Novelle e paesi valdostani. Giacosa Giuseppe

Novelle e paesi valdostani - Giacosa Giuseppe


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l'altro se ne sarebbe compiaciuto, che l'avrebbe respinta, e poi discussa e poi seguita. Allora il sospetto dell'abbandono gli si infisse nella mente e la tardanza del soccorso lo mutò in certezza. In un attimo si vide perduto e la disperazione gli diede una forza immensa. Reggendosi col braccio sano, puntando a forza la gamba sana, si trascinò in mezzo a dolori laceranti fino all'orlo del burrone, e si affacciò all'abisso ghignando di terrore. I camosci erano sempre immobili sulla valanca. Rinacque!

      Che orribile sogno aveva fatto! Ora la salvezza era certa e vicina. Gli pareva perfino di sentire le voci ed i passi dei giungenti, guardava [pg!35] intensamente qua e là tremando per l'imminenza della gran gioia. Che grido avrebbe mandato a vederli! Tutta l'anima sua sarebbe stata per quei valorosi, tutta la sua vita. Ancora un minuto, un minuto... eccoli! Ma come? Di là? Da quella parte?

      Su dal burrone gli era giunto il rumore di pietre smosse e rotolanti. Guardò di nuovo. Due dei camosci erano scomparsi ed un uomo, il Balmet di certo, stava curvo sull'ultimo per caricarselo a spalle. Non lo ravvisò per l'ombra e la distanza, ma non poteva essere che lui. All'urlo ruggente ch'egli mandò a quella vista, l'uomo levò la testa, guardò in alto, poi riprese l'opera frettoloso. Dopo un istante la valanca fu tutta deserta.

      L'ombra era venuta, tutta la valle era scura, il sole fuggiva dai prati e dalle foreste e metteva sulle ghiacciaie all'intorno dei colori dolcissimi di rosa e dei riflessi di un azzurro intenso. Poi anche le ghiacciaie allividivano, i raggi orlavano le supreme vette e dileguavano, e solo laggiù in fondo sul Monte Bianco duravano le carezze della luce. I dorsi nevosi furono ancora per qualche minuto più oscuri che il cielo, ma poi questo prese un colore cinerino e la neve spiccò più netta e più luminosa di esso; poi nel cielo sereno brillarono le stelle, la via lattea [pg!36] fu la maggiore bianchezza e la valle rimpicciolita perdette ogni forma.

      La gran conca di Cogne fu muta e nera come un sepolcro.

      Il ferito cominciò a singhiozzare come un fanciullo, poi, furente, si diede ad urlare con voce di dannato. Chiamava, imprecava, pregava, mandava suoni senza nome, fremeva, taceva sfinito, ricominciava più feroce, finchè gli urli tornarono grida umane, e le grida lamenti acutissimi, ed i lamenti gemiti spossati e sommessi. Poi la voce gli mancò anche a quelli. Allora si mise a guardare nell'ombra dinanzi a sè, immobile, istupidito.

      La mattina era ancora vivo: il giorno gli tornò qualche speranza remota, e sovratutto una lucidezza nettissima di mente. Del Balmet era inutile sperare; ma le guardie fatto il colpo erano forse discese a denunziarlo e l'autorità sarebbe certo salita a cercare di lui. Volendo serbarsi in vita per quell'attesa, tornò a trascinarsi fino al luogo dove il Balmet lo aveva deposto e dove egli la sera prima aveva lasciato quel po' di provviste che aveva. Fu una fatica lunga e dolorosa.

      Là addentò senza voglia la carne salata, bevve qualche sorso di acquavite e gli parve tornare in forze. Le piaghe non davano sangue ma cuocevano gonfiando, la coscia specialmente era divenuta grossa e tirava la pelle fino a crepolarla. [pg!37] Gran lavoro seguiva là dentro! Sentiva tutti i nervi stirarsi, irrigidirsi, poi riallentarsi come corde spezzate, ed una irrequietudine invincibile ed un senso torpido di gravezza gli davano bisogno di muoversi e gli impedivano ogni movimento. La mattinata fu serena ed il meriggio cocente. Il calore del sole gli faceva un gran bene e poi non gli pareva di essere così solo in mezzo alla allegria dei suoni. Ma le ore passarono, passarono senza che alcuno giungesse. Un branco di camosci scese placidamente dal ghiacciaio, saltellò sul nevato. Alcuni dei più arditi si accostarono a lui, fiutarono insospettiti che fosse quel corpo scuro e poi rinfrancati dalla sua immobilità gli furono quasi sopra finchè egli con un gesto del braccio sano li impaurì e li mise in fuga. Erano forse gli scampati del giorno addietro.

      A poco a poco una stanchezza molle, quasi dolce lo aveva preso per tutte le membra, non soffriva più che di sete, perchè l'acquavite non faceva che stimolarlo ed egli aveva finito di raspare tutta la neve che gli stava a portata; ma nulla al mondo gli avrebbe fatto tentare un movimento che lo disadagiasse. Prese un sassolino e lo tenne in bocca per promuovere la saliva e intanto seguitava a guardare diritto dinanzi a sè nell'aria e per la valle dove il verde dei prati [pg!38] gli riposava la vista. Non sperava più, non si lagnava più, non pensava più. Era in uno stato delizioso di morbidezza e se fosse venuta gente a levarlo di là, li avrebbe pregati di lasciarlo solo così com'era ed immobile.

      Verso l'ora del tramonto qualche leggiera nuvola spuntò dalla parte del Gran Paradiso; poco dopo altre nuvole scavalcarono le vette da ogni lato e si allargarono radendo la montagna, strisciando lungo le roccie con serpeggiamenti lascivi, lacerandosi alle foreste. Altre sbucavano dai valloni con aria sospettosa: esitavano un istante come paurose di essere avvertite e poi correvano a congiungersi alla gran fiumana grigia che oscurava il cielo sulla valle. Nei seni, delle nebbiuzze sottili filavano su per le strette velocissime, come succhiate da qualche enorme bocca aperta nel cielo. Poco alla volta la conca fu chiusa tutto intorno, come da un immenso coperchio; solo laggiù sul Monte Bianco rideva una gaiezza di cielo sereno con luci azzurre color di viola, di rosa e di un giallo ardente.

      Il Rosso fissava quel solo punto luminoso con una intensità da maniaco. Gli pareva che tutto quell'accumularsi di nembi fosse inteso a suo danno; le nuvole erano nemici che volevano accerchiarlo e soffocarlo. Ma il Monte Bianco vegliava alla sua salvezza e gli diceva di confidare, [pg!39] di non si muovere, che c'era lui, che con un soffio avrebbe sbarazzato il cielo tornandolo pulito come uno specchio. La lotta fu lunga ed accanita. Le nuvole s'accavallavano, si addensavano, diradavano, fuggivano, tornavano con moti convulsi, rigando il cielo di righe bianche esilissime, sporcandolo con grosse macchie grigiastre e color di piombo. La sete gli cresceva, era divenuta ardente, insopportabile, ma egli non poteva muoversi, sempre fisso nella raggiante gloria della grande montagna.

      La campana di Cogne suonò l'Ave Maria, le nubi vinsero, il Monte Bianco fu velato ed il Rosso chiuse gli occhi; morto.

      Il cielo s'abbassò fino a toccarlo! nella valle pioveva fitto e lassù sulle alture della Nouva, intorno al cadavere cominciò una battaglia di neve rabbiosa e cristallina che si risolvette poi in larghe falde, fioccanti silenziose a perpendicolo.

      Le donne degli alti villaggi intanto accorrevano alla chiesa e bisbigliavano fra loro di spiriti che la notte innanzi avevano empita di grida e gemiti la valle. [pg!40]

      [pg!41]

       Indice

      Ebbi una volta per guida uno strano uomo irrequieto e verboso, così dissimile da tutti gli altri del suo stato, che la prima metà della strada andai sempre cercando meco stesso un pretesto plausibile per tornar indietro e la seconda, devo dirlo, rimproverandomi di averlo giudicato male. Il modo con cui mi s'era offerto, il suo contegno, lo sguardo, il vestire, il passo, l'accento e perfino la forza erculea veramente straordinaria, tutto in lui m'era argomento di grave sospetto. Ero all'Albergo del Giomen, al Breil in Val Tournanche, e volevo recarmi in Val d'Ajaz all'albergo [pg!42] del Fiery dove avevo dato la posta a parecchi amici. Per il Colle delle Cime Bianche, che è il passaggio più diretto, ero passato altre volte, e poichè quello richiede otto buone ore di cammino, tanto valeva allungarla di tre o quattro, toccare il piccolo Cervino, una delle più mansuete vette del Monte Rosa, e scendere poi da quello in valle d'Ajaz.—Ma, avendo la valigia piuttosto greve, occorreva trovare un mulo che per le Cime Bianche me la portasse al Fiery ed una guida per me.—Ora di muli non ce n'era pur uno e la sola guida che si trovasse, uno svizzero di Zermatt, non voleva saperne di portar peso. Era dunque in pericolo, non solo la vagheggiata escursione al piccolo Cervino, ma altresì il mio passaggio più diretto per giungere al convegno.

      La vigilia del giorno che dovevo partire, stavo all'imbrunire sull'uscio dell'albergo, guardando inquieto verso le praterie che salgono al San Teodulo, caso mai capitassero guide o portatori di ritorno, quando venne il padrone a dirmi di aver trovato il mio uomo.

      —L'avete mandato a cercare?

      —È qui.

      —Quando è arrivato?

      —Ora.


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