Novelle e paesi valdostani. Giacosa Giuseppe
che mi troveranno. Aveva una facondia abbondante e collerica, come di un uomo persuaso di qualche persecuzione continua ed accanita; spezzava il discorso e saltava da un soggetto all'altro come spinto da un tumultuoso getto d'idee e pauroso di smarrirle discorrendo. Aveva certo qualche acerrimo nemico che governava misteriosamente tutti gli atti della sua vita; tutti i suoi discorsi mettevano capo a quello e precipitavano in minaccie indeterminate ed oscure, profferite ridendo, coi denti stretti, i denti bianchissimi e saldi, capaci di spezzare uno scudo. E nel fondo degli occhi gli tremava una inquietudine timida ed umile che contrastava colle violente [pg!50] parole e aveva finito per rassicurarmi interamente. Anche di questo si avvide, e quando gli offersi un sigaro mi disse:
—Lei ha pensato male di me. Non sono un birbante, venga qui e capirà tutto.
Eravamo ai primi nevati. Il canale s'era allargato e la montagna intorno non aveva un filo d'erba. Era tutta una rovina di massi giganteschi, gran dadi rocciosi lucenti come un metallo, mezzo affondati in un terreno sabbioso, molle per la neve sciolta di fresco e per gli scoli del ghiacciaio. Mi condusse per mano nel labirinto finchè giungemmo ad una specie di grotta formata da due massi che contrastavano puntellandosi a vicenda. Entrò nel cavo carponi e ne uscì con un pacco di poche libbre di peso, involto in stracci laceri; lo sciolse e ne trasse sigari e tabacco. Era un contrabbandiere. Scendendo di Svizzera, disseminava la sua mercanzia in tanti nascondigli diversi, perchè, se mai, non avesse a cadere tutta nelle mani delle guardie. Come ebbe rifatto l'involto, lo ripose nel fondo e tornò a me col viso rischiarato e fidente. Ora che il suo secreto era stato lui a dirmelo, non temeva più di me.
—Questo è il più alto magazzino; le guardie non salgono mai sin qui, sanno che a queste alture non c'è più pastori che possano far da [pg!51] testimonio occorrendo, e che qui comando io.
E questo è il mio aiutante di campo, aggiunse, togliendo, da una fenditura lì presso, una carabina da doganiere.
Il contadino non può persuadersi che il contrabbando sia una azione colpevole, il suo senso morale non arriva alla nozione degli artificiali diritti dello Stato. Sa che il rubare e il far violenza nel prossimo sono atti disonesti, ma non può concepire per disonesto il comprare un oggetto là dove lo si trova a miglior mercato, e lo smerciarlo dove lo pagano caro. La proibizione di un traffico tanto naturale gli pare una prepotenza intollerabile, contro la quale non solamente è lecito, ma meritorio ribellarsi. Di qui un odio violentissimo contro le guardie e il fermo proposito e la fredda capacità di fare a schioppettate se occorre. Le guardie lo sanno e bene spesso quando incontrano il contrabbandiere in luoghi aspri e deserti, se non sono in tale numero da schiacciarlo o se non presumono alla mercanzia frodata un valore eccezionale, fanno le mostre di non avvertirlo e passano guardando dall'altra. Un colpo è presto tirato e a quelle alture un cadavere è agevolmente e durevolmente trafugato. La guardia non torna in quartiere, i sospetti cadono sul vero omicida, partono drappelli e frugano per le gole in traccia del morto, [pg!52] ma prove salde non ne raccoglie nessuno. Sull'Alpe alta c'è sempre qualche voragine aperta a comodo degli avvocati difensori.
La mia guida s'era trovata una volta, inerme, sotto il tiro di due doganieri e n'era scampata per miracolo. Un'altra volta aveva fatto smottare dall'alto, non visto, una frana di sassi addosso a due guardie che salivano la ripa e una di esse, scappando, aveva perduto la carabina.
—Quella carabina che le ho mostrato,—aggiungeva Jacques, con un piglio trionfatore.—Ma che vitaccia! E il guadagno è poco, sa.
E mi raccontava le traversate notturne, d'inverno, solo per le ghiacciaie mortali, carico come un mulo, le tormente che lo assalivano, lo flagellavano a sangue, e lo tenevano immobile, rannicchiato sotto un antro di rupe, pauroso di soccombere al sonno traditore della montagna, il sonno gelido, invincibile avanguardia della morte. Oh egli li conosceva quei valichi, passo a passo, ne aveva contate tutte le roccie e aggirati tutti i seni e misurata la bocca di tutti i crepacci e tastata tutta la crosta nevosa che li scavalca in forma di ponte. Sapeva dove si può agganciare l'occhio della fune per calarsi lungo gli scoscendimenti levigati della rupe, e dove la sporgenza rocciosa basta al passo, e dove il monte, frantumato dai fulmini e roso dalle acque, [pg!53] cede al minimo peso e precipita in lavine micidiali. Nessuna guida poteva stargli a paro. A lui non occorrevano corde per traversare il ghiacciaio, nè bastone ferrato per reggervisi. Misurava i salti e li spiccava coll'occhio e il piede sicuri del camoscio.
—E sa perchè ho voluto accompagnarlo? Se lei non mi ci voleva, ci salivo lo stesso, oggi, a questi piani. Oh non tema, che non faccio contrabbandi in sua compagnia, non lo metto a nessun rischio. Ma un mio parente, che s'industria con me allo stesso traffico, manca di casa da otto giorni. L'avevo lasciato a Zermatt, otto giorni or sono, e doveva tornare l'indomani. Io lo seppi solo ieri sera che non era tornato. Ciò m'inquieta. Di questi giorni nevicò due volte sulle vette, e d'estate chi dice neve dice burrasca. Bisogna bene che cerchi di lui; ma sono povero e ho molta famiglia, non posso perdere le mie giornate. Cerchiamo insieme: vuole, signore?
Non posso dire quanta dolcezza supplichevole c'era in quelle parole: Vuole, signore?
Sicuro che volevo, anche a costo di passarci due giornate volevo; al piccolo Cervino ci sarei salito un'altra volta, perchè sulle vette era inutile cercare.
Sul ghiacciaio, che, valicato appena il Teodulo, sale verso il Breithorn, trovammo delle peste.
[pg!54] —Sono le sue,—disse Jacques;—sono peste di cinque o sei giorni e di un uomo solo; combinano. Speravo che fosse rimasto a Zermatt; se è salito è morto.
Seguitammo le peste per oltre un'ora, ma giunti al piano superiore, ne smarrimmo ogni traccia; era nevicato di fresco e la neve era tutta vergine e piana. Dopo avere aggirato senza frutto tutto quanto il ghiacciaio, verso l'imbrunire ci cascò l'animo e la forza. Giungemmo all'albergo del Fiery verso le undici di sera. La casa era tutta scura e silenziosa, ma l'oste doveva essere di sonno leggiero, perchè, appena la mia guida l'ebbe chiamato per nome, si affacciò ad una finestra e disse:
—Sei tu, Jacques?
—Sì, apri.
L'oste senza muoversi replicò:
—È là dietro la casa vicino al fienile; ora scendo.
Jacques fu di un salto al luogo indicato, ed io lo seguii tastoni. Prima che l'oste giungesse, avevo acceso un cerino e vedemmo coricato su di un trave un sacco chiuso alla bocca, pieno, ma tutto gobbe e rilievi. Jacques capì, io indovinai al gesto ch'egli fece; in quella giunse l'oste.
—L'hanno portato stassera, le guide di Gressoney lo trovarono ieri sul ghiacciaio d'Aventina; [pg!55] oggi salirono coi pastori a pigliarlo. Domani verrà il pretore per l'atto. Era seduto sulla neve, i piedi neri per la cancrena: la tormenta lo ha preso e fermato, il freddo gli ha dato la cancrena ai piedi, dovette sedere e si addormentò.
Jacques aperse il sacco, lo rimboccò fino a scoprire la testa del morto, lo baciò sulla bocca gli fece un segno di croce col pollice, sulla fronte, poi richiuse il sacco e disse all'oste:
—Dacci da cena, questo signore muore di fame. [pg!56]
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MISERERE
Memorie di viaggio.
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