Pagine sparse. Edmondo De Amicis

Pagine sparse - Edmondo De Amicis


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questo consiglio, mi svegliai qualche volta con una così profonda ripugnanza per lo studio e per la casa, che scappai come un frenetico, corsi alla campagna, camminai tutta la giornata, dormii in un villaggio, e non tornai in città che il giorno dopo come torna un forzato alla galera. E non bisogna tuffarsi intero negli studî, anche per non perdere ogni attitudine alla vita sociale. Chi sta troppo solo, non più usato a tollerare i difetti dei suoi simili, a far sacrifizî d'amor proprio, a soffrire degli attriti spiacevoli, quando poi ritorna in mezzo alla gente si sente urtato e punto in mille modi, da mille parti. E va qualche volta tant'oltre questa sensitività penosa, da renderci insopportabile la più leggiera contraddizione. Nello studio solitario l'amor proprio ingigantisce; l'io diventa formidabile. Le nostre fatiche eccessive par che ci diano il diritto, — qualunque sia il frutto che ne ricaviamo, — di tenerci da più degli altri. Assuefatti nel nostro piccolo mondo a regnar da principi assoluti, portiamo anche fuori di esso le pretensioni e le arroganze principesche. Bisogna andar sempre fra la gente per farsi rintuzzare le corna dell'orgoglio.

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      Una volta stetti tre mesi di seguito chiuso in casa a studiare, dalla mattina alla sera, non uscendo che un po' dopo desinare per pigliare una boccata d'aria. Facevo la colazione alla Franklin, bevevo appena un bicchier di vino al giorno, non fumavo, mi levavo la mattina all'alba. Volli esprimentare fino a che punto di elasticità e di forza si potessero condurre le facoltà mentali, e che miglioramento si operasse nelle morali, rifiutando al corpo tutto quello che infiacchisce le une e corrompe le altre.

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      I frutti del primo mese e di mezzo il secondo furono ammirabili. Sentivo la verità di quella sentenza del Rousseau: — Un giovane che vivesse in questa maniera fino a venticinque anni, schiaccerebbe poi facilmente tutti gli altri. — La memoria mi s'era fatta più facile e più tenace; capivo a volo cose che prima mi davan da pensare un'ora; idee che pel passato mi si svolgevano nella mente come un filo sgomitolato a fatica, ora scoppiettavano tutte insieme, al menomo tocco, come un nuvolo di scintille; ragionando, sentivo che andavo più addentro; parlando, dovevo fare uno sforzo per contenere la piena delle parole che volevano prorompere. Poi, per quello che riguarda il sentimento, valeva addirittura il doppio. La commozione che mi dava la lettura delle cose poetiche, era più pronta e più durevole. Leggendo ad alta voce certi versi, mi sfuggivan persino delle grida. Mi rendevo ragione di certi esaltamenti, che m'erano parsi fino allora inesplicabili, di artisti, o di uomini nati per essere artisti, che alla lettura di certi libri erano stati presi dalla febbre, avevan dato in voci e in gesti da spiritati. E di tutti gli effetti di quella maniera di vita, quello che mi colpiva di più era questo: che il mio pensiero tendeva sempre a andare in su, a smarrirsi fuori del mondo. Per ore e ore non facevo che fantasticare intorno agli astri, all'immortalità dell'anima, all'infinito. Mi ero chiuso la porta di casa, scappavo pel tetto. Ma, in complesso, il miglioramento era grande.

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      Il terzo mese fu un mese di lotta, e finì colla mia sconfitta. Mi parve che la mia intelligenza diventasse inerte e la mia memoria s'intorbidasse. Rimaneva la commovibilità, ma era giunta al segno da potersi chiamare piuttosto irritazione morbosa che vigore sano di sentimento. Ero diventato stravagante. A volte, smettevo di leggere, per far dei giuochi di forza colle seggiole, fin che sgocciolavo di sudore. Sovente mi mettevo davanti allo specchio e discorrevo con me gesticolando e ridendo. Ebbi perfino paura che mi desse un po' volta il cervello. La mia padrona di casa mi diceva spesso: — Ma che vita la fa, caro signore? — L'ultima settimana non studiai quasi affatto. Eppure non volevo cangiar vita. Era una picca d'amor proprio. Avevo detto agli amici che non mi sarei più fatto vedere; non m'avean creduto; volevo spuntarla. Finalmente, una sera, irruppero in casa mia alcuni compagni del buon tempo, mi chiusero i libri, mi misero il cappello, mi cacciaron fuori a spintoni, e fu finita. Dopo d'all'ora passai due mesi quasi nell'ozio: solita conseguenza di queste pazzie di solitudine. Ma il primo giorno la pagai cara. Svegliandomi non mi ricordai subito della scappata della sera, e corsi col pensiero alla vita di prima. Allora il ricordo saltò su, vidi i miei bei propositi andati in fumo, la catena dei miei sacrifizî spezzata, tutto l'edifizio innalzato nella solitudine, in rovine; e mi sentii oppresso da una grande tristezza, come una fanciulla alla quale fosse stato tolto a tradimento il diritto di portare quel nome.

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      Il miglioramento che s'era operato in me in quel primo mese di vita austera, mi fece persuaso di questa verità, che bisognerebbe pestar bene nella testa a tutti i giovani: che, cioè, noi non ci accorgiamo del danno che fanno all'intelligenza e al cuore i disordini giovanili, anche quelli che paiono, per la loro natura e per la loro misura, più perdonabili; ma che ne fanno, ne fanno, ne fanno. Un giovane d'ingegno vivacissimo e di vita disordinata, col quale un giorno mi trattenni su questo argomento, diceva: — Sì, ammetto, si reggerà un po' meno al lavoro, si scriverà cinque ore invece di dieci; ma l'ingegno non ne può soffrire; un uomo d'ingegno riman sempre un uomo d'ingegno; il lavoro della creazione artistica non può essere turbato. — E che ne sai? gli domandai. Puoi tu accorgerti di tutte le piccolissime alterazioni che si producono nella misteriosa macchina del pensiero? Puoi dire, quando ti si desta nella mente quel tumulto d'idee che precede l'ispirazione, puoi dire che non se ne desterebbe nessuna di più, se il giorno prima non avessi disordinato? Si citano i grandi scrittori che han menato una vita disordinata. Ma chi può dire che i cattivi versi e le pagine scipite che sono uscite anche dalla loro penna, non corrispondano appunto a quei giorni della loro vita in cui non vissero come dovevano? Sappiamo noi se, vivendo in un'altra maniera, non avrebbero fatto un'opera completa di ciò che ci hanno lasciato in frammenti?

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      Un giovane che stia solo, se studia, se riman molto in casa, non solo finisce per amare la sua casa, ma per rispettarla; e molte cose che prima non gli parevano, gli paiono dopo una profanazione. Fra quelle quattro pareti dove avete provato tante nobili emozioni, leggendo, scrivendo, fantasticando creature eccelse e grandi amori, vi ripugna, vi umilia lasciar penetrare qualcuno per cui i vostri studî, il vostro ingegno, la parte più eletta di voi, è un argomento di riso o un mistero.

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      La gioia che viene dalla fatica è grande, e grande quella che viene dall'ingegno; ma più grande senza paragone è quella che viene dalla fatica dell'ingegno. — Io lavoravo da quasi un anno intorno a quel soggetto; non avevo mai fatto, sopra un soggetto unico, un così lungo lavoro; e perciò mi pareva assai più lungo di quello che ora mi parrebbe. Quando s'ha la penna facile, e molte cose belle da dire (o se non belle, liete), pare che lo scrivere dovrebbe essere un godimento, che la giornata dovrebbe riuscir breve alla furia dell'opera, che l'ora del lavoro dovrebbe essere aspettata con desiderio impaziente. Eppure, erano appena due o tre giorni ogni quindici quelli in cui mi mettevo a tavolino volentieri e scrivevo di vena; tutti gli altri giorni pigliavo la penna collo stesso animo col quale lo schiavo afferra lo strumento del lavoro che lo rifinisce. Certi giorni avrei preferito vangare, spaccar legna, e portar sacchi come un facchino, piuttosto che scrivere. Rimandavo d'ora in ora il momento di cominciare, cercando mille pretesti, come per ingannare me medesimo; e talvolta, per salvarmi dal rimorso di quell'ozio, m'imponevo delle fatiche ch'erano in realtà assai più gravi che quella dello scrivere; come fare una carta geografica, studiare a memoria lunghi squarci di prosa, imparare sterminate filze di vocaboli d'una lingua straniera. Quando non avevo ancora scritto che una cinquantina di pagine del mio libro, mi pareva che, una volta arrivato a metà, avrei tirato un gran respiro e sarei andato innanzi sino alla fine, quasi senza sforzo; e pensavo sempre a quella metà benedetta, come si pensa al termine d'un viaggio pieno di traversie. Ma arrivato che ci fui, non provai nulla di quanto avevo sperato; e rimisi le mie speranze ai due terzi. Quante volte, anche dopo fatto più di mezzo il lavoro, fui tentato di rinunziare a finirlo! Quante volte mia madre, vedendomi in un canto della stanza colle braccia incrociate e gli occhi fissi, mi domandò: — Ebbene, a che punto siamo? — e io le risposi: — Indietro, cara, indietro, e ho paura che non andrò più innanzi! — Mi ricordo che invidiavo mio fratello, perchè impiegato che non aveva che da andare all'uffizio; che invidiavo tanti miei amici


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