Novelle e paesi valdostani. Giacosa Giuseppe

Novelle e paesi valdostani - Giacosa Giuseppe


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che essa attiri l'indurito briacone alla preghiera, colla promessa di abbondanti libazioni, che gli affretti la morte in questo mondo per assicurargli il perdono e la salvezza nell'altro.—Ma io sono un romantico impenitente e forse calunnio quella disgraziata.

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       Indice

      In val di Cogne presso il Gran Paradiso, che è il maggior gruppo di montagne interamente italiano, c'è una delle più ricche miniere di ferro di tutta Italia. Delle più ricche, non delle più produttive, perchè mentre il minerale vi si trova quasi allo stato nativo, il suo giacimento è in posizione così elevata e così discosto dalle strade carreggiabili da renderne disagevole e costosissimo l'esercizio. Perciò, deluse più volte le speranze e stancata la costanza dei suoi cultori, abbandonata e ripresa secondo fioriscono o stagnano le altre industrie paesane, la miniera di [pg!74] Cogne, che sarà un giorno la prima ricchezza di quei luoghi, è ora il segno a cui riconoscerne gli alterni gradi di miseria, l'ultima disperata risorsa nelle annate cattive.

      Collocata pressochè in cima di una montagna chiamata la Creia, gli alpigiani vi salgono per un interminabile sentiero fra boschi e prati, e ne scendono, anzi ne precipitano i carri del minerale per una stradaccia spaventosa, simile ai canaloni che i grossi massi incidono rovinando per l'erta e squarciando il terreno.

      Il luogo ha l'austera bellezza dei bei luoghi alpini. Ai piedi, nella valle quieta e verde, la chiesa e gli sparsi casolari di Cogne: dirimpetto, la mole del Gran Paradiso e le ghiacciaie della Tribolazione, a sinistra la scogliera color di rame della Nouva, a destra la Grivola curva e tagliente come una scimitarra, e dove la valle di Cogne scende in quella d'Aosta, laggiù nel fondo lontano, irradiante splendori, la vetta sovrana del Monte Bianco.

      La miniera di Cogne non spinge gallerie nel monte e non vi affonda pozzi; non è oscura nè afosa. La vena essendo a fior di roccia questa è scavata a grotta colla bocca smisurata aperta al sole. Dal prato si vedono gli atteggiamenti e i movimenti dei minatori. Nella grotta spaziosa e chiara, ogni operaio attacca la roccia a capriccio [pg!75] dove le asperità e le screpolature prodotte dagli scoppi del giorno innanzi, danno più facile presa al piccone o agevolano l'azione dello scalpello, dove non batte il sole o cala il vento o sporgono scaglioni o non stagnano acque. A misura che la caverna va internandosi, allarga la bocca e inghiotte più aria e più raggi. La montagna assalita in poco spazio in varî punti, mostra tutte insieme le sue immani ferite, le pareti scabre gettano ombre e spezzano raggi, hanno faccie lucentissime di diamante e fenditure sottili come tagli di lama affilata. Gli assalitori, tutti in vista, danno per il numero l'idea di un accanimento rabbioso, di una smania di farla presto finita; mentre altrove la disciplina li assimila a macchine, qui la libera elezione del punto dove percotere fa apparire l'opera di ognuno quale essa è veramente, volente e cosciente: essi sanno dove la gran vittima inerte ha la fibra meno tenace, dove un sol colpo più squarcia e più ne morde le viscere e quivi infuriano a mazzate che li fanno gemere, che fendono l'aria sibilando, e ad ogni colpo, lo scalpello respinto dalla durezza del fondo erompe crocchiando dall'unta petrosa guaina.

      La mattina il sole vi giunge tardi.—La caverna puzza ancora di polvere per le mine scoppiate la sera innanzi: i guazzi stagnanti nel fondo [pg!76] hanno una crosta di ghiaccio anche nei giorni della canicola. I minatori smarriti nella penombra invernale si confondono colla roccia, sembrano macchie grigie sul fondo grigio; l'uniformità del colore attenua la violenza dei movimenti e li fa parere pigri come di persona intirizzita. A quell'ora il lavoro sa di pena, una pena lunga ed oscura che sconti qualche grave colpa tenebrosa. Martellano in silenzio: questi solitari a colpi di piccone, quelli appaiati reggendo uno colle due mani il ferro da mina e l'altro affondandolo a mazzate. A vederli dalla bocca della grotta, i loro movimenti hanno una rigidità automatica. A ogni colpo di mazza, quegli che regge il ferro, abbassa le palpebre e gira di fianco la testa come fanno i malinconici magot chinesi, e l'atto è così normale, e combina con tanta precisione col piombare della mazzata che par di sentire scricchiolare il congegno che lo produce.

      L'alba li raccoglie e l'aurora li trova al lavoro. E via per dell'ore, muti, instancabili, senza un minuto di posa, perchè il gelo non incolli loro alla pelle la camicia inzuppata di sudore. Intorno, la montagna è deserta. Le mandrie del vicino casolare cercarono i pascoli soleggiati e da quelli mandano ai reclusi lo scampanellare dell'accordo e i muggiti dati al cielo aperto e ai rinascenti tepori. Come tarda il sole! Sulla [pg!77] montagna di rimpetto, le cime le roccie, i nevati, le ghiacciaie, le foreste, ne ridono tutte e si scaldano e fumano di vapori mentre là nell'antro impigrisce il crepuscolo mattinale e i colpi delle mazze d'acciaio battono i minuti delle ore eterne. Gran cammino e grandi faccende deve fare il sole prima di giungere alla miniera! Deve scendere passo passo la costa orientale della montagna dirimpetto, calarsi per le ghiacciaie, filtrare nel fitto delle pinete, incidere le forre, inargentare i neri dirupi. Poi, come la valle lo attira, deve cercarne il fondo, accendere come un faro la punta del campanile, increspare i raggi sul tetto della chiesa tutto ondato di muschi, nelle case che gli protendono la facciata petrosa rigare di strisce dorate il buio afoso delle stanze e fare incandescente l'acqua del fiume che la notte lasciò grigio ed opaco e suscitare faville e colorire iridi nelle cascate. E poi ancora, inerpicarsi su per l'erta occidentale della Creia e toccarne la cima quando già da per tutto è vinta la mattutina temperanza di vapori. Allora, quando il primo filo luminoso orla il margine dell'altipiano dove giace la miniera e sembra una biscia lunghissima che lo fasci, i minatori smettono l'opera dopo cinque ore di fatica e lasciano la grotta per sdraiarsi sfiniti nella piena luce del sole.

      [pg!78] D'allora in poi la giornata è gaia e l'opera lieve. Col sole entrano nella caverna i canti, le risa, le chiacchiere che ingannano la fatica e la lena che la sostiene. E come un quotidiano rifiorire di primavera, e un quotidiano rinnovarsi di giovinezza. Gli operai ne hanno stenebrata la mente e rinvigoriti i muscoli. Allora il lavoro diventa verboso; l'aria intepidita concede le soste riposatrici; la luce, rilevando le asprezze della roccia, mostra quanta sia l'opera compiuta, scrive quasi sulle pareti il còmpito della giornata. E via a picconate sulle creste sporgenti; le scaglie volano per l'aria e vanno fuori ad uccidere qualche erba fiorita, i massi rotolano nelle pozze squagliate del fondo e spruzzano intorno i vicini. Tra un colpo e l'altro, vanno e vengono da un capo all'altro della grotta, come spola attraverso il telaio, le arguzie ed i motti salati; ogni atto, ogni gesto, la durezza della roccia, gli strumenti del lavoro diventano argomento di osservazioni grottesche ed oscene, termini di paragone che mettono capo agli erotici misteri della cronaca paesana. Trilla per l'aria qualche brandello di canzone riportata da lungi dal reggimento: cadenze di tarantelle napoletane che vanno a morire nelle gravi nenie di una complainte valdostana.

      La mandria è tornata al pascolo vicino. Di [pg!79] quando in quando una mucca domestica viene a piantarsi sulla bocca dell'antro e guarda cogli occhioni giudiziosi la dura opera dei minatori. Guarda scodinzolando e medita seco stessa quale possa essere la ragione di quel grande affannarsi che vede e quando l'ha trovata, protende il muso e lancia ai barbari che struggono la montagna un muggito di rimprovero, come a dire: vergogna! vergogna!—Poi torna nella sua saviezza al pasto odoroso che non le costa fatica. Così passano le bianchezze meridiane, finchè il sole ripaga la grotta del suo tardo apparire.

      Adesso tocca alla montagna dirimpetto, il cruccio dell'ombra e l'invidiosa vista dell'altrui splendore. Sulla sua costa orientale le ghiacciaie allividirono; le navate della foresta videro acciecarsi i grandi occhi lucenti che le rischiaravano; le forre, colme di tenebre, si livellarono ai fianchi; i dirupi argentati ripresero la tinta nera e giù nella valle si spense il faro del campanile, e la chiesa, le case, il fiume rimpiccioliti si immersero nella notte. La Creia intanto dà la sua faccia gloriosa al sole e la grotta rosseggia di una luce infernale. Dal corpo dei minatori s'allungano sulle pareti e salgono fino a mezza la vôlta, grandi ombre mobili che hanno atteggiamenti e movimenti di gigante. Questa volta la montagna è alle prese coi ciclopi e la battaglia infierisce [pg!80] furibonda. Le ciarle tacquero di nuovo, e le risa e le canzoni; nessuno più guarda l'opera dei compagni nè medita la propria. Martellano accaniti, sicuri di ogni colpo, i muscoli tesi, raccogliendo nel braccio tutta


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