Impressioni d'America. Giacosa Giuseppe
grandezze passate è cagione di errori, di vanità, d'ingiustizie, di prepotenze, di miserie; di eccidi presenti. Hanno ragione? Hanno torto? Chi lo può dire? E che giova cercarlo? Nessuna forza umana potrà far mai che quello che fu non sia stato, ed essi vanno ora edificando storia e tradizioni ai loro nepoti.
Certo a noi il noblesse oblige fu spesso causa nella vita privata e nella pubblica, di commettere azioni a criterio morale disoneste, a criterio politico pazze e crudeli, a criterio sociale o ingiuste o ritardatrici di giustizia. Ma eliminato il pregiudizio, ma vinta la vanità, ma fatto ragionevole l'ossequio, ma francate dall'ossequio le attività creatrici, chi vorrebbe soffocare le larghe pulsazioni della vita umana considerata nella continuità dei secoli? Certo la intemperanza estetica degli americani e la loro incontinenza nella fruizione della ricchezza, conseguono in molta parte dal silenzio del loro passato e dallo scarso loro patrimonio ideale. Nessun tesoro di miliardari può dare le gioie incontrastabili che proviamo passeggiando per una chiara notte sulla piazzetta di San Marco e rievocando dal palazzo dei Dogi i fantasimi della storia.
Ma quel difetto di storia, che a molti spiriti delicati d'Europa renderebbero quasi insopportabile il soggiorno del nuovo mondo, gli americani non lo possono nè lamentare nè avvertire. Essi stanno, rispetto a noi, come un uomo che non ama rispetto ad uno innamorato. A quello non par possibile che un essere ragionevole smarrisca la nozione della vita presente e delle cose che lo circondano, ed il senso dell'utile per i begli occhi di una donna che lo lasciano lui, freddo ed indifferente. A questi non par possibile che altri possa vivere senza amare e senza amare quella per l'appunto che a lui solo par donna. Noi siamo, rispetto all'arte degli americani, e parlo qui in modo speciale dell'architettura perchè è la sola dove essi abbiano conseguito una vera personalità, nelle identiche condizioni in cui si trovava il Vasari rispetto all'arte gotica; il quale ne chiamava maledizione di fabbriche, i prodotti. Diciamo subito che i nuovi saggi architettonici d'oltre oceano, non incontrano neanche in America la generale approvazione, e neanche quella del maggior numero. Ma i dubbiosi ed i dissenzienti, non condannano: stanno a vedere, persuasi che ai primi informi tentativi seguiranno vere e sicure opere d'arte originali e pratiche. A noi europei quelle moli scomposte danno un senso di apprensione e di inquietudine, senza indurci nello sgomento estetico e grandioso. L'immenso fabbricato dell'Auditorium di Chicago, dove c'è un albergo per un migliaio di avventori, una quantità grande di banche e di scrittoi d'ogni maniera, il Conservatorio di musica e, non ricordo se al sesto o al settimo piano un teatro capace di ottomila persone, fa più meraviglia a sentirne enunciata la capacità che a vederlo. La sua vastità manca di grandezza. La vastità non è e non può essere elemento d'arte. Lo è la grandezza che risulta dalla coordinazione delle parti. Può riuscire cento volte più grandioso un edificio cento volte più piccolo.
New-York non accolse ancora quelle babeliche moli che in Chicago assaltano il cielo con una temerità che sa di pazzia. Ma già i maggiori giornali s'insediarono in esili casoni giganti nei quali la comodità e la speditezza dei servizî sono sacrificate alla smania di sorpassare i vicini. In luogo di distendersi in piano, quegli edifizî si affilano in torri, onde le comunicazioni fra le diverse parti richiedono un continuo moto di ascensori. Tutte le colossali fabbriche di New-York hanno porte basse e tozze che il sovrastante edificio schiaccia ridicolmente, e piani soffocati. I due piani del palazzo Tolomei di Siena, ne darebbero otto di questi. Certe case di quattordici piani, non misurano una volta e mezza l'altezza del palazzo Strozzi. Curano bensì di mentire la frequenza degli scomparti per via di finestroni che salgono dal primo al quarto piano, ma quel vedere dalla strada, nell'altezza di una sola finestra, tre metri uno sopra l'altro, tre signori, seduti a tre scrivanie e persone e mobili quasi sospesi nell'aria ed appoggiati ad una parete trasparente, induce un senso d'inquietudine irritante. Dove posano i due piani intermedî? Se ci stanno e reggono pesi, si capisce che hanno base sufficiente; ma se la scienza costruttiva si appaga della stabilità reale, l'arte architettonica vuole anche l'apparente perchè l'occhio ha la sua logica. Non nego che la nostra estetica architettonica s'informi ai massicci e grossi materiali costruttivi durati in uso per tanti secoli. Già la nozione razionale e sperimentale che abbiamo della stabilità, va conciliandosi colle forme snelle consentite dai materiali metallici: ma i sensi impigriti della secolare abitudine, sono più tardi della ragione, e non sempre quello che ci persuade li appaga.
Nel disgusto che ci danno quelle nuove forme, interviene dunque un resto di pregiudizio che sarà bene combattere e che andrà per necessità di cose scomparendo di per sè stesso. E scomparirebbe più presto se l'architettura ferrea di quei novatori fosse più sincera. Ma essa edifica col ferro e mentisce muri d'apparato. Noi ammiriamo con viva compiacenza estetica, i ponti sospesi e le immense arcate delle stazioni, dove la membratura ferrea ci appare schietta nella sua robusta sottigliezza. Perchè le fabbriche non si darebbero anch'esse per quello che sono? Non c'è vera originalità senza schiettezza.
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