Vita di Francesco Burlamacchi. Francesco Domenico Guerrazzi
propri propositi; gli ebbe riverenza come a maestro, affetto di figliuolo, e quando fra Pacifico nel 1519 chiuse gli occhi alla vita, egli se ne stette lungamente come cosa balorda nè pareva se ne potesse consolare. Quanti scrissero la vita di Francesco, e sono parecchi, comechè la più parte giacciano manoscritte nelle biblioteche di Lucca, si accordano a descriverlo di bella persona, ottimo parlatore, vivace, nel motteggiare arguto, pieno di sentenze, d'indole repubblicante, donatore del suo, studioso a non offendere, diligente a farsi perdonare la offesa, per natura e per arte dispostissimo a guadagnarsi la benevolenza altrui, lento a meditare i disegni, nel proseguirli tenace, nello adempirli fulmine: della fama oltre il dovere (se questo può dirsi) innamorato, perchè nè cura di sè e dei suoi nè di sostanza nè di nulla lo potesse reggere tanto che non si avventasse precipitoso a conquistarla. Di ventisette anni tolse in moglie Caterina figlia di Federigo Trenta già morto; nobili entrambi, anzi la Caterina dal lato della madre, che fu Caterina Calandrini, procedeva nientemeno che dal papa Nicolò V; nè si sa che ricevesse dote, almeno dal contratto di nozze non comparisce,[8] procrearono insieme dodici figliuoli, sette maschi e cinque femmine, di cui a suo tempo riferiremo le fortune e la vita.
Quasi giovanetto Francesco prese ad esercitarsi nelle magistrature, sicchè appena trentenne fu anziano; nel 1529 lo elessero deputato insieme con Girolamo da Portico al principe Oranges al campo sotto Firenze perchè le sue milizie osservassero i confini della Repubblica e dovendo pure traversare la campagna si astenessero da fare danno; nel 1530 poi andò ambasciatore insieme a Gherardo Macarini a Carlo V per congratularsi della vittoria del suo esercito contro la Repubblica di Firenze, e con qual cuore adempisse cotesto carico ognuno sel pensi; nel 1533 lo promossero a gonfaloniere pei mesi di gennaio e di febbraio; nè mai da quel tempo in poi si rimase senza essere adoperato. Gli onori e gli oneri pubblici non cercò, quelli che gli vennero compartiti accolse[9]; uno solo si diede con infinita diligenza a sollecitare e l'ottenne, come quello che si attagliava ai suoi occulti disegni, e fu il commissariato delle milizie della montagna; intorno al quale ufficio importa sapere come la Repubblica di Lucca in mezzo a tre repubbliche, Pisa, Genova e Firenze, tutte più potenti di lei e tutte cupide di allargarsi a danno della meno forte, stava a buona guardia, e se consideri la piccolezza sua stupendamente apparecchiata su le armi. Sei cittadini tenevano lo ufficio della munizione, di cui era perpetua cura che nei magazzini pubblici si conservassero tanti grani e altre biade che ai casi ordinari non solo, bensì anco agli straordinari sopperissero; ed altri sei andavano preposti allo uffizio delle armi, i quali attendevano alla provvista della munizione da guerra, alle artiglierie ed alle altre armi così da fuoco come da taglio, e per attestato del Baroni si ha che nell'armeria se ne custodissero sempre in copia bastevole per trentamila soldati. La città tanto pei fini della difesa quanto per gli altri che ai giorni nostri si chiamano amministrativi e politici andava divisa in terrieri, e ognuno di questi in quattro gonfaloni o stendardi, i quali a loro posta avevano sotto di sè quattro pennoni o caporali, e così in tutto quarantotto pennoni e dodici gonfaloni. La bandiera usavano comune, bianca e rossa, di seta, se non che ciascheduna portava per arroto in mezzo certo segno proprio del suo gonfalone; San Paolino, ch'era il terziero dei Burlamacchi, nel primo gonfalone faceva il segno della Sirena, e però anco i Burlamacchi (e fu avvertito) usavano di questa immagine per cimiero su l'elmo, come si può osservare in molte armi antiche di cotesta famiglia; i quattro pennoni che sotto il gonfalone della Sirena si riunivano avevano nome San Masseo, Santa Maria Cortelandinghi, San Giorgio e San Tomeo. Ad ogni gonfalone era assegnata una parte dei baluardi perchè la vigilasse e la difendesse, e su i cantoni di ogni strada occorrevano segnati i nomi sia del baluardo, sia del gonfalone preposto a difenderlo, per guisa che al rintocco della campana che sonava accorruomo seimila uomini potevano trovarsi in assetto di difendere la muraglia. Nè meno solleciti accadevano l'avviso alle milizie del contado e lo assembrarsi di lei alla custodia delle torri sparse qua e là per la campagna, chè dalla gran torre del palazzo di giorno si facevano le fumate, e durante la notte il segno si dava con le fiammate: le milizie di tutto lo stato sommavano a meglio di ventimila uomini ottimamente ordinati da uffiziali di buon nome, i quali tiravano il soldo dalla Repubblica.
Trovandosi pertanto comandante generale di tutte le milizie lucchesi Giovambattista Boccella, personaggio di molta autorità in casa sua, propose al consiglio della Repubblica che, avendosi a nominare i tre commissari delle battaglie del contado, uno fisso e gli altri due a tempo, per commessario fisso si eleggesse Francesco Burlamacchi, e di leggieri fu vinto; molto a cagione del concetto di uomo capace e zelatore del bene pubblico in cui lo teneva l'universale, e molto eziandio per la ressa grande che Francesco ne fece tanto presso il Boccella quanto presso i singoli cittadini componenti il consiglio; però non è consentaneo al vero quello che occorre in parecchi scrittori, voglio dire che Francesco si lesse a procacciarsi a tutt'uomo questo ufficio in prossimità del tempo in cui sinistrò la sua impresa, imperciocchè egli l'occupasse fino dal 1535 insieme con Gherardo Penitesi, al quale fu confidato il presidio del passo al Ponte di San Pietro, mentre il Burlamacchi prese a difendere la frontiera dalla parte di Nozzano; del terzo commissario ignorasi il nome, solo si conosce che le altre ordinanze stanziavano ai ponti di Moriano, dei Colli e di Camaiore; e nè manco sembra vero che tutte queste battaglie sommassero a duemila fanti; il Dalli, che lo poteva sapere, ci avverte che arrivavano fino a sei mila, tutta buona e cappata gente.[10]
Di certo il Burlamacchi per la molta sufficienza sua si acquistò il primato sopra non solo i compagni, ma altresì sopra il suo superiore comandante generale, per modo che a lui deferivano: di vero egli non ometteva veruna di quelle cose che fanno il capitano amato e temuto, grazioso con tutti, vigile custode della disciplina, giusto ad un punto e severo, più con lo esempio che col comando ordinatore ai soldati, facile a rendere servizio, pronto a sovvenire del proprio, onde in casa i suoi lo riprendevano spesso di questa soverchia liberalità, e non è dubbio alcuno che in ciò spendesse con detrimento delle proprie sostanze.[11]
Questo è quanto sottilmente ricercando abbiamo potuto rintracciare intorno alla vita di lui fino al 1545; potevamo aggrupparci non pochi particolari, se non veri nel senso che si trovino attestati da pubbliche o da private scritture, certo verosimili, ma gli abbiamo omessi con deliberato consiglio desiderando che quanto verremo raccontando si tenga, diremo così, in concetto di religioso e di santo.
Ora poi, a fine di conoscere lo ingegno dell'uomo, vuolsi indagare quale fosse lo stato della Europa e più specialmente della Italia nostra; che cosa si sperasse e si temesse, quali gli umori sia per ciò che tocca le faccende politiche, sia le religiose: dacchè giudicammo (e da questo giudizio punto ci rimoviamo) che per lodare ovvero per riprendere l'uomo che sé ed i suoi avventura ad una impresa zarosa bisogni, senza attendere l'esito, esaminare se la era a conseguirsi probabile e se proporzionata all'intelletto e alla potenza dello agente, se utile allo stato, se onesta e se giusta; imperciocchè se tutte queste cose si appuntino nella impresa, allora riuscendo a bene ne avrai lode e vantaggi, e quando venga a sinistrare, non fie per mancarti in ogni caso la lode che sempre accompagna la virtù infelice. La fortuna senza consiglio appo i sapienti nulla vale; pel volgo sì, ma di un tratto ella muta, e allora non basta nè manco all'ufficio dei panni, i quali, secondo il dettato popolesco, rifanno le stanghe; caduta la fortuna della mal pensata e disonesta impresa, null'altro ti avanza eccetto il vituperio e il pregiudizio: a questo modo Focione ateniese avendo dissuasa la guerra lamiaca, punto si commosse allo annunzio dei prosperi gesti di Leostene capitano preposto alla impresa, ed a coloro che per istraziarlo gli domandavano se avesse egli desiderato di compire coteste strepitose azioni rispondeva: «Certo sì, ma tornerei pur sempre a consigliare come feci.» E i lieti inizi si convertirono poi in tristi lutti, perchè all'ultimo la guerra andò perduta, e Leostene rimase spento; ma ciò non rileva: lo esito buono o misero nè cresce lode nè la toglie, semprechè prima di recarti addosso un gesto, tu avverta a tutte quelle cose di cui abbiamo tenuto proposito qui sopra.
CAPITOLO II.
Se una legge fissa governi le cose morali e politiche come le fisiche: difficoltà di rinvenirla. — Scienza politica fallacissima e perchè. — Quante volte nei suoi presagi politici sbagliasse il Machiavello; esempio solenne di giudizio errato accaduto ieri. — Burbanza e vanità delle cicalate che appellano Filosofia della storia; sistemi a vicenda divoransi. — Secolo