Prose (1880-1890). Cesare Pascarella
tavolozza i colori induriscono, e persino il vecchio orologio si dimentica di battere l'ora del pranzo! Nello stanzone s'ode l'eco d'un picchiettare assiduo, d'un martellare nervoso. È un giovinotto che nelle stanze terrene tormenta, con la punta d'acciaio, il seno bianco di una Venere di marmo. E l'acqua cade sempre sui vetri, attraverso ai quali si disegnano languidamente i colli lontani affondati nella nebbia grigia che ricopre gli orti e i pometi.
Allora, il pittore, solo nello studio, sdraiato sopra un divano ricoperto di stoffe orientali, dai cui angoli escono bioccoli di borra, fumando nella vecchia pipa, che gorgoglia rocamente, mentre il fumo sale, come un nastro, in alto, verso la tela, tesa a celare lo sconcio rincorrersi delle travi, sulla tela ove s'allungano le macchie nerastre dell'acqua, va dietro con la fantasia alle visioni dell'avvenire. A lui appaiono i meriggi assolati e le biade mature sotto l'azzurro purissimo delle giornate di luglio; a lui appaiono le fantasime della gloria che gli porgono con le braccia ignude corone di lauri; tutto quanto v'ha di bello e di lusinghiero appare alla fantasia dell'artista: anche l'esposizione mondiale di Roma! Poi, l'incantesimo cangia, all'azzurro succede il nero e allo sguardo sbarrato del pittore appare un lungo e squallido corridoio, ove si allinea una fila di lettucci; poi un carro nero che va sulla via fangosa fra due filari di cipressi bruni mentre nell'aria muore l'ultimo rintocco dell'Angelus. Allora egli si scuote, gitta sul tavolino ingombro di libri, di versi, di tavolozze, di penne e di pennelli, la pipa spenta e gira lo sguardo in un angolo dello studio, ove il manichino sta impassibile ad osservare. Oh! allora chi mi sa dire i muti colloqui che avvengono fra il manichino e l'artista?
Chi mi sa dire tutto ciò che egli in quei momenti confida al suo fedele compagno?
Ma il manichino non parla.
Guai se così non fosse.
E che direste voi se un manichino indiscreto e ciarliero, vi venisse a raccontare gli amori di un professore bianco per antico pelo con una gentile modella dalle trecce nere cadenti voluttuosamente sulla stoffa di un cuscino giallastro, e se venisse a raccontarvi le pose, i gesti, i corrugamenti di ciglia di un artista innanzi allo specchio, per istudiare un discorso da improvvisarsi più tardi in un Circolo artistico, in un Congresso artistico o innanzi a una bara bagnata di lagrime e ricoperta di fiori? Ma il manichino è discreto, il manichino non parla.
Ma sapete che scenette deliziose avverrebbero se il manichino parlasse!
Per esempio, incontrate per via un artista, e voi naturalmente fermandolo gli domandate: — Come va?
— Benone! — vi risponde lui tirandosi i peli radi della barbetta mefistofelica.
— Che fai?
— Lavoro.
— E il quadro?
— Quello piccolo? L'ho venduto.
— E quello grande?
— Ah, quello grande non ci penso neppure a venderlo.
— Come? Non pensi a venderlo?
— No; perchè quello grande l'ho fatto per me. Ho venduto il piccino a un americano per ventimila lire. È poco, lo so; ma glie l'ho dato perchè la galleria in cui sarà esposto è una galleria di primo ordine; ci sono Meissonier, Gérome, Laurens, Makart. Via, si sta in buona compagnia. D'altronde, anche ventimila lire per un quadrettino non sono poche: capisco ciò che vuoi dirmi; ma, sai, i tempi sono cattivi...
— Davvero. Guarda, giusto ora sta per piovere, ciao!
Che direste se il manichino di quel pittore vi venisse a rivelare che il quadro venduto all'americano per ventimila lire, invece di stare esposto nella galleria di New York, sta sepolto in un armadio, nello studio, preda dei topi e delle tignuole?
E che direste se, per esempio, vedendo passare un professore serio serio, impettito nell'abito nero, superbo del suo cappello a cilindro lucente tra la folla dei cappellini a cencio, coi nastri delle commende all'occhiello; che direste se un manichino vi venisse a dire, come lui quel professore lo abbia conosciuto quando, con la camicia che gli usciva dalle maniche rotte della giacca, urlava contro le Accademie, e quando, non potendo altrimenti dileggiare quelle istituzioni, di cui ora è orgoglioso di far parte, chiamava il suo cane col titolo di professore?
Ma il manichino, signori, è discreto, il manichino non parla. Ed è per questo che, quando la porta dello studio non s'apre ai colpi reiterati delle amiche e degli amici egli sta nello studio. Sta nello studio perchè non dirà a nessuno se una macchina fotografica prese il posto della tela sul cavalletto; nè farà sapere a nessuno se un quadro sarà accarezzato da un pennello e firmato da un altro.
Però, o signori, non tutti i manichini sono manichini, e come tra gli uomini così anche fra i loro ve ne sono di quelli che disonorano la loro razza.
Costoro hanno vita dolorosissima: randagi d'indole, vanno vagando senza posa da questo a quello studio; feroci e maneschi, sovente attaccano briga con l'artista, e non giovano cure e castighi per farli uscire da quella via di perdizione.
Io ne ho conosciuto uno di cotesti sciagurati. Che brutta figura! Scommetto che se l'aveste incontrato per via, gli avreste dato l'orologio e il portafogli, purchè vi avesse lasciata salva la vita. Aveva sul muso i tratti caratteristici del delitto, così bene marcati che io son certo che se il professore Lombroso lo avesse visto, non dico tastato, lo avrebbe giudicato come il prototipo del manichino delinquente. Di star fermo, non volea saperne. Vi lasciava incominciare un lavoro; poi, quando vi vedeva a lavoro inoltrato, crac, faceva un movimento brusco e addio pieghe, addio lavoro.
Lo mettevate ritto nella posa del guerriero che ritorna vincitore? Dopo cinque minuti, il guerriero vincitore si metteva a sedere. Lo atteggiavate seduto, nella posa del Tasso, che declama i suoi versi alla sorella del duca di Ferrara? Dopo aver letto appena due ottave Torquato Tasso si gettava in terra. Lo mettevate seduto in terra, nella posa dell'onesto agricoltore, che si riposa dalla fatica lunga della giornata o nella posa del gladiatore moribondo? Dopo pochi istanti, l'onesto agricoltore si stendeva lungo sul pavimento a dormire e il gladiatore moribondo era morto. Io ho visto, signori, dei pittori perdere la pazienza, afferrare un bastone e suonar giù botte da orbi. Come dire al muro!
A un pittore, che gli assestò un colpo di bastone sul cranio spelato, egli rispose gittandosi vigliaccamente per terra e allungandogli con la gamba legnosa un calcio sul volto che, se lo pigliava in pieno, lo spediva al Creatore.
Pure, io non li odio cotesti poveri manichini degenerati, perchè penso che il loro pervertimento è causato dall'organismo loro e dalla loro costruzione, e ripeto con Seneca: Fatis agimur cedite fatis!
Del resto, se vi sono manichini delinquenti e perversi, oh! infinito è il numero di quelli buoni, fedeli, incapaci di recare il più piccolo danno ai loro padroni.
Una notte, i ladri salirono in uno studio per rubare. Al chiarore freddo della luna, che battendo sui vetri del finestrone illuminava languidamente la stanza, videro in fondo ad essa un antico romano che vegliava, e fuggirono. Signori, quell'antico romano che vegliava, era un manichino.
Potrei citare centinaia di fatti comprovanti la bontà d'animo, il coraggio e le rare doti del manichino; ma non voglio dilungarmi troppo, e ne citerò uno solo rimasto pietosamente scolpito nella memoria di quanti ne furono testimoni. Nel dicembre del milleottocentosettanta, quando il Tevere dilagando per le vie di Roma fu cagione di tante sventure, uno scultore era restato chiuso dalle acque nel suo studio.
La via Flaminia era allagata; e il fiume trasportando alberi divelti dalle lontane campagne, carogne di buoi e di pecore, e frantumi di capanne urtava schiumando su gli stipiti marmorei della Porta del Popolo.
Lo scultore, spintovi dall'incessante salire delle acque, era già salito a sua volta sopra un armadio, e stava aspettando angosciosamente la morte, quando udì venire dalla prima stanza del suo studio un rumore come di qualche persona che si avvicinasse. Gridò. Nessuno rispose. Ma quando una più forte ondata entrò nella camera, spalancando mezza imposta dell'uscio, egli vide il suo manichino, nuotante placidamente, avvicinarsi a lui con le braccia levate e con le labbra sorridenti. Un urlo di gioia, come non si era mai più udito l'eguale, da quando i naufraghi della Medusa videro su l'infinito mare biancheggiare