Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - Amari Michele


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di luglio, ma, com'ei sembra, non entrava in città.166 Comandando tuttavia da re non ostante l'abdicazione, Ibrahim alzò in Palermo il Tribunal dei Soprusi; deputò altri a presedervi; ed egli, intento anima e corpo alla guerra sacra, conduceva a soldo marinai, largheggiava stipendii a cavalieri; talchè tra gli Affricani che avea seco e i Musulmani di Sicilia che arruolò, messe in punto un'oste poderosa. Il diciassette di luglio movea con quella sopra Taormina.167

      Per fortezza di sito, numero di popolo, tradizioni, e monumenti, era ormai questa la capitale della Sicilia bizantina, degli aspri luoghi, cioè, tra l'Etna e la Peloriade, ne' quali un pugno d'uomini difendeva ancora il vessillo della Croce. Non potendo abbandonar costoro senza vergogna, Leone il Sapiente li aiutava com'ei sapea; che è a dire, poco, tardi, e strambo. Quel che conosciam di certo è che, sovrastando il pericolo pei notissimi appresti d'Ibrahim, Leone teneva i soldati dell'armata a Costantinopoli a fare i manovali nella fabbrica di due chiese e d'un monastero di eunuchi; e ch'avea già mandato a Taormina un presidio con Costantino Caramalo168 e Michele Characto; dei quali il primo fe' mala prova; e il secondo, inferiore in grado, non potè riparare, o almeno il diè a credere.169 Al medesimo tempo Leone richiedeva Elia da Castrogiovanni di pregare per la salute dell'impero, dice l'agiografo, i fatti mostrano, di andare a Taormina; ov'egli, Siciliano, con la sua fama di santità, rozza eloquenza, e venerabile aspetto, prendesse due colombi a un favo, come pareva alla corte bizantina: incoraggiare cioè i combattenti; e mondarli dalle peccata, dalle quali fermamente si credea che venisse ogni sconfitta delle armi bizantine. Elia, ottuagenario, infermo, sostenuto in piè dall'indomabile costanza dell'animo, passava incontanente col fidato suo Daniele, di Calabria in Sicilia, sotto specie di venire a baciar le ossa di San Pancrazio, primo vescovo di Taormina; e si messe all'opera con impeto. Rinfacciava alla misera città non mancarle nessun peccato; rampognava Costantino che non sapesse ritenere i soldati dagli omicidii, oltraggi, gozzoviglie, dissolutezze; gli parlava d'Epaminonda e di Scipione, uomini di sì specchiati costumi da far arrossire i Cristiani di quei tempi corrotti; gli ricordava la temperanza e la continenza, come necessarie virtù di chi s'appresti alla guerra. Rincalzò, al solito, i savii consigli con la macchina epica: vaticinò, e non era sforzo di profezia, il passaggio imminente del fier Brachimo Affricano; il guasto, la carnificina, l'arsione di Taormina. Giacendo infermo a casa del cittadino Chrisione, Elia diceva all'ospite: “Vedi; qui in questo letto si adagerà Brachimo vincitore: ed ahi quanta strage insanguinerà queste mura!” Un'altra fiata, andando per la piazza maggiore, s'alzava i panni a ginocchio, e richiesto del perchè, rispondea: “Veggo abbondare i rivi di sangue.” Poi girava le strade, in mutande,170 stranamente avviluppato di catene; si poneva un giogo di legno sul collo: per lui non restò di sbigottire soldati e cittadini, se punto credeano a profeti viventi. Così la religione dei Bizantini sbagliava sempre il segno. Elia, fatto ludibrio della gente, non perdonò all'ultima cerimonia di scuoter la polvere da' sandali, uscendo dalla città; e come Ibrahim s'appressava, così egli navigò ad Amalfi.

      Comparso il nemico, i difenditori di Taormina non si stetter chiusi entro le mura. Scendendo, com'e' sembra, alla marina di Giardini, presentarono la battaglia ad Ibrahim; virtuosamente la combatterono con gran sangue d'ambo le parti: e già le schiere musulmane balenavano; serpeggiava tra quelle un pensier di fuga; perdeasi al vento la voce d'un che aveva intonato per rincorarli le parole di lor sacro libro: “Sì che ti daremo segnalata vittoria,”171 quando Ibrahim lanciossi nella mischia. Volto a quel pio guerriero: “Perchè non reciti,” gli gridò, “cotesti altri versi: – Ecco due litiganti che disputano chi sia il Signor loro. Ma agl'Infedeli son apparecchiate vestimenta di fuoco e mazze di ferro: su le teste loro si verserà acqua bollente, da strugger viscere e pelle.”172 E quando quegli ebbe fornito i due versi: “O sommo Iddio,” ripigliava Ibrahim, “di te disputiamo quest'oggi io e gli Infedeli;” e tornò all'assalto, caricando con essolui gli uomini più valorosi e di più alto consiglio; i quali fecer impeto che spezzò l'ordinanza nemica. Allora i Cristiani a fuggire sparpagliati; i Musulmani a inseguirli su per le vette dei monti, dicon le croniche, e in fondo ai burroni. Altri scampavano su le navi; e tra questi forse i due capitani bizantini. Altri riparavansi alla città; coi quali alla rinfusa salirono il monte ed entrarono i vincitori; e incalzaronli fino alla cittadella, Castel di Mola, come oggi s'addimanda, che sovrasta all'erta di Taormina da un'erta assai più scoscesa e superba, a distanza d'un miglio. Ibrahim pur tentò un colpo di mano: impaziente di far macello tra la popolazione che s'era messa in salvo nella rôcca, mentre le ultime schiere vi si ritraean combattendo. Girata intorno intorno la costa, sparsi i suoi d'ogni lato, Ibrahim scoprì un luogo ove gli parve ch'uom potesse inerpicarsi con mani e piè; e a furia di promesse cacciò su per quei dirupi un drappello de' suoi stanziali negri; i quali superaron l'altezza, e a un tratto tuonarono agli orecchi dei guerrieri cristiani “Akbar Allah.” S'erano essi adagiati a prendere un po' di cibo, fidandosi nel sito inespugnabile; stanchi della sanguinosa giornata; tenendo guardie nei luoghi accessibili e negli altri no; quando li percosse il noto grido di guerra dei nemici. Scompigliati e confusi, non corrono a gittar a basso delle rupi quel pugno di schiavi, non a difendere la strada del castello. Ibrahim dunque, udito il segno de' suoi, salì senza contrasto con le altre schiere; spezzò le porte; e comandò l'eccidio. Era la domenica, primo d'agosto novecento due.173

      Ibrahim efferatamente abusò questa vittoria. Alla prima fe' trucidare, con gli uomini da portar armi, anco le donne, i bambini, i chierici, cui la legge musulmana perdona la vita; fece porre fuoco alla città; dar la caccia ai fuggenti per le foreste di que' monti ed entro le caverne; addurre a sè i cattivi, perchè niuno di cui potea comandare la morte non gli escisse di mano per umanità o avarizia altrui. Così, recatagli una gran torma nella quale si trovò Procopio vescovo della città, Ibrahim chiamatolo a sè: “Cotesti tuoi capelli bianchi” gli disse “mi ti fan parlare pacatamente. Se e' ti rendon savio, abiura la fede cristiana; e salverai la tua vita e di tutti costoro; e ti darò tal grado, che in Sicilia sarai secondo a me solo.” Procopio sorrise senza rispondere; e incalzandolo il Musulmano: “Ma tu non sai chi ti parla?” replicò. “Sì; l'è il demonio per bocca tua; e indi rido.” Onde Ibrahim volto agli sgherri comandava: “Sparategli il petto, cavategli il cuore, ch'io vo' cercarvi gli arcani di cotesta mente superba:” linguaggio del vero conio di Ibrahim. Il santo vecchio, dato al supplizio, finchè potè articolare la voce, imprecò contro il tiranno, confortò i compagni al martirio. Aggiugne Giovanni Diacono, autor della narrazione, che Ibrahim, furibondo a tal costanza, digrignando i denti, arrivò a chiedere che gli dessero a mangiar il cuore; e se non compì l'orrenda jattanza, fece scannare gli altri prigioni sul cadavere del vescovo, arderli tutti insieme, e alla fine della festa si levò mormorando: “Così sia consumato chi mi resiste.”174

      Lieve opera fu alla caduta di Taormina di ridurre il rimanente del Val Demone. Ibrahim, venduti i prigioni e il bottino, e spartito il prezzo tra' suoi, mandava quattro forti schiere; una col nipote Ziadet-Allah a Mico o Vico, fortissimo castello dentro terra, non lungi, credo io, dal Capo Scaletta;175 l'altra col proprio figliuolo Abu-Aghlab, sopra Demona;176 la terza capitanata dall'altro figliuol suo Abu-Hogir177 sopra Rametta; l'ultima contro il castel di Aci178 condotta da un Sa'dûn-el-Gelowi. Delle quali castella, le due prime, sendo state sgombrate già dai terrazzani alla nuova del caso di Taormina, fruttaron solo ai Musulmani quel po' di roba che vi era rimasta. I cittadini di Rametta offrivano di pagar la gezîa; ma non lo assentì Abu-Hogir e volle gli abbandonassero la rôcca; e, avutala, la smantellò, quanto potea. Similmente que' d'Aci e delle rôcche e fortezze dei contorni, fattisi insieme a chieder patti, non ottennero altro che la vita, fors'anco la libertà delle persone: e uscendo dalle mura che avean sì lungamente e gloriosamente difeso, le videro diroccar dai nemici e gittarne i sassi in mare.179 Pietro Diacono, monaco cassinese del duodecimo


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<p>166</p>

Giovanni Diacono napoletano espressamente nota che Ibrahim sdegnasse d'entrare in Palermo, come casa propria. All'incontro Nowairi riferisce tanti particolari da non potersi mettere in forse l'andata. Il detto che Ibrahim non tenne, ma fece tenere da altri il Tribunale dei Soprusi, mi fa supporre che il tiranno fosse rimaso fuor la città vecchia.

<p>167</p>

Riscontrinsi: Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi 702 A, fog. 53 verso; e traduzione francese di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 432; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 142; Johannes Diaconus Neapolitanus, Translatio corporis Sancti Severini, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 61. Non cito Ibn-el-Athîr perchè il testo è viziato, come dissi nel capitolo precedente, nota, p. 73. Avvertasi che la versione di M. De Slane in questo luogo del Nowairi sembra poco esatta, e v'ha qualche error di stampa nelle date, oltre lo errore del Nowairi che Ibrahim arrivato in Palermo il 28 regeb (8 luglio), e soggiornatovi quattordici giorni, ne fosse partito il 7 scia'bân (17 luglio). M. De Slane ha soppresso quest'ultima data, accorgendosi che fosse sbagliata.

<p>168</p>

Il nome di Costantino si legge nella Vita di Sant'Elia da Castrogiovanni, e gli è dato il titolo di patrizio. I cronisti bizantini scrivon che “fosse In Taormina,” al tempo della espugnazione, Caramalo, come e' pare, capitano del presidio, quantunque non gli dian titolo di patrizio, nè altro. Penso io dunque che si tratti d'un medesimo personaggio per nome Costantino, e di casato Caramalo. I bizantini non dicono nè anco il grado di Michele Characto, ma ch'egli accusò di viltà e tradimento il Caramalo, quand'entrambi si rifuggirono a Costantinopoli. Da ciò la conghiettura che il Characto fosse secondo in grado, o capitanasse qualche corpo ausiliare, il quale virtuosamente avesse combattuto contro Ibrahim. Giorgio Monaco fa supporre che Eustazio, drungario dell'armata, fosse stato inviato a Taormina o incaricato di recarle aiuto; il che ei non fece, e indi ne fu punito. Ma par che il cronista supponga questa colpa, confondendola con quella che certamente commise Eustazio, mandato contro l'armata di Leone da Tripoli di Siria.

<p>169</p>

Riscontrinsi: Georgius Monachus, De Leone Basilii filio, § 25, p. 861; Theophanes continuatus, lib. VI, § 18, p. 365; Symeon Magister, De Leone Basilii filio, § 9, p. 704; Leonis Grammatici, Chronographia, p. 274.

<p>170</p>

La versione latina ha: Quippe lumbare lineum supra lumbos suos ponere. Dunque il buon vecchio, gittata la cocolla, si mostrava con le sole mutande, per imitare, credo io, la foggia degli schiavi. Vita Sancti Eliæ Junioris presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 73 e 74; e nella collezione dei Bollandisti, 17 agosto, p. 479, seg.

<p>171</p>

Corano, Sura XLVIII, verso 1.

<p>172</p>

Corano, Sura XXII, versi 20 e 21.

<p>173</p>

Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars; Nowairi, Storia d'Affrica, testo nel MS. di Parigi 702, A, fog. 53 verso, e traduzione presso De Slane, op. cit., p. 432, 433; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 142; Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 44; Johannes Diaconus presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 61. Non cito i Bizantini perchè non portano particolari del fatto, nè date. Nella Cronica di Cambridge l'anno è sbagliato dal copista che scrisse sifta (sei) in luogo di sena (anno), la qual voce differisce dalla prima per un sol punto diacritico. Così vi si trova 6416 in luogo di 6410, cioè 908 in luogo di 902. Ma le altre testimonianze storiche non lascian dubbio su la vera lezione; e a ritrovarla basterebbe anco il calendario, perchè la Cronica di Cambridge espressamente dice presa Taormina la domenica primo d'agosto, il qual dì incontrò in domenica il 902, e non il 908. Il giorno designato da Ibn-el-Athîr, è il 22 scia'bân 289, che risponde esattamente al 1º agosto 902. La Cronica del Monastero di Volturno, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIª, p. 415, accenna senza data la espugnazione di Taormina.

<p>174</p>

Johannes Diaconus, l. c. È verosimile e perciò non l'ho tolto via, quel vanto da cannibale che Ibrahim forse non intendeva di consumare. Nel Baiân, tomo I, p. 123, leggiamo che il 283 (896) egli avea fatto uccidere quindici persone a Taurgha nell'odierno Stato di Tripoli, e cuocerne le teste, come se volesse imbandirle a mensa; il che fu cagione che la più parte del proprio esercito lo abbandonasse. Un MS. della Biblioteca di Bamberg, dello XI secolo, citato nell'opera di Pertz, Scriptores, tomo III, p. 548, in nota alla Cronica Salernitana, accenna il martirio di San Procopio, evidentemente compendiando e alterando la narrazione di Giovanni Diacono.

<p>175</p>

Nei varii MSS. d'Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn; e Nowairi questo nome si legge Bîkesc, Benfesc, Tîfesc, Minisc, Minis, e talvolta è scritto senza punti diacritici. Edrisi pone tra Messina e Taormina, in luogo aspro e montuoso, a 15 miglia verso mezzodì da Monforte, una terra Mîkosc, Mîkos, Minis, secondo i varii MSS. Non trovo in oggi nomi somiglianti; ma il luogo risponde tra il Capo di Scaletta e il Monte Scuderi; sia Artalia, o Pozzolo Superiore, o Giampileri ec. Castello par che non ne rimanesse nè anco al tempo di Edrisi. Il nome mi par latino o greco, Vicus, Μῦχος Μηκὰς o anche Νῖκος. Mandanici, che darebbe quest'ultimo nome aggiunto a quel di Μάνδρα, non risponderebbe alla detta distanza da Monforte, che per altro può essere inesatta o sbagliata nel MS. di Edrisi.

<p>176</p>

Veggasi la nota 4 a p. 468 del I Volume, lib. II, cap. XII, intorno il sito del castel di Demona.

<p>177</p>

Si pronunzii come Hodjr in francese, e in inglese Hojr. Non l'ho scritto Hogr perchè darebbe un suono diverso.

<p>178</p>

Certamente El-Iagi, quantunque alcun MS. porti El-Bâgi, Et-Tâgi ec., mutando i punti diacritici, e altro dia le lettere senza punti. Edrisi lo scrive Liâgi, come si legge nei migliori MSS., dovendosi negli altri aggiugnere un punto diacritico alla lettera b e mutarla così in i, Liag o Liagi in luogo di Lebag che si è trascritta. La differenza di ortografia tra Edrisi e le memorie, di certo anteriori a lui, su le quali compilò Ibn-el-Athîr, dà luogo a una curiosa osservazione filologica. Nel X secolo, al quale van riferite quelle memorie, il nome di Ἄκις e Acis, pronunziato in Sicilia, com'oggi Iaci, con la prima vocale strisciante nel modo che avvertii per Enna, era scritto dagli Arabi col loro articolo el; probabilmente perchè i Greci l'usavano anche con l'articolo. Nella prima metà del XII secolo, in cui visse Edrisi, si dicea Li Aci con l'articolo italiano, il che può aggiugnersi alle altre prove che la lingua nostra già si parlasse in Sicilia.

<p>179</p>

Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, e Nowairi, ll. cc. Il racconto di Nowairi, che in questo luogo è particolareggiato più che gli altri, dopo aver detto di Bico, Demena e Rametta, continua: “E mandò sopra Aci, con un'altra schiera, Sa'dûn-el-Gelowi. Tutte le popolazioni insieme si rivolsero a costui, profferendo la gezîa; ma egli non l'accettò, nè volle altro patto che l'uscita loro dalle fortezze. Uscironne dunque: ed egli distrusse tutte le rôcche e castella, e ne gittò le pietre in mare.” Questo passo prova che la denominazione di Aci, al principio del X secolo, comprendesse parecchie castella; ovvero che Aci fosse come la capitale di quelle sparse sul fianco orientale dell'Etna. Tra i due supposti, terrei piuttosto il primo; perchè ai tempi di Edrisi, Aci par che fosse nominata al plurale, come dissi nella nota precedente; e in oggi v'ha infino a sette comuni di tal nome, poco lontani l'un dall'altro. Qual fosse la fortezza principale nel 902, non so. Forse Castel d'Aci, posto sopra un masso di basalto in sul mare, rimpetto alli scogli de' Ciclopi, o Faraglioni come or chiamansi: Le isole di Aci di Edrisi. Castel d'Aci è famoso nelle guerre degli Angioini contro gli Aragonesi. Potrebbe darsi ancora che la rôcca principale fosse stata sul vicin “Capo dei Molini” ove si trovano ruderi antichissimi; ovvero nel quartier della odierna Acireale, detto Patané, che ha avanzi di un edifizio romano o bizantino, e vi si è scavata una grossa pietra di lava, col noto monogramma del motto “Gesù Cristo vince” che si solea porre nelle fortezze e bandiere bizantine. Veggasi su le antichità dette l'erudito lavoro di Lionardo Vigo, Notizie storiche d'Aci Reale, cap. II.