Storia degli Esseni. Benamozegh Elia

Storia degli Esseni - Benamozegh Elia


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di provvedere di sostentare tanti vecchi, tante donne, tanti fanciulli.» – Ecco le cause, conclude trionfalmente il Salvador, che ispirarono loro la comunanza dei beni, che la stabilirono allora e poi in seno agli Esseni, e ch’egli dice nel suo idioma «ne tarda pas à devenir une règle principale de leur institut.» – Noi abbiamo parlato del Salvador, come d’uomo si conviene della sua tempra, del suo ingegno. Noi gli abbiamo tributato elogi non ipocriti, non servili e non avari. Ma noi abbiamo perciò stesso la libertà pienamente acquistata di sindacare la bontà, la ragionevolezza delle sue dottrine. Mi duole il dirlo, il Salvador ha soggiaciuto al genio predominante del suo paese, del suo tempo, e più assai al genio dei suoi vicini Tedeschi. Egli sente, come essi, alto profondo orrore di tutto quello che per poco trascende le età più moderne della istoria; egli è uno di quelli che i tempi, gli uomini, gli istituti più antichi modernizzarono; egli è uno dei grandi atleti che stringendo a così dire tra poderose ritorte le statue, i monumenti, che sorsero all’aurora dei secoli, si sforzano e sudano e si affaticano a tirarli a tempi a noi più vicini; egli è uno di quelli che fanno vedovi i primi secoli dei fatti più illustri, degli uomini più venerandi; che fanno, nell’ordine della cronologia, ciò che le moderne nazioni civili fanno in ordine allo spazio, togliendo obelischi, sfingi, sarcofagi e d’ogni maniera anticaglie, a quei paesi ove l’arte li generava, e decoro illustre ne fanno di musei, di biblioteche, di capitali. Egli è di quelli che fanno il vuoto nelle origini, e gli uomini e i fatti condensano, accalcano in angustissimo spazio di tempo, con quanta sapienza e ragione, non so.

      Fuori dei tempi antichi, ogni romanzo è buono a costoro. Anzi, la storia sol perchè è antica, è romanzo, e il romanzo solo perchè è moderno, è la istoria. – Io ho detto romanzo, e lo mantengo. La teoria del Salvador, con sua buona pace, non è che romanzo. E se vi aggrada come me osservarlo, vedetelo immantinente. Io potrei appuntare per primo il Salvador, non di plagio, chè la di lui probità letteraria me lo contende, ma di aver disdetto, voglio credere involontariamente, l’onor del trovato a chi si appartiene. Potrebbe dire una critica meticulosa, che male non avrebbe fatto il Salvador a narrarci chi fu il primo a porre innanzi la ipotesi menzionata; a dirci, che fu il Drusio colui che primo gliene offriva l’idea; che fu esso che andando in cerca, siccome noi dell’origine degli Esseni, insegnava come questa si dovesse riporre ai tempi d’Ircano Asmoneo, quando la parte perseguitata si ricovrò nei deserti, e colà di buon’ora s’assuefece ad un tenore di vita durissimo, nel quale dipoi perseverò volentieri. Il sistema del Drusio non è quello, ben io m’avveggo, del nostro Salvador, il quale differisce siccome udite in ordine al tempo, e risale ad un’epoca non di poco anteriore a quella dal Drusio seguita. Ma finalmente, che cosa non hanno di comune i due sistemi, ove si eccettui la differenza notata? Io ardisco dire che hanno tutto in comune, e che bene avrebbe fatto il Salvador a dividere con chi di ragione la responsabilità del sistema. Egli però nol fece, nè io insisterò di soverchio. È egli almeno probabile, è egli almeno accettabile il sistema dal Salvador propugnato? Io gli chieggo del culto essenico la origine, ed egli l’impossibilità mi addita dei sacrifizj e del culto esteriore; al quale ei dice, un culto più elevato si sostituì in ispirito e verità. – Di buona fede è egli questo raziocinare per filo e per segno? Che cosa suppone il ragionamento Salvadoriano? Suppone, se io non erro, che nè sacrifizj nè culto esteriore appo gli Esseni esistesse. Che se così non fosse, che cosa suonerebbe questa sognata sostituzione? Io dico dunque che lo suppone. – Ma che dice la Istoria, alla quale ogni reverenza si dee ed ogni ossequio? Conferma ella la ipotesi del Salvador, ed una setta negli Esseni ci raffigura quale egli ce la dipinge, destituita di culto esteriore e di sacrifizio? Nulla affatto. La storia parla alto, parla solenne contro la teoria irriflessiva del Salvador, ed un amore ed uno studio ci offre presso gli Esseni del culto esterno, da disgradarne ogni più raffinata e squisita pietà. Ma che volete? Il Salvador pecca per troppa bontà. Egli ama gli Esseni, egli li stima, nè confine egli pone alle lodi che al bello Istituto profonde nel suo libro: epperò gli dà troppo del suo, epperò di quelle vesti li abbiglia che più talentano al suo genio filosofico, al suo gusto, al suo favorito sistema. Epperò li va profumando con quegli unguenti razionalistici che ponno farli accogliere, festeggiare nei dotti consessi. Rimane però a sapersi se del presente generoso gli Esseni si chiameranno contenti. – Io proseguo e chieggo al Salvador: d’onde, secondo voi, la comunità degli averi? Che cosa risponde il Salvador? – Dalla incertezza della vita, dalla necessità di provvedere a tanti vecchi, a tante donne, a tanti fanciulli. – Eppure il mondo non l’aveva finora capita così. Si credeva finora che nulla vi fosse di più egoista della necessità, nè di più avaro della miseria. Si credeva finora che l’abnegazione, la generosità, e soprattutto il rinunciamento assoluto di ogni bene, non albergassero precisamente colà, ove la fame manda i suoi orribili latrati, e dove la prepotente mano del bisogno, stringe i cuori ad ogni senso di pietà, e non occorre dire d’abnegazione. Benedetti razionalisti! Quanti miracoli non sanno fare! Eglino ti cavano un effetto dal suo opposto con quella disinvoltura con cui Mosè trasse dalla rupe le acque. Ma eglino, i razionalisti, ci hanno insegnato a dubitar dei miracoli, e questo basti perchè i loro miracoli eziandio da noi si rifiutino.

      Ma su. – Io voglio menar buone al Salvador tutte le anzidette repugnanze. Voglio dire che il culto esterno tra gli Esseni non vi fosse, e che dalla brutta fame sia uscito fuora il più sublime prodigio di carità. Ma il nodo gordiano non è qui. Sapete invece dov’è? È nel passaggio da questo stato temporario, provvisorio, forzato, ad uno stato durevole, ad uno stato definitivo, ad uno stato volontario. Mi spiegherò ancor più. Bisogna che ci dica il Salvador in qual guisa, per quale sconosciuta ragione, una condizione così miserevole, così eccezionale, così a malincuore subìta dai poveri emigrati, si tramutò, ad un colpo di magica verga, in un’associazione regolare, stabile, religiosa, dotta e venerabile, come fu quella che veggiam negli Esseni. Se questo il Salvador non ci narra, se egli non ci svela il transito miracoloso, sapete che cosa io crederò? Io crederò che non appena rimossi gli ostacoli, non appena gli impedimenti sgombrati, non appena restituita la pace e la libertà, non appena le vie si dischiusero del ritorno ai poveri fuoriusciti, che ognuno riedendo pacificamente a casa sua, avrà ripreso il godimento degli antichi diritti; e l’esercizio delle prische faccende. Ecco che cosa credo, ecco quello che suggerisce il più comunale buon senso. Per trasformare un’orda di fuorusciti in un istituto ammirando quale fu l’Essenato, ci vuol altro che parole! Ci vuol ragioni! E che cosa ci dà in compenso il Salvador? In qual guisa si districa egli dagli intricatissimi lacci? – Ecco, come: Quello stato, egli dice, era provvisorio, era precario, ve lo confesso. Udite pellegrinità di trovato. Ma, egli aggiunge in sua favella: «Mais ne tarda pas a devenir une des règles principales de leur institut.» Volete più? Se più esigete, sareste davvero indiscreti. Quel ne tarda pas, ch’è l’anima del concetto, è fatto proprio per contentare anco gli ingegni più schizzinosi. Egli è proprio un miracolo; ma un miracolo di coreografia, non dialettico procedimento. Questo si chiama in Parigi glisser sur les questions. Ma io dico piuttosto, che fa scivolare, che fa sdrucciolare gli inesperti, e che il minor pericolo che può incoglierci, sia quello di nulla imparare.

      Noi abbiamo, se ben mi appongo, abbastanza crollato il sistema del Salvador. Or bene, lo credereste? Egli è ancor più fragile di quel che credete, e quando pure potesse avere le superiori sembianze del colosso di Nabucco, certo che i piedi, che le basi di creta non mancheriano. Tali le prove, tali i fatti sono che vi addurrò, che il sistema del Salvador riporrete certo tra gli onorati defunti. Non lo credete? – Ebbene, o miei giovani, togliete in mano il libro del Salvador, e la citazione osservate alla quale tutto egli affida il peso del suo sistema, e ditemi che ve ne pare. Non dovrebbe essere, non è egli vero, una colonna, una piramide, un atlante? Oibò, è canna, e fragil canna. Qual’è la citazione del Salvador? Egli è un passo del libro dei Maccabei, ove si narrano i primi effetti della irruzione Siriaca in Palestina. Come suona quel passo? Dice per l’appunto così: «E si ridussero gli sbandati Israeliti ad abitar nelle caverne ed in ogni luogo ove potessero un asilo trovare… Allora parecchi tra quelli che cercavano giustizia, trassero al deserto onde abitarvi.» – Qui finisce la citazione Salvadoriana, che dal 1º e dal 2º Capitolo fu tratta del primo libro dei Maccabei. Ma noi non sbaglieremo dicendo che il Salvador così facendo, si affidò più a quanto di proprio avrebbe supplito il lettore, a quanto avrebbe la immaginazione suggerito in compimento, che a quanto sta veramente registrato nei Maccabei. Diffatti, a questo punto arrivati


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