La Vita Italiana nel Settecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1895. Autori vari

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del 1796, e la guerra s'avvicinava, indietreggiando, alle provincie di terra ferma. Il generale Bonaparte, più esigente del suo Direttorio, credette scorgere nel contegno della Repubblica una diffidenza verso il genio della vittoria ch'egli personificava, e fermò nella profonda mente il disegno di sopprimerne la secolare esistenza. Non lo nascose uno de' suoi intimi, il colonnello Beaupoil, il quale diceva, fin da Verona, che “quatorze siècles d'existence devaient suffire à la république„.

      I pretesti cominciarono per la presenza sul territorio veneto del conte di Lilla, chè tal nome aveva preso nell'emigrazione il pretendente al trono di Francia, il futuro Luigi XVIII. In onta alle sue antiche tradizioni d'asilo, Venezia dovette sacrificare l'esule ai reclami del Direttorio e alle intimazioni del suo generale.

      Poi, sopravvennero subito le difficoltà pratiche della neutralità disarmata. Impotente a respingere così i vinti come i vincitori, la Repubblica non potè negare il passaggio alle truppe austriache, nella loro ritirata verso il Tirolo. Bonaparte, irritato, fece subito occupare Brescia, poi Bergamo; il generale austriaco, per rappresaglia, pose guarnigione a Peschiera; Bonaparte rispose, impadronendosi di Verona. Il Senato veneto strepitava, il Querini reclamava a Parigi, il provveditor Foscarini si presentava al quartier generale dell'esercito francese. Ma ormai tutta la guerra si faceva sul territorio veneto, ne ed era possibile deviarla; Bonaparte rispondeva al Foscarini in tono altezzoso e coll'offerta ironica di mandare le sue truppe a difendere la libertà di Venezia; il Direttorio faceva offrire al Doge un trattato d'alleanza che, in tali condizioni, assumeva l'aspetto d'un trattato di servitù; e negli intimi colloqui il patrizio Querini si sentiva proporre dagli affaristi del Direttorio, che con cinque milioni dati per le spese di guerra e settecento mila lire sborsate al direttore Barras, si sarebbero potuti ottenere dal governo francese dei dispacci che fermassero il generale Bonaparte ne' suoi disegni di distruzione.

      Le tratte per settecento mila lire furono effettivamente consegnate; e il Barras non ebbe pudore a presentarle per lo sconto al banco Pallavicini di Genova. Ma il generale Bonaparte s'era già posto colle sue vittorie in una situazione personale, che gli permetteva di non ricevere ordini da nessuno. Il suo proposito circa Venezia era implacabile; egli voleva finire una guerra, dalla quale ormai aveva tratto tutta la gloria che gli occorreva; coi territori di quella Repubblica avrebbe ammansato l'Austria, non mai esausta di forze e di eserciti. Per giungere allo scopo suo, non esitò ad entrare per le vie sdrucciole dell'insidia e della ipocrisia. I suoi emissari politici fecero lega coi più torbidi elementi del partito popolare, che in Venezia metteva capo al Pisani, in Brescia ai fratelli Lechi. Ben presto una sorda agitazione invade le popolazioni delle città e delle campagne appartenenti alla Repubblica. Brescia, Bergamo, Crema insorgono contro il dominio veneto e sono manifestamente appoggiate dai comandanti francesi. Questo primo successo incoraggia a proseguire nella via, e tutti gli sforzi s'acuiscono intorno a Verona, la città principale dei dominii di terraferma.

      Qui tutto diventa odioso, sleale e tragico. Era capo dell'ufficio militare francese d'informazioni un Landrieux, colonnello degli ussari. Uomo senza scrupoli e deciso a servire occultamente tutti i partiti dell'epoca, uno dopo l'altro e gli uni contro gli altri, s'accontò con un vecchio stromento della demagogia parigina, Carlo Salvador, milanese rinnegato e disonorato, di cui Bonaparte si serviva per ogni mandato. Insieme complottarono un documento falso, e fu un proclama del provveditore Battaglia, nel quale, annunciandosi immaginarie sconfitte dei Francesi nel Friuli e nel Tirolo, s'eccitavano i fedeli sudditi della Repubblica, e sopratutto le classi rurali, a reprimere l'insolenza dei rivoltosi, scacciandoli da Bergamo e da Brescia, dove s'erano annidati.

      Fu questa, in mezzo alla tensione naturale degli animi, la causa prima delle famose Pasque veronesi, e poco mancò non tornasse a danno irreparabile dei provocatori. Invano protestò il Battaglia contro l'apocrifa pubblicazione e protestarono i governanti veneti, presso il Direttorio e presso il Quartier generale. L'impulsione era data; le smentite sono in ogni tempo meno autorevoli delle calunnie; la provocazione alla guerra civile ottenne l'effetto suo.

      Il 17 aprile 1797 Verona fu piena d'armi, d'odii e di stragi. Ad una rissa fra militari veneziani e militari francesi, il generale Balland credette opportuno por fine, cannoneggiando dai forti. La popolazione si credette assalita e reagì. Dove si trovò in minor numero, fu sopraffatta dalle milizie; dove prevalse, non risparmiò nè vivi, nè ammalati, nè donne. Non bastava la morte, vi si aggiunsero i tormenti. Per cinque giorni durarono le stragi per parte dei popolani e dei contadini, le bombe e l'incendio per parte dei francesi, agglomerati nei forti. Al sesto, venuta meno quasi la materia prima ai furori, poterono pronunciarsi parole di pace. Parecchi patrizi veronesi, il conte Nogarola fra gli altri, avevano raccolto e nascosto in casa loro cittadini ed ufficiali francesi, cercati a morte. I provveditori veneti, Giustiniani, Erizzo e Giovanelli, che da un pezzo avevano richiamata l'attenzione sullo stato degli animi e sulle mene dei cospiratori franco-italiani, si raccolsero a consiglio coi generali francesi; ma ebbero presto ad accorgersi che in questi nessuna idea di temperanza poteva penetrare. Il linguaggio era brutale, le esigenze innumerevoli, evidente il desiderio di trarre dal dramma veronese pretesto a maggiori complicazioni. Verona dovette arrendersi a discrezione, e i provveditori furono rimandati a Venezia.

      Ma su Venezia intanto scoppiava l'ira del Giove tonante.

      Le sorti della guerra avevano portato il generale Bonaparte sulle alture del Semmering, d'onde l'istinto audace gli faceva già intravedere l'occupazione di Vienna.

      Però tra l'audacia e il successo, nel cervello del futuro Cesare v'era ancor posto pel ragionamento. Anzi, pei ragionamenti; poichè, nel momento attuale, erano due e combaciavano fra loro. Vincere un'altra battaglia pareva ancora possibile, forse era facile; ma non era esclusa la possibilità di perderla, e la perdita, in quelle condizioni, bastava ad annullare tutta la gloria e tutti i vantaggi ottenuti. A misura che si allungava su Vienna, l'esercito francese, così lontano dalle sue basi, naturalmente s'indeboliva; mentre intorno alla gran capitale, l'arciduca Carlo avrebbe trovato forze e mezzi di resistenza e di attacco sempre maggiori. Non si poteva giurare che una sola vittoria avrebbe ancora stesa l'Austria ai piedi del vincitore; si poteva giurare che una sola sconfitta avrebbe costretto il generale Bonaparte a rifare in fuga precipitosa quel cammino fino allora seminato di così rapide audacie.

      D'altra parte, obbligando l'arciduca Carlo, non timido avversario, a concentrare tutte le forze militari del suo paese per difendere da un colpo di mano la capitale della monarchia, Bonaparte avrebbe resa più facile una ripresa offensiva dell'esercito del Reno, che il generale Moreau guidava con minore impeto, ma con eguale tenacia, contro i nemici della Francia repubblicana. V'era a prevedere il caso che i due eserciti entrassero contemporaneamente in Vienna e che i due generali ne avessero eguale onore. Ora, ciò non secondava i disegni del generale Bonaparte, che già si sentiva il primo nel suo paese e non avrebbe voluto dividere con nessuno, meno che mai — e lo provarono gli eventi successivi — col generale Moreau, la dittatura che già volgeva nell'animo.

      Sicchè la pace — una pace gloriosa, dopo una guerra che non l'era meno — avrebbe posto fine alle due preoccupazioni che lo agitavano, e avrebbe mantenuta intorno al solo suo capo la doppia aureola del vincitore e del pacificatore dell'Europa.

      Fu per queste considerazioni, tradite già dai documenti dell'epoca, e ormai riconosciute da tutti gli storici, che il generale Bonaparte si decise a scrivere all'arciduca Carlo una lettera famosa per la sua moderazione pacifica e a trattare nel tempo stesso Venezia con modi altrettanto famosi per la loro esagerata violenza. Dopo i fatti di Bergamo, di Brescia e di Salò, aveva mandato a Venezia il generale Junot, minacciando il Doge e gli ottimati di aperta guerra; dopo i fatti di Verona, accolse burbero gli inviati del Senato, e scrisse a Pesaro: “io sarò un Attila per Venezia.„

      E Attila fu; non nel senso della devastazione materiale, ma nel senso della distruzione politica.

      Invano riceveva istruzioni dal Direttorio, e dal suo ministro degli Affari Esteri, Talleyrand, di non permettere dominio austriaco sopra nessuna parte di territorio italiano. Egli era già abbastanza forte da fare una politica che non fosse quella del suo governo, e voleva stupire il mondo col suo amor della pace, dopo averlo meravigliato colla sua rapidità nella guerra.

      Così si venne ai preliminari di Leoben, che cominciavano a sbranare la Repubblica di Venezia, dando all'Austria


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