Vita di Francesco Burlamacchi. Francesco Domenico Guerrazzi

Vita di Francesco Burlamacchi - Francesco Domenico Guerrazzi


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l'Italia non n'ebbe mai come adesso dovizia, ma mentre pochi generosi combattono per la sua libertà e muoiono, molti a danno di lei le proprie spade con le spade dello straniero congiungono.

      Tuttavia l'Italia sparisce come il sole al fine di un giorno di autunno tramonta nel mare: non si può presagire quanto rimarrà sotto, ma si sente che tornerà a levarsi da capo; esalano le anime grandi Francesco Ferrucci e Francesco Burlamacchi, ma tu confidi che qualcheduno le raccoglierà; di su la faccia della terra la memoria di loro si dilegua, ma penetra nel grembo della terra come il seme del grano durante il verno per germogliare in messe a primavera. Esempi magnanimi, martirio di uomini per amore di patria divini, pianto di popoli o furore e vendetta a che pro? La tirannide muore, ma la servitù rimane; la quale senza tirannide non potendo stare, la rifabbrica con le ossa e con la fama dei morti per la libertà quello che è, sarà, e nulla vi ha di nuovo sotto il sole; gli Egiziani col geroglifico del serpe che si morde la coda vollero significare come le cose tornino perpetuamente ai loro principii, sentenza che pure intende dimostrare il Machiavello; e non è così: i rivolgimenti umani, comechè si rassomiglino, non offrono mai le medesime qualità; essi si aggirano sopra sè stessi più sempre progredendo a spira: ora se misuriamo la miglioranza alla stregua della vita dell'uomo, poco andiamo innanzi, e talora sembra che retrocediamo; i popoli la vita dei quali si prolunga nei secoli conseguono il bene ottenuto a gocce: da ciò, i procaccianti, rubato il pane dallo zaino del soldato della libertà, desiderando rosicchiarlo a comodo, cavano motivo di raccomandare i passi prudenti. «La salute stà nel camminare con riguardo», essi dicono; «chi va piano va sano.» Ma in queste faccende la procede diversamente, e la verità sta nel fatto, che qui col travaglio continuo acquistiamo poco. Tu hai a figurarti che il cuore e il cervello della più parte degli uomini (e ad immaginarti così non ti ci vorrà fatica) sieno duri quanto il granito e più, e tu gli abbia a trapanare; certamente, per molto volgere che tu faccia il ferro, t'inoltri poco, ma se allenterai l'opera, in che ti avvantaggerai di più o farai più sicuro lavorio? Niente senza grande travaglio di vita concedesi ai mortali, questo è vero; pure del pari è falso che l'umanità non proceda al meglio, e che chi rallenta il passo arrivi o più presto o più sicuro.

      Come altresì vuolsi giudicare, non che falso, stolto e crudele l'avviso di coloro i quali col predicatore screditano vanità di vanità tutto quello che non si converta a presente godimento materiale: la materia ci è, e pur troppo forma la più cosa degli uomini, ma ci hanno eziandio fra questi chi il bene della materia appetisce meno di quello dello spirito ed anco punto. Ora qui non preme definire spirito che sia, o se duri immortale, o se così durando ricordi gli affetti del suo connubio con la materia; certo si deve reputare che quelli i quali di questi piaceri furono creati capaci sentono o immaginano la immortalità, la lode futura nei posteri, il premio fra i celicoli. La sventura coglie tanto Sardanapalo quanto Anassarco. Diodoro siculo ci racconta come Sardanapalo re di Assiria si componesse da sè medesimo il proprio epitafio, il quale diceva: «Sardanapalo figlio di Anacindadarasse fondò in un giorno Anchialo e Tarso. Mangia, bevi ed ama; il resto non vale un fico annebbiato.» Ed a ragione osserva Aristotile che, eccetto la fabbrica delle due città, per tutto il resto l'epitafio quadrava a pennello anco a un porco. Forse cotesta epigrafe egli dettò fra un bacio di donna ed un bicchiere di vino; non immaginando dalle mille miglia che un giorno, per sottrarsi agli scherni e forse agli strazi del vincitore, egli avrebbe dovuto ardersi con la sua reggia e i suoi tesori. Anassarco di Abdera segue Alessandro in Persia, dove, con libera favella temperando la tumidezza dello eroe, opera sì che tra i Persi appaia libertà la tirannide greca: caduto in potestà di Nicocreonte, a cui in faccia osò dire tiranno, non si sgomentò al supplizio di sentirsi pesto dentro un mortaio, e così sfida il malnato: «Tu pilla la scorza di Anassarco, chè sopra la sua anima nulla puoi.» E poichè Nicocreonte lo minacciava fargli strappare la lingua, egli rispose: «nè anco questo sta in poter tuo»; e tagliatasela co' denti, gliela sputa in faccia.

       Entrambi per tanto con morte affannosa precipitarono nel sepolcro, ma non vi ha dubbio che ella con paura ed agonia maggiori deve avere percosso Sardanapalo, rotto ad ogni lascivia, che Anassarco, educato nella rigida scuola degli stoici: nè questo solo; nello estremo momento, nel quale si somma la vita trascorrendo con un baleno di pensiero gli andati giorni, il re avrà sentito di certo o che moriva tutto (e questo era il meglio per lui) o che sarebbe trapassato ai posteri memoria di vituperio: all'opposto il filosofo esultò nella idea, che, finchè storia durasse al mondo, quando si volesse portare uno esempio di virtù invitta che per atrocità di tormenti non vacilla, il nome di Anassarco sarebbe ricorso spontaneo sopra le labbra degli uomini. Che amabile sia la gloria ai magnanimi, bene sta, e confesserò vero del pari che di questi in ogni tempo fu scarso il numero: tuttavolta, per grazia di Dio, vedova affatto di anime gentili non andò mai la Italia, nè manco adesso in cui ella passa la più rea stagione che l'abbia da remotissimo tempo assiderata, in grazia del mondezzaio dal 1859 in poi venuto a galla; al quale non s'invidia la infamia fortunata a patto che non tocchi la fama che nasce dalla virtù infelice. Tutto non può pretendersi da tutti; chi pone diletto nei beni della materia non può raccogliere anco gli altri dello spirito. Onde io mi cruccio più che non convenga quando vedo un codardo porre la mano sul retaggio dei virtuosi, parmi un furto di cose sacre: ma dove tu consideri sottilmente il caso, nè ingiusto forse troverai nè soverchio che quelli i quali hanno facoltà d'infuturare la vita, finchè durano in terra, o non godano od anco soffrano; però tanto più importa che veruno usurpi loro il guiderdone che la provvidenza gli concesse.

      In questa nostra Toscana giusto nell'anno testè ricordato sorse una luce balorda che con clamore grande salutarono alba di giorno di libertà, e non fu nè manco barlume di aurora boreale: nè poteva succedere diversamente, essendochè cotesto moto fosse partorito non da virtù di popolo, bensì da viltà di principe, e se ne presentassero pronubi signori impazienti non già di servaggio, ma di non essere messi a parte della tirannide; uomini sviscerati, secondo il costume dei gatti, non già del padrone, bensì della dispensa del padrone; patrizi proseguiti dalla caterva di minori affamati in agonia di fare roba o di rifarla con la pecunia pubblica, turpe gara di titoli, di ladronaie e di servitù. Per abbindolare la gente, era pure forza comparire in sembianza diversa; nelle leggende fratesche s'impara come il diavolo per tentare santo Antonio pigliasse addirittura la faccia di angiolo; così i nostri scroccatori della rivoluzione si diedero attorno a raccogliere desideri gentili, concetti magnanimi, antiche voglie non appagate mai per pararsene e comparire orrevoli; ordinaronsi statue in onoranza dei grandi infelici e pitture e incisioni; le biblioteche vollero si rifrustassero per rinvenirvi carte dei sapienti, le quali poi rese di pubblica ragione avrieno cresciuto il tesoro della italica gloria. Se le cose non pativano indugio, si videro fatte; ed anco compironsi le altre per le quali l'artefice svelto, ricordando essere nato in casa di Nicolò Grosso[1], volle la caparra; per le rimanenti, fatta la festa, levato l'alloro: a questo modo dopo raccolte con sommo studio le carte dagli archivi e dalle biblioteche pubbliche, le quali unite con parecchie altre rinvenute nella Palatina ci potevano dare la edizione completa delle opere del Machiavelli, rimasero in mano dei collettori egregi senza costrutto, chè la spesa per la stampa non fu mai stanziata: i nostri ciurmatori saliti in arcione non avevano più bisogno che il Segretario fiorentino reggesse loro la staffa.

      A Francesco Burlamacchi toccò per bazza la statua decretata nel 1859; gliela rizzarono in Lucca nella piazza di S. Michele nel settembre del 1863, ed in cotesto giorno fece la orazione un professor Pacini, il quale, a sentirlo, pare che cammini fra l'uova, pauroso di pestarle, e ne aveva ben donde, però che la fama del Burlamacchi in quella solennità si adoperasse a mo' d'incenso repubblicano da ardersi per gloria della monarchia. Ed è poi falso quello che si affermò nella epigrafe stampata in fondo a cotesta orazione, cioè: che la paurosa tirannide apponesse lungamente a delitto perfino la ricordanza dei generosi morti per la libertà della patria; dacchè la tirannide dei Medici non solo consentisse che i generosi si ricordassero, ma ella ne mantenesse viva la memoria, e questo dimostrai nella vita di Francesco Ferruccio, raccontando come, nello apparecchio condotto a Porta a Prato nella occasione delle nozze di Francesco dei Medici con la regina Giovanna d'Austria, insieme coi simulacri dei fiorentini famosi in armi, anzi accanto a quello di Giovanni delle Bande-nere padre di Cosimo, facessero dipingere la immagine del Ferruccio; onde il Vasari, comechè fosse prelibatissimo piaggiatore di corte, non dubitò salutarlo sfortunato, ma valoroso capitano: più tardi, ornando le volte della Galleria degli Uffizi, questi stessi principi ordinarono


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