La Vita Italiana nel Settecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1895. Autori vari

La Vita Italiana nel Settecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1895 - Autori vari


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frase sintetica, colla quale a Sant'Elena l'imperatore Napoleone chiuse una polemica quasi simile intorno a Gian Giacomo Rousseau: “forse il mondo sarebbe stato più felice se io e lui non fossimo nati.„

      Il periodo rivoluzionario colpiva impreparate le masse, ma era stato preveduto, in parte favorito dagli uomini di pensiero.

      Già fin dal 1784 l'uragano incipiente non era sfuggito alla sagacia del ministro piemontese, conte Bogino, il quale, guardando alla Francia, era morto esclamando: “povera Italia! povera Europa!„ Viaggiando in Francia, al seguito di una dama lombarda, illustre per bellezza e per intelletto, la marchesa Paola Castiglioni, Alessandro Verri, Francesco Melzi, Cesare Beccaria s'erano mescolati a tutti i gruppi novatori della società parigina e riportavano in patria l'impressione che il periodo delle riforme stava per chiudersi. Un abate napoletano, pozzo di spirito e di scienza, Ferdinando Galiani, era entrato in grande dimestichezza con Diderot e d'Holbach, e scriveva da Parigi ai suoi compatrioti, informandoli di tutte le agitazioni e le preparazioni che bollivano nella pericolosa città. E più dei pensatori s'affaccendavano gli avventurieri, razza che non manca mai di entrare in iscena alla vigilia delle grosse crisi, e a cui di solito vien meno la moralità, non mai l'ingegno o l'audacia.

      Un veneziano, Giacomo Casanova, fuggito con mirabile ardire dalla prigione dei Piombi, aveva percorso l'Europa, rompendo tutte le discipline sociali; imponendosi con astuzie di finanza al conte di Choiseul, a Federico II, a Caterina II, a Maria Teresa; bisticciandosi col conte di San Germano e con Voltaire; scandalizzando tutti i paesi per le pubblicità della sua vita, pel lusso, pei giuochi, pei duelli, per gli amori, pei debiti.

      Un siciliano, Giuseppe Balsamo, era penetrato più addentro negli organismi delle vecchie sette europee; le aveva dominate coi misteri nuovi del mesmerismo; e imbrancandosi col finto nome di Cagliostro nell'aristocrazia europea, corrompeva principi, aizzava plebi, abbarbagliava ignoranti, spargeva dappertutto i semi della miscredenza e della rivolta.

      Un milanese, il conte Giuseppe Gorani, innamoratosi delle più spinte dottrine demagogiche, s'era volontariamente sbandito dalla patria ai primi sintomi della commozione francese; s'era fatto intimo dei più scamiciati giacobini dell'epoca; aveva accettato missioni segrete di agitatore in Isvizzera ed in Italia; sicchè, per decreto dell'arciduca Ferdinando, era stato radiato dall'albo della nobiltà milanese e, coi procedimenti giudiziari ancora in uso, gli erano state confiscate le proprietà.

      Era sotto queste impressioni e sotto queste influenze, dirette o indirette, che cominciava a suscitarsi un'opinione pubblica, favorevole alle dottrine umaniste, quantunque risolutamente contraria alle applicazioni inumane dei rivoluzionari francesi.

      Frutto di questo duplice indirizzo degli spiriti, sopratutto nella regione lombarda, la più indicata a ricevere il primo urto delle idee e dei fatti della Rivoluzione, era stata una dimostrazione ostile, fatta, sin dal 1789, nel teatro della Scala al conte d'Artois, e nel tempo stesso l'avversione acuta, universale ond'erano circondati i violenti energumeni che del Comitato di Salute Pubblica parigino s'erano fatti fra noi apologisti e plagiari, come il prete Lattuada, Gio. Antonio Ranza e Carlo Salvador.

      Nondimeno, come avviene sotto il sole, sempre e senza rimedio, gli esagerati si organizzavano e i moderati si rassegnavano; sicchè i primi e non i secondi si trovarono pronti a cogliere i vantaggi ed esercitare le influenze che la procella politica stava per sostituire ai vecchi ordinamenti sociali.

      Questi resistettero, come meglio seppero, in Piemonte e in Lombardia, finchè le minaccie partirono soltanto da elementi indigeni e da cospirazioni paesane; si frantumarono, come statue di gesso, a cui venisse tolto il sostegno, appena furono visti dalle Alpi scender armati, e, come ai tempi del Filicaja,

      Bever l'onda del Po gallici armenti.

      Per dire il vero, quegli armati non scendevano “a torrenti„ come il Filicaja narra del tempo suo. Erano anzi pochi, mal vestiti e peggio nutriti; ma li guidava un'idea fatale e un giovane anche più fatale dell'idea.

      Era un generale in capo di ventisette anni, non alto di statura, gracile di complessione, pallido di colorito, coi capelli spioventi sulla fronte e sulla nuca, dalla fisonomia pensosa, dallo sguardo d'aquila, dal parlar breve, rotto, energico, implacabile. Il suo paese lo aveva veduto sedare in dodici ore una formidabile insurrezione per le vie di Parigi, rioccupare Tolone a colpi di cannone, e strisciare come un sollecitatore nelle anticamere del disonesto Barras, dispensatore di titoli e di gradi. Il nostro paese era destinato a vederlo fulmineo vincitor di battaglie, distruttore di regni e di repubbliche, improvvisatore di governi e di costituzioni politiche, saccheggiatore di codici e di opere d'arte, nemico formidabile di despotismi e di libertà, detronizzatore di principi e di pontefici, restauratore di ordine, di studî e di religione, imperioso con generali, con popoli, con regnanti, schiavo umile e innamorato di una sposa bella, frivola e traditrice.

      L'ora che corre segna in tutta Europa una specie di ripresa della leggenda napoleonica. Non si sa se sia ammirazione della fortuna, delle virtù o dei delitti che a quella leggenda appartengono. Non si sa se il mondo discopra quel tumulo per cercarvi una volontà potente, una direzione sicura, un ingegno a nessuna esigenza inferiore, o se frughi fra quelle ossa per trovarvi i residui del dispotismo illimitato e spensierato, a cui anelino di prostrarsi società frolle e scettiche, stanche di pensare e di combattere por idealità da cui non aspettano nessun vantaggio.

      Ad ogni modo, nessuna preoccupazione di questa natura agitava i contemporanei, quando il generale Bonaparte, con una rapidità di mosse a cui non erano preparati i suoi avversarî, gira e supera nel tempo stesso la catena dell'Appennino ligure, si ficca come un cuneo fra le colonne austriache e le piemontesi, batte le prime a Montenotte e a Dego, le seconde a Millesimo, forza ad un armistizio il governo sardo, scende difilato lungo la corrente del Po, lo varca a Piacenza mentre Beaulieu lo aspettava a Valenza, si getta su Lodi, vi sbaraglia l'esercito austriaco ed occupa Milano, entrandovi dal lato orientale, mentre tutte le difese gli si erano opposte dal lato occidentale.

      Qui comincia quell'ultimo e breve periodo rivoluzionario che ci conduce sino alla fine del secolo ed è per l'Italia così fertile di sorprese, di mutamenti, di lutti. Periodo fra i più lamentosi di tutta la nostra storia, nel quale le campagne furono tormentate dalla guerra, le città dalle rivoluzioni e dalle reazioni, gli ordini di governo dall'anarchia. Preoccupato dalle cure militari, che non gli lasciavano tregua, il generale Bonaparte era impotente a reprimere le tirannie dei demagoghi, o scesi dalle Alpi con lui, o innalzatisi, sotto il suo patrocinio, dagli ambienti locali più volgari e più avidi. Per più di tre anni, un popolo avvezzo ai Verri, ai Tanucci, ai Bogino, a Pietro Leopoldo, a Clemente XIV, si vide dominato o da commissarî francesi inetti ad ogni opera che non fosse di spogliazione, o da istrioni politici, cresciuti fra la taverna e il tumulto, che quando non riuscivano a governare, impedivano ogni governo di altri. Questa era stata la conseguenza del dilagarsi delle truppe repubblicane per tutto il territorio italiano; le quali, abbattendo per necessità di difesa i governi indigeni, dovevano compensare la scarsezza del loro numero coi metodi del terrore e coll'appoggio dato alle classi più indisciplinate della popolazione. Senonchè questi metodi preparavano, come sempre, reazioni egualmente torbide.

      E lo si vide, allorchè, pochi mesi dopo, uscito Bonaparte dall'Europa, e rifattasi la coalizione contro la Francia, gli anarchici neri susseguirono agli anarchici rossi. Allora si predicò l'ordine collo stesso furore con cui s'era prima predicata la democrazia. Il cardinal Ruffo e Fra Diavolo saccheggiarono in nome del Re di Napoli, il maresciallo Suwaroff saccheggiò in nome degli Imperatori, il generale Lahoz saccheggiò in nome del Papa, Branda Lucioni saccheggiò in nome del Re di Sardegna; e la Toscana fu saccheggiata dalle bande che gridavano: viva Maria; a capo delle quali entrò in Firenze, precorritrice storica di Luisa Michel, una virago a cavallo, Alessandrina Mari di Montevarchi.

      Prima che il secolo decimottavo seguisse i suoi predecessori nel vortice della storia, anche queste anarchie potevano dirsi in gran parte cessate. Ma se, fra tante procelle, s'erano, a intervalli, mantenute nei loro dominî le dinastie del centro e del mezzogiorno d'Italia, più profondi e durevoli mutamenti di Stato avevano avuto luogo nella regione settentrionale, dove due fra i più antichi e gloriosi governi della penisola erano stati violentemente soppressi, per tradimento, o, se la parola pare eccessiva, per insidia delle nuove diplomazie.

      È


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