Pagine sparse. Edmondo De Amicis
altro che scrivere, non paga il suo debito alla società; e se ad altri pare, a lui non deve parere. Rispondere: — Scrivo — a uno che mi domandi qual è la mia professione, mi pare lo stesso che a uno che mi domandasse: — Che cosa fai costì? — rispondergli: — Respiro. — E chi è questo poltrone che mentre tanta gente migliore di lui suda sangue per guadagnarsi la vita, passa la giornata sur una seggiola a predicar la virtù e ad eccitar gli altri a fare? Lavori il giorno anche lui, e scriva la sera a tempo avanzato. Cacciatelo in un'officina!
— Oh questa poi! — esclamò Teresa tra indispettita e intenerita. — Tutti non possono lavorare colle braccia! —
— Ma io posso! E che credi? Che non mi vergogni qualche volta d'esser robusto? Quando vedo ammontati sul mio tavolo quei cinque o sei libracci che ho scritti, dei quali fra qualche anno non si troverà più il titolo in nessun catalogo di libraio, e penso che ho speso a farli gli anni più vigorosi della gioventù, e che spenderò forse nello stessa modo, e non con miglior frutto, gli anni che mi restano; e poi guardandomi nello specchio, mi vedo un par di spalle da atleta, che so io? sento che c'è una sproporzione fra me e il mio lavoro, un disaccordo, un qualche cosa che non va; mi sento dentro una voce di rimprovero; mi pare come di aver sciupato una trave per fare un bastoncino; e provo non so che bisogno di curvar la schiena sotto dei pesi e d'incallirmi le mani sopra uno strumento.
Teresa gli afferrò le mani.
— Quanti uomini sciupati — continuò Mario — con questo maledetto scrivere! Uomini di un sentire nobilissimo, dotati d'una certa facoltà di trasfondere in altri l'anima propria, forniti d'un sentimento pel bello, parlatori facili, che avrebbero, in un altro campo, acquistato ed esercitato un potere benefico su molta gente.... sciupati! Io per esempio, ch'ero nato per fare il maestro di scuola, a segno che, quando vedo in una stanza quattro banchi e un tavolino, mi sento rimescolare! E non solo il maestro di scuola: sento che sarebbe stata la mia vita l'aver che fare con povera gente, con operai; sento che, se fossi pretore in un villaggio, mi farei fare una statua. E così quando leggo gli scritti di molti miei amici romanzieri, poeti, critici, vedo tra riga e riga le belle facoltà mal impiegate, e penso con rammarico che l'uno sarebbe riuscito un eccellente medico condotto, un altro un direttore di collegio inimitabile, un altro, un avvocato onestissimo e valentissimo. E dico a loro e a me: — Siamo fuori di strada! Tutti fuori di strada per aver preso per nostra dote principale una dote secondaria, che doveva soltanto servire d'aiuto, d'ornamento alle altre; per aver creduto che ciò che non ci dovrebbe occupare se non un'ora al giorno, bastasse a riempirci tutta la vita; per aver considerato come una vocazione quello che non era che una tendenza!
— E quando vedi codesti amici — domandò Teresa sorridendo — lo dici loro che avrebbero fatto meglio a fare i medici condotti?
— Non mi seccare con quel loro, Teresa; di' glielo dici; te n'ho già pregato altre volte.... E che cosa segue da ciò? Segue che, avendo l'ambizione, senza aver la potenza di destare l'ammirazione del paese, diventiamo come gli accattoni che si contentano di quello che gli si dà: ci contentiamo di ispirar la simpatia, la stima, la considerazione, di acquistare la notorietà, la distinzione; e leggerai infatti ogni momento il simpatico, il pregevole, lo stimato, il noto, il distinto scrittore, e altri insipidi e sguaiati appellativi, che pure nella nostra nullità ci fanno sorridere di compiacenza; ma che a spremerne il sugo voglion dire: mediocre, insignificante, impotente, nullo, perchè chi, avendo dedicato la vita all'arte, non riesce che a rendersi simpatico, stimato, pregevole, ha sciupato tempo e fatica. E in fondo all'anima, lo sentiamo anche noi. Per questo, invece di lavorare serenamente e nobilmente, ci affanniamo, facciamo ogni sorta di sforzi disperati per saltar fuori dalla pegola della mediocrità che ci affoga; e buttiamo fuori in furia un libro dopo l'altro, avidi, impazienti, sperando sempre che l'ultimo che stiamo facendo, sia quello che ci porrà sul piedestallo della gloria; supplicando la gente che passa di soffermarsi; gridando al paese: Vòltati, guardami, t'assicuro che ho del genio, dammi tempo a far qualche cos'altro, non profferire ancora l'ultimo giudizio, aspetta, vedrai. — E intanto il vento porta via libretti e libracci, e noi invecchiamo trascurati e dispettosi, finchè un bel giorno si tira il calzino, dieci giornali dicono che s'è lasciato larga eredità d'affetti, e il giorno dopo nessuno pronuncia più il nostro nome. Ecco la carriera degli scrittori simpatici, stimati, noti, distinti; la mia carriera e quella di cento altri campioni della giovine letteratura.
— Ma tutti — disse Teresa, — anche i più grandi, hanno avuto di questi scoraggiamenti!
— Erano altri scoraggiamenti, — rispose Mario; — stanne sicura. Si scoraggivano perchè sentivan la loro opera troppo inferiore al loro ingegno; ma non è che non sentissero l'ingegno. Essi hanno gettato sul mondo i riflessi della luce che brillava alla loro mente, e a noi questi riflessi paion già una gran luce; ma chi può immaginare lo splendore che vedevan loro cogli occhi del genio? Chi sa che portentoso Cinque maggio balenò ad Alessandro Manzoni, prima che si mettesse a scrivere quello che noi conosciamo? Tutti i grandi caddero qualche volta; ma caddero a pochi passi dalla cima della montagna, ed erano già saliti ad un'altezza tremenda. Non cadevan per fiacchezza, cadevano per vertigine. Erano battaglie, nelle quali riuscivano ora vinti, ora vincitori. Ma in me, vedi, non c'è lotta; in me è calma morta. Ai grandi che picchiano alla porta del tempio dell'Arte, qualche volta una voce di dentro risponde: — Non ancora: — A me quella voce risponde: — Via! — Quelli sono pregati d'aspettare, e io sono scacciato come un cialtrone.
Teresa aperse il libro che aveva preso poco prima e finse di mettersi a leggere senza badare alle parole di Mario.
— Leggi, leggi, — continuò Mario sorridendo, — chi si contenta, gode. Intanto io farò un pochino di critica al tuo autore. I suoi personaggi son tutti fantocci che recitano la medesima parte, e non ne vien uno in iscena, che non lasci veder sotto la mano del burattinaio. Tre idee tinte di mille colori; ma non più che tre idee. Un manzonismo annacquato, senza coraggiose affermazioni; un ciondolío perpetuo fra il credo e il non credo; un voler far sentire la cosa senza compromettersi colla parola; una doppia paura di far sorridere i miscredenti e di scontentare le mamme pie; un tirar sempre al cuore, a tradimento, quando si dovrebbe tirare alla testa; e persino nella lingua, la persuasione profonda che si debba dare un calcio alle convenzioni, agli scrupoli grammaticali, alle parole illustri, a tutte le formole della lingua scipita, pedantesca, bastarda, che si parla fuor di Toscana; e la vigliaccheria di non farlo per paura di coloro che combattono la proposta del Manzoni, perchè non vogliono ricominciare a studiare.
— Io non me ne intendo di lingua, — disse Teresa; — non ti so cosa rispondere. Ma per quel ch'è dei fantocci, purchè dicano delle cose buone, che importa se si vede la mano? — Così dicendo, rise e gli prese la mano.
— Dir delle cose buone! esclamò Mario. — Vorrei che tu mi dicessi che diritto ho io di dire delle cose buone, io che non ne faccio, e di metterci sotto la mia firma, come se le facessi. Mi ricordo, pochi giorni fa, quando ti dissi che compivo ventisette anni, tu esclamasti: — Ventisette anni! Hai già fatto molto! — Fatto molto! non ho ancora salvato la vita a nessuno, — non ho mai passato trenta notti di seguito al letto d'un ammalato, — non mi sono mai messo a rischio di buscarmi una coltellata per levare una donna dalle mani d'un brutale che la schiaffeggia nel mezzo della strada, — non ho mai fatto dieci miglia a piedi per andar a portare una buona notizia a una famiglia povera, — non mi son mai privato un mese di seguito del sigaro, del teatro e della birra, per fare un regalo a un mio antico maestro elementare che si trova nella strettezza. Ebbene, conosco dei giovani che fecero e che fanno tutte queste cose, e che si vergognerebbero di scriverle, e che quando le leggono scritte da me, mi dicono: «bravo! Lei fa del bene! Beato lei!»
— Vero, e con questo?
— Con questo, quando mi dicono quelle parole, io arrossisco perchè dovrei dirle io a loro; e loro dovrebbero dire a me che sono un impostore.
— E allora, — disse Teresa con un'ironia faceta, di cui Mario non s'accorse; — se scrivendo delle cose morali ti pare di far l'impostore, scrivine delle immorali e vivrai in pace colla tua coscienza.
— No! — rispose Mario — mai. Se volessi anche, non potrei. Su questo punto tu non conosci ancora le mie idee, e te le dico. Da un uomo