Il Principe della Marsiliana. Emma Perodi

Il Principe della Marsiliana - Emma Perodi


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e stese loro la mano.

      In quel momento la sora Lalla, grassa, rossa, tutta catene e pendenti d'oro, comparve in cima alla scaletta dell'osteria, e, con le mani sui fianchi esuberanti, si mise a gridare:

      —Ma insomma, volete proprio che tutto vada ai cani! Venite o non venite?

      Il sor Domenico, che aveva per la sua vecchia compagna un affetto grandissimo, un affetto in cui entravano i ricordi giovanili, la gratitudine per il coraggio mostrato da lei quando egli era in carcere a San Michele, da dove lo aveva fatto scappare, e la stima per la sua proverbiale onestà, sorrise e disse volgendosi al principe:

      —Credo che Lalla abbia ragione; è tempo di andare a cena se si vuol mangiare.

      Il principe, col fare disinvolto del gran signore che sa subito adattarsi al luogo dov'è e alle persone che lo circondano, salì in fretta la scala; il Rosati lo seguiva da vicino e il Massa saliva a due a due gli scalini per non rimanere a distanza. Giù sulla piazzetta il sor Domenico invitava tutti a salire e a un tratto la scala fu guernita di persone di ogni ceto che parevano impazienti di mettersi a tavola, e sulla piazza non rimasero altro che alcune donne, due coppie di guardie di pubblica sicurezza addossate al muro e due carabinieri, che camminavano pesantemente in su e in giù senza scambiar parola fra di loro.

      Appena il principe della Marsiliana comparve nella sala bassa dell'osteria ornata sulla parete principale di un affresco raffigurante Muzio Scevola con la mano sull'ara, e su quella di fondo, di un teatrino, la sora Lalla alzò la mano, il capo della banda collocata sul palcoscenico dei burattini brandì il bastone del comando, e le trombe intonarono la rumorosa marcia dell'Aida.

      Don Pio guardò il Rosati e atteggiò le labbra a un lieve sorriso di scherno vedendo quel tugurio basso, tutto pieno di tavole, i quartaroli del vino posati sulle panche e vedendo sopratutto quei pezzi d'uomini di bandisti aggruppati sopra il palcoscenico, con le quinte più basse di loro e le teste che rimanevano celate dal palco; ma fu un sorriso impercettibile, e messosi l'occhialino all'occhio sinistro si accostò alla sora Lalla e le stese la mano.

      —S'è affaticata tanto per me,—le disse sorridendo.

      —Ci siamo avvezzi al lavoro, Eccellenza,—disse la sora Lalla togliendosi la mano destra di sul fianco per darla al principe.

      Al sor Domenico, che giungeva in quel momento, spuntarono le lagrime agli occhi vedendo la mano della moglie in quella del principe della Marsiliana, e volgendosi addietro gridò, come per dare l'intonazione alla folla che lo seguiva:

      —Evviva il nostro candidato!

      —Evviva!—rispose la folla. E il capo banda a un tratto troncò la marcia dell'Aida per incominciare l'inno di Garibaldi.

      Una grande confusione regnava nella sala, aumentata dalla musica e dalla troppa gente che, volendo passare per recarsi nella terrazza coperta dalla pergola, lavorava di gomiti e spingeva quelli che le facevano resistenza verso la tavola principale, che era quella d'onore. Il sor Domenico, accorgendosi che il principe della Marsiliana era pigiato verso le sedie o doveva presentare le spalle per resistere all'urto, alzò la testa, la quale dominava la folla, e gridò:

      —Ragazzi, fate largo!

      Tanto quelli che erano assuefatti ad ascoltarlo, quanto gli altri che, forse per la prima volta, il caso poneva accanto a lui, ubbidirono a quella voce dolce, che aveva nel comando una intonazione di convincente preghiera, e intorno al principe si formò un vuoto.

      Don Pio, volgendosi all'oste, gli disse sorridendo:

      —Se così vi ascoltano, la mia elezione è assicurata.

      —Non credo,—rispose l'oste con la sua solita franchezza.—Vostra Eccellenza ha molti avversari fra i popolani. Se la principessa fosse venuta qui, domani a otto, tutti votavano per lei, ma così, ci vuole un colpo, un colpo da maestro, se ne rammenti.

      Il principe, guardando la folla, si arricciava il baffo sinistro senza rispondere, e intanto si avviava al posto d'onore indicatogli dall'oste e già stava per sedersi, quando Caruso gli si accostò e chinandosi all'orecchio di don Pio, gli disse a bassa voce:

      —Prometta di adoprarsi per fare approvare la stazione in Trastevere e tutti i voti sono suoi.

      Don Pio, che da un quarto d'ora cercava inutilmente la promessa che doveva assicurargli i voti dei popolani di quel rione, udendo quel suggerimento si voltò di scatto a veder chi glielo dava, e non seppe nascondere quanto facevagli piacere.

      —Grazie,—disse a Caruso, stringendogli con effusione la mano.

      —Niente,—rispose l'altro abbassando la testa.

      Accanto al principe si era seduto a destra il sor Domenico e a sinistra il posto restava vuoto; don Pio avrebbe voluto che quella seggiola fosse occupata dal Caruso per parlare con lui, ma non ebbe il coraggio di chiamarlo. Lo conosceva appena, già era debitore a quell'uomo di una idea che non gli sarebbe mai nata e non voleva che vincoli maggiori di gratitudine si stabilissero fra lui e quello sconosciuto. In quel momento penetrava a stento fra la folla l'onorevole Serminelli, deputato di un collegio d'Abruzzo, e don Pio Urbani fecegli cenno di andare accanto a lui.

      Erano già state servite le fettuccine nei vassoi ricolmi, e tutti si erano empiti il piatto tirandone giù un mucchio e lasciandone cadere sulle tovaglie, che erano in più punti imbrattate di sugo. Soltanto nella vicinanza del principe la gente mangiava poco e la tovaglia era ancora bianca. Il sor Domenico stesso, messo in soggezione, non aveva il suo bell'appetito di tutti i giorni, e la sora Lalla, che non perdeva d'occhio nessuno e dirigeva il servizio, si accostava ogni tanto al principe, al marito o a Fabio Rosati, col quale aveva maggior confidenza, e invitava or l'uno or l'altro a mangiare e sopratutto a bere.

      Di questo invito non avevano bisogno alle due tavole laterali, poste lungo le pareti. Una di quelle era presieduta da Scortichino, l'oste di San Francesco a Ripa, che mangiava per tre dando il buon esempio a tutti, e mesceva a destra e a sinistra da bere asciugandosi la fronte col tovagliolo; e l'altra dal Simonetti, l'orzarolo di Borgo, che faceva sparire nello stomaco, a forma d'otre, i vassoi delle fettuccine. Quasi nessuno parlava in quel primo quarto d'ora, ma quando dopo le fettuccine ebbero mangiato il fritto e comparvero i tradizionali carciofi alla giudìa, quando i camerieri ebbero incominciato a portar via le bottiglie e sostituirle con altre piene, allora, negli intervalli della musica, incominciò un vocìo assordante, incominciarono le grasse risate echeggianti sulla terrazza attigua coperta dal pergolato, e dove si era riunita tutta la gente di minor conto, tutta la plebe.

      Il principe parlava poco e ascoltava il sor Domenico e l'on. Serminelli, tutti e due pratici di elezioni, che gli davano dei consigli. Caruso non potendo stare accanto al principe si era messo alle costole a Fabio Rosati e sottovoce ripetevagli che se il principe sapeva svolgere l'idea suggeritagli da lui, era deputato del certo.

      Don Pio, nella cui mente era infatti penetrato il suggerimento del Caruso, ascoltava con orecchio distratto i discorsi delle persone che aveva a fianco e teneva l'occhio intento sul Rosati e su quel tipo strano di uomo grasso e senza energia, che pareva avesse concentrata nell'occhio tutta l'attività della mente, e avrebbe voluto, senza chiedergli nulla, avere da lui altri suggerimenti. Egli sentiva avvicinarsi il momento di parlare e la sola idea che sapeva di dover manifestare era infatti quella della stazione in Trastevere, ma era una idea isolata, che non sapeva su che basare, nè come svolgere.

      La sua non era una elezione preparata da lunga mano, come egli non era preparato alla vita politica. Lo scioglimento della Camera in seguito alla caduta del ministero, avvenuto in primavera, aveva rese necessarie in maggio le elezioni generali, e un gruppo di elettori, ascoltando il suggerimento del Rosati, si era fatto propugnatore del nome di don Pio Urbani, principe della Marsiliana, non perchè fosse noto come uomo intelligente, nè come buon amministratore, ma solo per contrapporlo a un ricco mercante di campagna, il de Petriis, che, per la impopolarità acquistatasi nel consiglio comunale, si voleva escluso dal Parlamento come rappresentante di un collegio di Roma.

      Del resto, don Pio non aveva altri precedenti che questi. Figlio unico e erede di un grande nome e di un grande patrimonio rovinato,


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