Prose (1880-1890). Cesare Pascarella

Prose (1880-1890) - Cesare Pascarella


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di codesti pittori. E, se ci sono pittori a corto di moneta, ora che governi, comuni e Provincie Dio solo sa quanto spendono e spandono per proteggere l'arte e gli artisti; se vi sono pittori con le tasche vuote ora che si pagano migliaia e migliaia di lire pochi palmi quadrati di tela dipinta; ma figuratevi quali eserciti interminabili di pittori affamati han dovuto passeggiare sulla superficie della terra quando non esistevano nè governi, nè comuni, nè provincie; quando non c'erano Accademie entro le cui pareti si raccogliessero le speranze migliori dell'arte; quando non c'erano mecenati; quando ancora non eran nate quelle famose lotterie per vendere i rimasugli delle Esposizioni; quando non c'erano negozianti di belle arti; quando, o signori, non esistevano neanche gli americani, poichè a quell'epoca l'America ancora non era stata inventata.

      Concludiamo. Ammesso il pittore, abbiam dovuto logicamente ammettere il pittore affamato. Ammesso il pittore affamato, il problema dell'origine del manichino è risoluto.

      A me par di vederlo cotesto sventurato inventore. Un giovinotto alto e largo quattro volte me, con una folta capigliatura nera, spiovente sulle sue spalle quadrate con una barbettina a pizzo sul mento. A me par di vederlo, cotesto pittore allupato dell'antichità, con le mani strette nervosamente su la pancia vuota, passeggiare a passi concitati innanzi alla porta del suo studio. Figuratevi che studio! Una capanna immensa costruita coi rami di quegli alberi che ora si vedono verdeggiare soltanto negli scenari delle operette fantastiche. Mi par di vederlo passeggiare e mi par di udirlo bestemmiare in sanscrito, come un turco, perchè il modello da lui fissato non arriva ancora.

      «Per gli Iddii immortali!...» è il pittore allupato che parla ed io traduco liberamente; «per gli Iddii immortali! Quel birbante di modello questa non me la doveva fare. È vero che gli son debitore di parecchie lire sanscrite; ma non gli ho io forse promesso di pagarlo ad usura quando il mio quadro otterrà il lauro della vittoria laggiù nella foresta delle sigillarie ove si terrà la prima esposizione mondiale? La stessa cosa ho promessa al padrone di studio, all'oste, al negoziante di colori, al corniciaio, che mi porterà qui fra non molto una bella cornice di felce dorata, e tutti costoro accondiscesero, e come possono si danno moto perchè il mio quadro abbia successo; e tu solo, vile ciociaro dell'Iran, birbante di un modello, tu solo, mentre tutti si danno moto perchè il mio quadro abbia successo, tu solo, mentre tutti si danno moto non vuoi star fermo? Va, sciagurato, anche senza il concorso della tua persona il mio quadro sarà finito ugualmente!». Questo mi par di sentir dire al pittore sanscrita e mi par di vederlo rientrare nel suo studio; mi par di vedergli adattare intorno a un bastone gli indumenti primitivi, che doveva indossare il modello, stringerli con una fune, rannodarli, allargarli, dargli approssimativamente la parvenza di una forma umana, e cominciare poi tranquillamente il lavoro.

      Non altrimenti, signori, è nato il manichino. Così.

      Però codesto manichino come lo abbiam visto ora uscire dalla fantasia del pittore famelico, non era se non un germe, non era che un embrione del manichino da noi ora conosciuto. Che lungo viaggio ha dovuto egli fare, prima di acquistare quella perfezione di forme, quella gravità di movimenti che lo fa somigliare così bene all'uomo pensante! Quale lunga evoluzione dal pittore affamato che lo intuì, fino a giungere a frate Bartolomeo della Porta da cui egli ebbe l'ultimo tocco!

      E, nella lunga evoluzione, nel lungo viaggio molte altre razze di manichini nacquero e si sbandarono qua e là per il mondo, abbandonando il grosso della turba che sempre, sotto ogni stella, seguì la fortuna dell'artista. Alcuni non contenti di somigliare all'uomo per le forme, vollero somigliare all'uomo anche per la parola. E abbandonarono i facili trionfi dell'immobilità, per la difficile arte di Talia, e corsero il mondo empiendo di cose strane con la loro voce ridicola, che vollero dare ad intendere di avere acquistata, le anguste e sudice scene dei teatrucoli di legno. Ma come scontarono amaramente la fregola del parlare e l'ambizione della gloria! Di grandi e forti che erano, divennero piccini, mingherlini, malaticci; abituati alla luce viva dello studio furono costretti a star pigiati, al buio, entro i cassoni dei loro padroni, l'uno sull'altro, come le sardelle; avvezzi alle piene lodi e ai complimenti di quanti li riconoscevano nei quadri dipinti dai professori più illustri, furono obbligati a subire l'ignominia della folla, che gittò loro, ridendo, sul muso ammaccato dai patimenti e dalle sofferenze il nome ingrato di burattini. Altri vollero ricoprire le loro persone di abiti scintillanti d'oro e di porpora; vollero ornare le loro teste di corone gemmate; ma a qual prezzo dovettero acquistare tali ornamenti! Chiusi nelle vetrine dei musei ove non hanno accanto se non mummie, uccelli impagliati, mostri nuotanti nello spirito, oh! come debbono ripensare con dolore all'allegra dimora che abbandonarono! Altri più superbi, chiesero, oltre allo scintillìo delle vesti e al fulgore delle corone, anche l'omaggio e la venerazione, e salirono su gli altari.

      Eppure, fra i manichini sbandati, ve ne sono anche dei più disgraziati di costoro. Ricordate, nelle fiere di provincia, quei poveri manichini costretti a servire da bersaglio ai tiratori novellini? Che orrore! E quelli altri che, senza averci nè colpa nè peccato, sono esposti nei gabinetti storici sotto i nomi dei più terribili malfattori, non vi hanno mai intenerito?

      Avete mai visitato quei gabinetti?

      Fuori, al chiarore rossiccio delle padelle di sego che fumigano, insozzando i tabelloni su cui stanno dipinte storie orribili di sangue, il povero saltimbanco passeggia gridando con la voce rauca dal sonno e dal digiuno: «Non si lascino rincrescere! Dieci centesimi non sono la rovina di una famiglia, nè la morte di un individuo. Favorischino in del nostro gabinetto indovechè noi ci andiamo a mostrare venti e passa assassini uno più interessante dell'altro. Osserveranno il terribile brigante Stoppa, il terribile Falsacappa, il terribile Ninco-Nanco e in ultimo passeranno a osservare il terribile Tropmann. Quest'ultimo lo vedranno, o signori, vita natural vivente, come me, come lui, come voi. Lo vedranno doppo di avere ucciso venti e passa individui fra maschi e femmine nonchè altri delitti ferocissimi, lo vedranno quando la mano della giustizia sta per colpirlo; ma il malfattore si butta in del fiume per salvare col suo proprio noto la sua propria esistenza. Ma la mano della giustizia lo colpisce, la mano della giustizia lo rattrappa, la mano della giustizia lo piglia, lo lega come un Cristo e lo conduce in questo nostro gabinetto, ove noi, o signori, abbiamo l'onore di presentarvelo».

      Qualche raro visitatore, gittando i due soldi nel bacile di stagno ammaccato, entra nel gabinetto. I poveri manichini, al chiarore fioco di pochi lumi, stanno allineati su di un tavolaccio sudicio: chi stringe una lama, chi brandisce un'accetta, chi impugna una pistola, chi si stringe al petto un fucilacelo arrugginito. Poveri manichini! costretti là dentro a rappresentare la parte del malfattore e del brigante mentre in fondo poi chi sa che bravi e che onesti manichini saranno.

      Vedete: certe volte, riflettendo alle orribili torture alle quali vengono assoggettati, io non vi so dire quanto dolore provi nel pensare come ancora non si sia fondata una società di protezione per i poveri manichini. Ce ne son tante; ce ne potrebbe essere ben una anche per loro.

      Figuratevi! Voi bella e gentile signora quando andate dal vostro guantaio non vi siete mai sentita agghiacciare il sangue nelle vene, al vedere quella mano nera, quella mano rossa, che penzola su l'insegna, pensando a quel povero manichino a cui l'hanno strappata?

      E quando passate innanzi alle vetrine dei parrucchieri, non vi siete mai sentita spezzare il cuore nel petto al vedere quelle povere figurine di manichini così belle, così giovani, e già così tanto infelici! costrette a girare eternamente, come un pollo infilzato allo spiedo, fra i vasetti di pomate e di balsami miracolosi? Quelle povere figurine hanno tutte, sul volto dipinto di cinabro, il sorriso; ma quel sorriso che hanno sui labbri non lo hanno nel cuore.

      Ma noi abbiamo già troppo a lungo discorso dei manichini che abbandonarono lo studio. Lasciamoli ai loro rimorsi e fermiamoci a parlare del manichino rimasto ognora fedele all'artista nella fausta sorte e nella ria.

      Proprio così; poichè, o gentili dame che mi ascoltate, non crediate che nello studio si rida sempre. Nello studio, purtroppo, si succedono talvolta giorni di dolore e di scoraggiamento.

      Oh! in quei giorni come è triste quello stanzone che voi, dame gentili, vi figurate sempre come la sede della spensieratezza e dell'allegria! Allora, su l'ampio finestrone, batte assidua la pioggia; nell'aria non s'odono più le vibrazioni sonore della chitarra, di cotesto scacciapensieri dell'artista; sul tavolino i fiori, colti nel prato, diventano un mucchio di


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