lo raccomando al vostro suffragio, io credo che nessuno possa meglio rappresentare questo collegio di Roma che lui!"

      Grida diverse partirono dalla folla, che ingombrava prima la terrazza e che ora si era spinta fino nella sala e occupava tutto lo spazio dinanzi all'affresco di Muzio Scevola; alcune di approvazione e altre di disapprovazione. Scortichino, il Simonetti e il sor Domenico sopratutto accennarono a quegli strilloni di far silenzio e il capobanda fece intonare l'inno di Garibaldi per porre fine al tumulto, che minacciava farsi serio. Appena ristabilita la calma, don Pio posò il tovagliolo ed alzatosi, senza guardar nessuno in faccia e a voce bassa, incominciò a parlare, dicendo:

      "Porto un gran nome, è vero, ma le mie simpatie sono per il popolo, poichè io stimo e rispetto chi lavora, e ho viva ammirazione per quelli che sostengono, giorno per giorno, ora per ora, la lotta per l'esistenza. Se voi, che siete qui adunati, volete concentrare sul mio nome i vostri voti, assicuratevi che avrò a cuore i vostri interessi più dei miei. Nulla mi lega al passato: nè simpatia, nè vincoli di famiglia; tutto invece mi spinge verso l'avvenire, che è rappresentato, specialmente qui a Roma, dalla forte, onesta e patriottica popolazione del Trastevere. L'avvantaggiare gl'interessi materiali e morali di questo rione, sarà per me una nobile ambizione. Io credo che uno dei mezzi per concentrare qui una parte della vita rigogliosa della Roma nuova, della Roma degli italiani, sia quello di far costruire in questo luogo la nuova stazione ferroviaria. Per l'attuazione di questo disegno io spenderò tutte le forze mie e se vi riuscirò sarò più altero di aver legato a quest'opera il mio nome, di quello che non sia della gloria passata dei miei antenati."

      Grida di viva approvazione partirono dalla folla; il sor Domenico aveva le lagrime agli occhi e cercava la mano del principe per istringerla. Fabio Rosati gli s'era accostato e pareva che chiedesse i suoi ordini, quando Caruso lentamente si alzò e volgendo intorno uno sguardo dubbioso di sopra alle lenti, chinò la testa in atto di saluto incontrando gli occhi di don Pio, e quando la folla, per ordine dei soliti capi, fu ricondotta al silenzio, egli prese a dire:

      "Il principe della Marsiliana ha con brevi parole svolto tutto un programma di cui l'idea fondamentale consiste nel trasportare nel Trastevere un centro di attività e di lavoro.

      "Questa idea non è una idea nuova, sorta nel momento delle elezioni, suggerita dal bisogno di procacciarsi dei voti, no, quest'idea è stata lungamente studiata ed elaborata dal nostro candidato."

      Il principe meravigliato da quelle parole, e credendo di sognare, non osava alzar gli occhi per non incontrare quelli dell'oratore nè quelli del Rosati, il quale con la testa dava lievi segni di approvazione e ammirava la furberia e la sfacciataggine di Caruso.

      "Io, che seguii quel lavorìo paziente ed accurato, degno di una mente vasta e educata a tutte le più nobili discipline dell'economia moderna, io che ebbi l'onore di essere il confidente del principe durante lo svolgimento della nobile idea, io posso esporvi il vasto piano concepito da don Pio Urbani. Egli vorrebbe vedere Roma circondata da una cintura di ferrovia che avesse la stazione principale qui nel Trastevere, quella di smistamento a San Giovanni e quella di piccola velocità ai Prati di Castello. Inutile dirvi che l'attuazione di questo disegno farebbe salire enormemente il prezzo dei terreni nelle tre località indicate e darebbe un grande sviluppo alle costruzioni, portando qui, dove specialmente siamo, molta gente, molte forze e molto denaro."

      Don Pio, benchè assuefatto a non meravigliarsi di nulla, era assolutamente annichilito da tanta sfacciataggine, e continuava a tenere gli occhi nel piatto. Da principio, udendo Caruso, aveva provato la voglia di fare una risatina sarcastica, ora s'era fatto serio perchè capiva che quell'uomo


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