Prose (1880-1890). Cesare Pascarella
E il bello è, che ad ogni istante mi sento urlare alle calcagna da cento voci: lavora! lavora! Ma per chi debbo lavorare? Per il pubblico? Giusto! Proprio per questo ignorante e pitocco che dice di amare i suoi Michelangeli, i suoi Tiziani, i suoi Raffaelli e i suoi Correggi perchè il dirlo non costa niente. Per la gloria? E chi l'ha mai conosciuta questa strega? Dunque? Per chi debbo lavorare? Per chi? — E s'era fermato in mezzo alla via con le mani sui fianchi fissando il terreno fangoso.
— Per i posteri! — gli rispose il triestino, posando in terra la valigetta che tentava di liberarsi dalla cordicella che la stringeva troppo.
— Bravo! — riprese allora lo scultore — Proprio per loro voglio logorarmi la vita! Per questi scrocconi dell'umanità. E che obbligo ho io di lavorare per i posteri? Forse per dare il gusto, di qui a mille anni, a un lustrascarpe milionario di comperare una mia statua per un milione di scudi? Bella soddisfazione! E poi scusa, perchè mai io dovrei lavorare per i posteri? Che cosa hanno fatto loro per noi?
— Niente! — sentenziò il triestino — Niente!
Intanto il vento fresco fischiava nella stradicciuola solitaria, sul cielo brillavano le stelle e dalle vicine campagne venivano i canti tremolanti dei grilli e il gracidare rauco delle rane.
* * *
Il giorno dopo andai a far visita allo scultore e lo trovai che lavorava attorno a un busto di creta. Ci stringemmo la mano come vecchi amici e mentre volgevo gli occhi verso il suo lavoro: — Per carità — esclamò — non guardi. È roba da morire. Lavoro dalla fotografia ed è proprio un martirio! Ma come si fa? Vivere bisogna!
— Per altro somiglia. — dissi confrontando il busto con una fotografia che l'artista m'aveva presentata.
— Sentiremo che cosa ne penserà il committente. Giusto ora deve venire.
— Allora vuol dire che gli ultimi colpi di stecca glie li darà avendo a modello il vero.
— No, no — mi rispose egli ridendo. — Il committente è il figlio di questo busto.
— Dunque il busto...
— È morto. — soggiunse lo scultore accarezzandogli il naso col pollice; — lo modello per commissione del figlio che mi ha mandato questa orribile fotografia.
A questo punto s'udì picchiare alla porta.
— Le sono d'incomodo? — dimandai.
— No, resti — riprese; e volgendosi verso la porta, disse ad alta voce: — Avanti!
Un uomo sorridente, avvolto in un mantello di panno nero foderato di lanetta verde, comparve su l'uscio esclamando: — Bongiorno!
— Bongiorno! — rispose il giovinotto stringendogli la mano con effusione e forzandolo a non togliersi il cappello a cono.
Io intanto m'ero seduto in un angolo di un canapè, su la cui stolta sdruscita ai ghirigori del tessuto si mescolavano schizzi di gesso e sberleffi di argilla secca.
— Dunque? — chiese il provinciale sempre sorridente, asciugandosi con un ampio fazzoletto turchino il sudore che gli scolava giù per le gote infiammate.
Lo scultore s'era avvicinato al cavalletto e aspettava, con le mani nelle tasche dei calzoni, fermo accanto alla testa di creta. Nel silenzio s'udiva il ronzio di un moscone impigliatosi in una tela di ragno su l'ultimo vetro del finestrone.
— Dunque? Il busto? — riprese il buon uomo sempre sorridendo e girando qua e là per lo studio gli occhi tondi.
— Eccolo. — disse alla fine il giovinotto, accennando la sua ultima creazione.
Ci fu un altro istante di silenzio; poi il provinciale smise di sorridere e appuntando l'indice teso verso il busto e gli occhi spalancati in volto all'artista, esclamò con voce rassegnata: — Questo è mio padre?
— Non le piace? — domandò il giovinotto, aggrottando le ciglia.
— Mah!
— Mah! caro lei — interruppe allora il mio amico animandosi — caro lei, dalla fotografia, capirà che si lavora a un di presso.
— Eh! Già! Capisco! La fotografia è un di presso — balbettò il pover'uomo; — ma la bona memoria di mio padre non aveva la barba.
— Non aveva la barba? E questa che cosa è? — dimandò allora lo scultore impazientito, mostrando al provinciale il ritratto da cui aveva ricavato il busto.
Il buon uomo lo prese in mano, e come l'ebbe guardato esclamò: — Ma questo non è mio padre!
Era avvenuto un equivoco deplorevole. Il fotografo incaricato di spedire all'artista la fotografia, in luogo di un ritratto ne aveva mandato un altro.
— Ed ora — chiese lo scultore — come s'accomoda? Lei m'ha mandato una fotografia, m'ha scritto di ritrarne un busto; il busto l'ho fatto. Dunque?
Seppi di poi come s'erano accomodati. Per venticinque lire di più sul prezzo stabilito, l'alunno di Fidia s'era impegnato a togliere la barba al busto, e a consegnarlo in tutto e per tutto somigliante al nuovo ritratto che gli sarebbe stato mandato.
* * *
La stanza vicina alla nostra era stata presa in affitto da tre pittori paesisti. Tre figure, che a vederle insieme non si poteva fare a meno di sorridere. Il primo, grassoccio, e alto come un granatiere, andava sempre attorno vestito con un costume di velluto che, a seconda della maggiore o minor quantità di luce che vi pioveva sopra, cangiava di colore. Perciò lo chiamavano il camaleonte. Il secondo, un giovinetto lungo, secco e nervoso come una donna isterica, portava sempre in dosso una lunga palandrana nera, sempre sbottonata, che gli scendeva fino alle calcagna; l'ultimo, basso e tarchiato, con la faccia grassa come una luna piena, con una selva di capelli rossastri e ricciuti, girava per il mondo, tanto d'estate quanto d'inverno, con un soprabito verdastro e un paio di stivaloni alla scudiera. I primi due più che dipingerlo il paesaggio, lo ragionavano. Il terzo ascoltava sempre i suoi compagni accigliato e silenzioso, e all'ultimo, quando i due per il lungo parlare restavano senza voce, chiudeva tutte le discussioni con queste parole: — Non si può essere esclusivisti. È questione di coscienza. L'arte è una laguna.
Il camaleonte non ammetteva che si potesse togliere nemmeno un filo d'erba dalla scena che si ricopiava dal vero. L'altro invece gridava con la sua vocetta di galletto di primo canto, che il vero si deve copiarlo non come si vede, ma come si ama. E lui, lo amava come lo avevano amato Claudio di Lorena e il Pussino. Nutriva un odio furioso contro gli ortolani, e faceva risalire a quei poveri lavoratori della terra la causa della mancanza di buoni maestri di paesaggio.
— Ma se piantano gli alberi dove non stanno bene! — gridava, torcendosi come una biscia. E soggiungeva subito: — Fino a quando gli ortolani e i vignaroli non conosceranno il Liber Veritatis del grande Claudio, — e qui, se lo aveva in testa, si levava il cappello — fino a quando essi non sapranno piantar gli alberi dove devono essere piantati perchè stiano bene nel paesaggio, non avremo mai grandi paesisti. E io preferirò sempre di farmelo da me il mio paesaggio e di compormelo come lo amo io.
Allora il camaleonte, faceva una carica a fondo contro Claudio di Lorena; e quello dai capelli ricciuti, dondolando il suo testone, ripeteva invariabilmente: — Non si può essere esclusivisti. È questione di coscienza. L'arte è una laguna.
Del resto, benchè tutti e tre i nostri vicini avessero differenti idee sul paesaggio, in una cosa andavano perfettamente d'accordo: nel non dipingerlo mai.
Accanto ai tre paesisti abitava un vecchio copista, e tutti lo chiamavano il professore Calendario.
— Ma perchè mai lo chiamate così? — chiesi un giorno allo scultore siciliano col quale eravamo divenuti intimi.
— Perchè si tinge la barba.
— E che cosa c'entra la barba col calendario?
— C'entra benissimo. Vedi: il mese,