Prose (1880-1890). Cesare Pascarella
sempre: — Penso io! — Pur di rendere un servigio a un artista si sarebbe gettato dalla finestra. Dolcissimo di carattere, avea però due odii i quali non s'erano spenti in lui neanche dopo di aver abbandonato il mestiere del modello: odiava ferocemente la pittura di paesaggio e i manichini. I quadri di paesaggio a suo giudizio erano robetta da gentuccia volgare che, come solea dire, nun ci ha gnente nè qui — e così dicendo s'appuntava l'indice sulla fronte — nè qui — e si batteva con la destra il taschino vuoto del suo corpetto.
Così egli definiva l'arte del paesaggio. E soggiungeva poi: — A dipigne' l'arberi tutti so' boni. Puro le donne!
Ma per vedere andar fuori dei gangheri il buon vecchietto, bisognava nominargli il manichino. Allora non ragionava più. Stralunava gli occhi, stringeva i pugni e urlava con voce irata: — Canajie che rubbeno er pane a li poveri modelli! — diventando rosso e digrignando i pochi denti che gli erano rimasti, se ne andava tossendo rabbiosamente. Ma quando saliva negli studii per spazzarli, se gli riusciva di farlo senza che alcuno potesse vederlo, andava ad allentare le chiavi che servono a moderare le giunture ai manichini; e quando vedeva un povero manichino dinoccolato e cascante, s'allontanava saltellando e sghignazzando appagato e contento.
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Dalla parte ove s'era composta la capanna il modello fabbricante di torce a vento, v'erano altri tre studii da scultore e una cantina che veniva chiamata il museo, dove si raccoglievano continuamente gli oggetti utili ed inutili che gli artisti, partendo, lasciavano nelle stanze o perchè fosse loro impossibile di trasportarli altrove, o più spesso in pagamento di qualche mese di fitto.
Visitai una volta il museo col padrone degli studii al quale avevo chiesto un cavalletto. Là dentro nella penombra si accumulavano alla rinfusa cavalletti e tavolini, cornici vecchie e divani con la stoffa strappata, cuscini sventrati e sedie senza paglia, cassette da dipingere sgangherate e disegni andati a male, busti di gesso senza naso e fagotti di cenci, statue senza testa e manichini ammuffiti, scheletri d'ombrelli da pittore e chitarre rotte, quadri sfondati e pennelli logori; e cento altri oggetti diversi.
Il museo si apriva quando qualche nuovo arrivato avea bisogno di un mobile per il suo studio, o quando se ne andava qualche vecchio inquilino; ma verso gli ultimi del mese, rimaneva sempre aperto chè ogni mese arrivavano nuovi affittuari.
Ne ho vista di gente arrivare e partire da quegli studii! Per lo più ci venivano molti giovinotti che facevano risuonare allegramente gli ampii stanzoni con la letizia dei loro canti. Arrivavano tutti con una cartella sotto il braccio, un pane in tasca e una pipa in bocca; si fermavano per qualche mese e se ne andavano allegramente, alcuni pochi per avviarsi a conquistare un posto nella storia dell'arte, e molti altri per andare a finire i loro giorni in un lettuccio di qualche ospedale.
Pure, di tanto in tanto, vi capitavano alcuni vecchi col volto giallo dalla fame e con gli abiti dimessi: quasi sempre figure sconosciute di copisti di galleria.
I copisti!
Io non ho mai conosciuta una classe di persone più tragicamente comica, e più dolorosamente umoristica dei copisti di galleria.
Bisogna vederli quando al mattino di buon'ora se ne vanno taciturni e serii al loro lavoro; bisogna osservarli quando seduti innanzi alle loro tele con le larghe e morbide pennellesse di martora velano di lacca rosea le carni delle veneri e delle ninfe nel cospetto dei capolavori dell'arte antica ed ascoltarli quando nei momenti di riposo, adunati in crocchio, parlano dei loro maestri favoriti: già, perchè ogni copista ha il suo autore prediletto. Anzi ce n'è di quelli che riproducono soltanto un quadro di un dato autore, e a lungo andare finiscono col persuadersi che il quadro copiato sia opera loro.
Uno di tali copisti lo incontrai nella galleria Borghese. Era sui cinquant'anni, e a vederlo, di primo acchito, si sarebbe scambiato per un alto impiegato delle pompe funebri. Soprabito nero, cravatta nera, cilindro nero, camicia... stavo per dire nera.
Lo conobbi quando era in voga l'autore che copiava, anzi il quadro dell'autore da lui riprodotto; perchè egli non faceva che riprodurre sempre il medesimo quadro: la Speranza di Guido Reni. Ne aveva fatte tante e tante di riproduzioni, tante e tante che nel suo mondo era chiamato: lo speranzoso. E sugli ultimi le sue copie le faceva a memoria. Ne dipingeva due al mese, e campava col frutto di quel suo lavoro. Ma un bel giorno, non so per qual ragione, ci fu ristagno nello smercio delle Speranze di Guido Reni, e al povero copista finirono i guadagni.
Lo rividi qualche tempo dopo, quando venne a chiedere in fitto una stanza nello stabilimento di studii. L'ebbe; e vi trasportò un cumulo di Speranze deluse. Poichè al povero copista che aveva continuato per tanti e tanti anni di seguito a dipinger due copie al mese del quadro di Guido, la forza dell'abitudine non gli permetteva di smettere. Per lui dipingere due Speranze di Guido Reni al mese era divenuta una necessità alla quale provava inutilmente di ribellarsi.
Verso i quindici di ogni mese egli diveniva malinconico, taciturno, intrattabile; la nostalgia del quadro del nobile e dolce pittore bolognese lo conquistava, e non ritrovava la pace se non di dopo essersi chiuso nello studio e d'aver dipinto le due copie mensili della ineluttabile Speranza, le quali, manco a dirlo, andavano ad accrescere il cumulo delle altre sue speranze purtroppo irrealizzabili.
Ne conobbi un altro che copiava sempre un affresco attribuito a Leonardo da Vinci. I quadri del Vinci li chiamava «i nostri capolavori». Sapeva a memoria la vita del grande pittore e la narrava così, come se raccontasse la propria. Le giornate le passava quasi tutte in S. Onofrio, e la sera, appena tornava in casa, andava a un tavolino, vi posava sù le mani aperte, chiamava Leonardo e ci si metteva a discorrere, chiedendogli pareri, giudizi e consigli. Un giorno ci narrò con le lagrime agli occhi come avesse litigato con Leonardo per una certa velatura di lacca che il grande pittore voleva si desse a una ultima opera del copista, e finì esclamando con voce desolata: — Non capisce che se gli diamo la velatura roviniamo il quadro.
La lite durò parecchio tempo e prese anche una brutta piega. Difatti qualche giorno dopo lo incontrammo con un braccio al collo.
— Guardate! come m'ha conciato Leonardo — ci disse mostrandoci il braccio appeso al fazzoletto. — L'altra sera sempre per quella tal velatura abbiamo questionato di nuovo e mi ha dato un pugno che ancora ne sono indolenzito. — E come noi ci provavamo a consolarlo egli incalzò: — Ma che forza ha quel grande! Eh! già, altre tempre! Altri uomini i nostri vecchi! — E guardandoci come se volesse rimproverarci la nostra fiacchezza si allontanò. Lo rivedemmo poi felice e contento. Ci venne incontro con un'aria di letizia ineffabile e ci disse: — Abbiamo rifatta la pace! Abbiamo rifatta la pace! Guardate un po' — e in così dire ci mostrava una palla da bigliardo che poi ripose immediatamente in tasca — ora non mi scappa più; l'ho fatto entrare qui dentro. Siamo ridiventati amici. Ieri sera l'ho condotto a teatro. Come s'è divertito! Era così contento che me lo sentivo ballar qui, qui! — e si toccava il cocuzzolo con la mano scarna. La manìa dello spiritismo lo aveva fatto impazzire.
Una delle sue fissazioni negli ultimi tempi era quella di comperare qualche uccellino e di lasciarlo libero. Così faceva Leonardo.
L'ultima volta che lo vidi fu una domenica di maggio a piazza del Popolo nell'ora del passeggio. Aveva comperato un mazzo di palloncini da due soldi gonfi di gas e sciogliendoli lentamente uno ad uno li mandava in aria, fra gli schiamazzi dei monelli, gridando che così faceva Leonardo.
Due guardie lo condussero, fra le risa della folla, prima in guardiola e poi al manicomio.
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Ma fra i vecchi artisti che capitavano qualche volta fra noi i più ridicoli eran quelli i quali, benchè induriti nei vieti precetti dell'Accademia, avendo visto i giovani muovere a combattere in difesa dell'arte nuova che in quei giorni si chiamava «il vero», tentavano invano di sciogliersi dai tenaci legami che li avvincevano all'arte del Camuccini e dell'Agricola.
Non scorderò mai vino di costoro, che dovendo effigiare in un quadro d'altare il battesimo di Gesù, e non potendo andare a dipingere il suo quadro sulle rive del Giordano e non volendo d'altra parte perder l'effetto della verità, costrinse i suoi modelli, uno vestito