Vita di Francesco Burlamacchi. Francesco Domenico Guerrazzi

Vita di Francesco Burlamacchi - Francesco Domenico Guerrazzi


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a giudicare il futuro che sta chiuso nel pugno di Dio; il Machiavello non potè immaginare quali e quanti missionari sieno dell'accordo dei popoli il telegrafo e il vapore; chi sa quante altre scintille sprizzeranno dalla pietra percossa dal ferro: noi che giovani spregiammo la Pazienza, e la Speranza, adesso vecchi propiniamo loro ogni dì nel sacrario della famiglia, votiamo loro i capi a noi dilettissimi e le salutiamo veraci angioli custodi della vita.

      Di Francia uscì il ferro normanno che conquistò la Inghilterra: Normanni contro Sassoni, Danesi ed Angli (dopo tante invasioni gli aborigeni Zimry senza dubbio i meno) furono vipere contro vipere; dopo molte offese si persuasero che sarebbe stato più spediente per loro unirsi a danno altrui e si unirono rivoltandosi contro il nido che le aveva allevate; di qui la guerra inglese, le fiere battaglie onde stette battuta la Francia, un re inglese consacrato re di Francia a Parigi, un re di Francia prigioniero a Londra; ora poichè venga da natura che la reazione sottentri immediata all'azione, al regno di Carlo VII memorabile per codardia di re e per virtù di popolo succedeva il regno di Luigi XI; del quale fu scopo ridurre la Francia in forte e bello arnese prima per difendersi e poi per guadagnare: allora la Francia appariva un cumulo di feudi, di cui i principi spesso pari e talvolta superiori al re; fra loro o contro la monarchia senza requie combattenti; causa perpetua di subbuglio in mezzo a lei, impedimento a costituirsi gagliarda. Questo re adoprò le arti imitate dal Valentino più tardi ma con esito felice: grande lo scopo, la fortuna propizia, le vie praticate, trucissime talvolta, inique sempre: in Francia veruno lo loda, e tutti si avvantaggiano della opera di cotesto re; ipocrisia in contrasto o piuttosto d'accordo con la comodità. A parere nostro vanno errati coloro i quali credono che i casi e gli uomini dei secoli passati abbiansi a giudicare con le norme di giustizia che professiamo adesso noi; arduo del pari è stabilire se la nostra giustizia di oggi sarà giustizia domani; e comunque si pensi, chi ragiona considera i successi in corrispondenza dei tempi e con le qualità di sapere e di sentire degli uomini in mezzo ai quali cotesti eventi compironsi. Non unico Luigi diede mano ai veleni, alle mortali insidie, ai tradimenti; solo fu più avventurato degli altri; continuo allora il gioco col quale invece di una moneta si buttava all'aria una corona esclamando: o morte, o vita: quello che Luigi fece agli altri o emuli o parenti o fratelli, se non lo avesse fatto egli, lo facevano a lui: complice poi e instigatrice di delitti la religione: se, posti da un lato tutti i beni e dall'altro tutti i mali di cui è madre la religione fra i popoli, noi dobbiamo desiderare o no ch'ella cessi, mi asterrò decidere, ma veramente voglionsi addirittura bandire al mondo flagelli di Dio, quelle che come la cattolica nostra insegnano ad aprire un conto corrente con la coscienza dove una partita di bene compensi una partita di male, e bene si reputi la prodigalità ad alimentare l'errore e gli apostoli suoi. Nè ciò che noi da maggiore lume assistiti conosciamo assurdo ed anco sacrilegio, tale appariva a Luigi XI, il quale, pervertito lo intelletto, credeva davvero che la Madonna di Embrun ignorasse i suoi delitti, noti solo alla Madonna di Parigi; così presso a morire, narrano gli storici egli non mostrasse verun rimorso per le tante crudeltà commesse protestando averle stimate necessarie pel vantaggio della monarchia, vale a dire di sè medesimo; solo, mostrando qualche scrupolo per la morte del duca di Nemours, parve un cotal poco pentirsi di aver fatto perire questo amico della sua giovinezza.

      Per questa guisa convertito il reame in arnese di guerra per forza di cose era mestieri adoperarlo; i re vincere l'un l'altro con le opere della pace non sanno; figli della prepotenza, da questa in fuori non pongono fede in altro, nè la occasione a cui la cerca e può valersene manca mai, anzi ella viene da sè: affermano gli storici che le Alpi furono aperte alla Francia dalla chiamata di Ludovico Sforza e dalla insania delle due donne, che Dio faccia triste, di Savoia e del Monferrato, ed è vero; però giustizia vuole che si aggiunga che, dove si fossero opposti anco tutti gli Italiani, mal vietate le Alpi sarieno state sempre: di vero prima di voltarsi alla Italia la Francia tastò la Spagna, ma per ben due volte se ne tornò indietro da Perpignano con la testa rotta; onde, volendo fare esperimento delle proprie armi, egli era naturale, che colà le adoperasse dove ne presagiva la impressione più agevole. Il paese più atto a ciò compariva certamente la Italia. Qui unico vincolo di unione fra gli stati nuocere altrui: se taluno accennava levare il capo sopra gli altri, tutti addosso: a cotesti tempi Dio ci voleva male davvero; lo ingegno si adoperava dagli stati a ordire sottili insidie in detrimento scambievole, le forze per affliggersi a vicenda; uno prevalendo su l'altro, non seppe comporre una forte monarchia, ovvero, deposto ogni concetto di primato, costituire una lega capace di opporsi con profitto ad ogni invasione straniera: ci volea poco a prognosticare che questo mosaico di frammenti non legati insieme, anzi discordi, ad ogni più leggiero urto sariasi scomposto; nè questo ignoravano i Francesi, i quali però, chiamati o no, io credo che sarebbero calati dall'Alpi; il consiglio perverso dello Sforza accelerò forse e agevolò la impresa, ma la sua origine hassi a derivare dalla necessità delle cose: e la Francia di certo avrebbe vinto, nonostante il precipitoso retrogradare di Carlo VIII, il quale non ha paragone che con la ruina del suo spingersi innanzi, se frattanto non sorgeva una potenza la quale non pure valse a tenerla in cervello, ma più volte la ridusse a un pelo di andare sbrizzata come tazza di porcellana caduta per terra.

      Questa potenza è la Spagna; divisa in più regni, lacerata dalle fazioni, re in guerra fra loro, baroni in guerra contro i re e contro il popolo; popolo combattente contro tutti; Saracini in casa ormai radicati; occupanti le più belle provincie che essi felicitavano con le arti, co' commerci, con la cultura ed anco co' costumi ad un punto eroici e gentili: pareva non solo strano, ma impossibile che in simili condizioni la Spagna mai si conducesse a formarsi in istato grande: e tuttavia fortuna e senno operarono siffatto portento nel giro di pochi anni. Col matrimonio di Ferdinando e d'Isabella i due regni sparirono; la guerra contro i Mori, oltre ad affrancare lo stato dalla presenza dello straniero, il quale quanto più vuoi industre e cortese, tuttavia straniero era e causa perpetua di umiliazione e di debolezza, giovò a ricondurre i baroni al guinzaglio e, rinforzati gli ordini del governo, a scemare l'anarchia dei comuni: quindi si accese la febbre delle scoperte, onde l'ardimento degli uomini toccò il sopranaturale, e le ricchezze rapite somministrarono abilità di ammannire armi e di soldare milizie; per ultimo le nozze di Giovanna con Filippo il Bello di Austria recarono sul capo del figlio Carlo il retaggio di Austria, della massima parte della duchea di Borgogna e la speranza della corona imperiale.

      Ormai la Francia e la Spagna sono salite in grado che, possedendo entrambi orgoglio sterminato e modo di appagarlo, forza è che fra loro contendano: signoria non pate compagnia; per venire in cozzo la casa regnante di Napoli sbattacchiata dalla bufera francese era spagnuola e congiunta dei reali di Spagna; adesso nè manco a fabbricarselo da sè poteva occorrere più santo o più giusto pretesto per pigliare parte a coteste guerre e spogliare i parenti dei loro stati, quanto quello di accorrere a difenderli per impedire che altri ne li spogliasse: vero è bene che Ferdinando e Isabella col trattato di Barcellona aveva pattuito con Carlo VIII, che, mediante la restituzione della Cerdagna e del Rossiglione già ipotecati a Luigi XI, di lasciare in balìa di lui amici e parenti, ma simili contradizioni le sono rifioriture nella politica degli stati e poi ormai la Cerdagna e il Rossiglione erano stati restituiti, e l'appetito viene mangiando. Una sentenza dura occorre nella storia di Ferdinando e d'Isabella dello americano Prescott a carico della Italia, ma come dura non del pari giusta; di fatto egli afferma: la Italia in cotesti tempi scuola magna della infame politica così astuta come vile, fraudolenta ad un punto e sfrontata, onde gli uomini del tempo si mostrano turpi di macchie che per età non si lavano; ma nè Ferdinando di Aragona nè Luigi XI avevano mestieri imparare in Italia, essi erano abbastanza matricolati da loro, e lice a noi dubitare se con altre norme si governino adesso gli stati in sostanza, quantunque il linguaggio sia del tutto mutato e ci si faccia un grande consumo anzi scialacquo di umanità. La fortuna delle armi non arrise ai Francesi, per cui ogni dì si fece più aspra emulazione fra la Spagna e la Francia, la quale giunse al culmine quando comparvero sopra la scena del mondo Carlo V e Francesco I a contendere dello impero: giovani entrambi, entrambi cupidissimi, eredi delle tradizioni dei loro antenati, forse spinti dalla necessità, la quale sebbene composta di argomenti artifiziati urge tuttavia come natura: l'uno e l'altro smanioso della monarchia universale di Carlo Magno, che quegli pretendeva francese, e questi tedesco. Anco nella contesa dello impero prevalse la fortuna di Carlo e fu salutato imperatore. Francesco ci spese attorno una grossa moneta, ma gli elettori si tennero gli scudi, non diedero i voti, e Francesco rimase condannato nelle spese. Senza timore di sentirci smentiti affermiamo


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