Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I. Amari Michele

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - Amari Michele


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ogni altro Musulmano; così anche le concioni o sermoni pubblici; e gli stessi teologi che nacquero ne' tempi posteriori non furono sacerdoti; i dervis e altre fraterie non altro che accattoni e moderni. Chiamati i fedeli a servir su la terra l'Onnipossente con la borsa e con la spada, pagando la decima e combattendo i miscredenti: l'uno statuto giudaico; l'altro effetto d'uno intendimento politico e della universale intolleranza dell'età. Precetti divini anco erano i doveri degli uomini tra di loro, dettati con forma e severità giudaica, ma ispirati dalla carità cristiana. Infatti viene innanzi ogni altro e secondo solo alla fede, espresso e positivo obbligo la limosina. La fratellanza tra i Musulmani, il rispetto delle persone e delle proprietà: donde un abbozzo di codice civile e penale, che ridusse a legge certa, universale, applicabile dall'autorità pubblica, molte male osservate costumanze degli Arabi; e sopra ogni altra la pena degli omicidii. Con ciò il Profeta correggeva, ora per espresso divieto ora per consiglio, i vizii più flagranti della società arabica: maledetto il parricidio delle bambine; proscritti l'usura, il vino, il gioco; la poligamia limitata; dati diritti di non lieve momento alle donne; la schiavitù non abolita ma mitigata e menomata, consigliandosi, e in molti casi comandandosi, la emancipazione. Da ogni parte si vede, quando si risguardi all'ordinamento sociale, come i costumi legassero le mani al legislatore, troppo superiore, non che alla sua nazione, ma al suo secolo. Per lo contrario, quell'altissimo ingegno non bastò ad improvvisare un dritto pubblico. Degli ordini politici ei non lesse altro in cielo che la uguaglianza dei cittadini tra loro e l'obbligo di ubbidire ciecamente a lui solo: principii stranieri entrambi, fecondi dapprima; e poi l'uno svanì, l'altro portò alla assurdità d'un governo assoluto senza legislatore. Questa è la somma della nuova legge. La prova dell'autorità non potendo venir che di lassù, Maometto con molta arte ne compose una sembianza. A dimostrazione del suo dio allegò e ripetè senza stancarsi quanti sapesse dei miracoli giudei e cristiani, i terrori delle tradizioni e fenomeni dell'Arabia, la bellezza del creato, la pioggia, la vegetazione, la vita, ogni beneficio che vien dalla natura, ogni mistero che l'uomo non può spiegare. In attestato della propria missione portò un sol prodigio: il divino stile, diceva egli, del Corano, che intelletto d'uomo non sarebbe arrivato giammai a comporre: e sì sfidava i miscredenti a imitarne una sola pagina. Infatti quei che noi diciamo versi del Corano ei chiamò aiât ossia miracoli. Gli altri prodigii che sogliono attribuire a Maometto i Musulmani, e, più di loro, i Cristiani, nè egli mai li vantò, nè entrano nella credenza di lor teologi: sono invenzioni di tempi più bassi e di altre nazioni; sopratutto dei Persiani che portavano nello islamismo lor fantasie indo-germaniche.

      Le istituzioni musulmane, come ognun sa, furono dettate a poco a poco, abrogate ed emendate secondo le circostanze: e gli Arabi si beveano d'aver sì comodo legislatore, onnisciente e fallibile, capriccioso ed eterno. Deriva la legge da due fonti: il Corano e la tradizione, ossia le pratiche e parole di Maometto, notate dai discepoli, delle quali noi abbiamo ricordi autentici e diligenti più che non si possa aspettare in leggende religiose; emergendo non dalle tenebre di una setta e d'una antichità remota, ma dalla storia di pochi anni di persecuzione, che si voltò in trionfo vivendo i persecutori e i perseguitati e ridivenuti fratelli. Quell'ampia raccolta, ci attesta forse meglio che il Corano la sagacità, prudenza, umanità, bontà e saviezza pratica del legislatore: ed è stata guida dei Musulmani a private e pubbliche virtù. Il Corano, assai più studiato, racchiude confusamente dommi, leggi generali, provvedimenti secondo i casi, assiomi, parabole, e gli antichi racconti religiosi ai quali accennai disopra, guasti per lo più da fallace memoria o presi a sorgenti apocrife; e ciò tra ripetizioni, contraddizioni, declamazioni; in stile vario, spezzato, incisivo, per lo più sublime, talvolta monotono: un tutto incantevole agli uditori suoi, per la proprietà e maneggio della lingua; e può ammirarsi anco da noi ancorchè non di rado vi si desiderino l'accento, il gesto, le attualità che doveano rendere sì efficaci quelle parole. Ma il prestigio che le rendeva più efficaci era al certo l'universale movimento degli animi in Arabia; era l'ebbrezza che spirano le idee dell'eterno e dell'infinito assaggiate per la prima volta; era quel lampo di giustizia che splendeva agli occhi degli uomini; il naturale amor della uguaglianza improvvisamente soddisfatto; l'usura abolita; l'assistenza reciproca sì efficacemente comandata; la gratitudine dei deboli confortati; l'impeto della democrazia sorgente sotto il nome del principato teocratico; il vasto campo che s'apriva anco alle ambizioni dei grandi. Seguendo il cammino di quella fiamma che si apprese a poco a poco e poi scoppiò in incendio, si vede come le dessero alimento a volta a volta il sentimento religioso, il sociale e il nazionale, poi tutti e tre uniti insieme.

      Il Profeta incominciò a provarsi in casa. Supposta dapprima (gennaio 611) una visione dell'angiolo Gabriele, dissene alla moglie che gliene credette; poi ad Alî cugin suo, fanciullo di undici anni; a Zeid liberto e figliuolo adottivo; e, in quarto, a quegli che fu dopo lui il principale sostegno dell'islamismo, Abu-Bekr, personaggio di grandissima saviezza. Allargandosi e prendendo forma, la nuova religione fu derisa; e Maometto non se ne mosse: Cercò d'attirarsi i plebei, poichè i grandi lo spregiavano. Desta la tarda gelosia del politeismo, insospettita la nobiltà contro il novatore, fecero opera a screditarlo; poi a vicenda lo minacciarono e vollero attirarselo con promesse; gli fecero mille oltraggi; poser le mani addosso ai seguaci più deboli; costrinserli a spatriare. Maometto ciò nondimeno perseverava con mirabilissima costanza, coraggio e mansuetudine; affidando la pericolante vita all'onor della parentela, la quale non lo abbandonò ancor che fosse, la più parte, idolatra. Per virtù di quell'unico legame della società arabica, poteron anco rimanere alla Mecca pochi altri proseliti di nome. Dopo undici anni, crescendo sempre i convertiti tra le persecuzioni, Maometto si attirò cittadini di Iathrib che poi fu detta Medina; e mutò l'apostolato in congiura contro la patria. Allora gli ottimati della Mecca, posposto ogni rispetto, vollero spegnere il capo; e non potendolo fare con le leggi, chè non ve n'erano, ogni casa patrizia mandò il suo sicario per render comune il misfatto, e impossibile la vendetta della casa di Hascem. Ma i costumi posero nuovo ostacolo non preveduto: la schiera dei sicarii non osò violare l'asilo domestico del proscritto; si appostò fuori la notte: ed egli accorgendosene fuggì.

      La qual notte ebbero principio un pontificato, un impero ed un'era. Questa si messe in uso diciassette anni appresso; quando, tra gli ordini che si istituivano appo i Musulmani ad esempio delle nazioni incivilite, parve fissare data comune agli atti pubblici, smettendo le epoche diverse osservate in alcune parti dell'Arabia. L'occasione è variamente riferita dai cronisti. Secondo alcuni la diè Abu-Musa-el-Ascia'ri governator di Bassora, lagnandosi con Omar califo, che gli avesse scritto lettere senza data. Mohammed-ibn-Sirîn, citato da Ibn-el-Athîr, narra in vece che un Arabo appresentatosi ad Omar gli dicesse: “Convien porre le date.” “E che è cotesto?” domandò Omar; e quegli: “È una usanza dei Barbari, i quali scrivono: tal mese e tal anno”. “Mi piace,” replicò il califo: “ponghiamo dunque le date.” Onde, convocata la dieta dei Musulmani, si disputò se fosse da prendere l'era di Alessandria, o l'usanza dei Persiani che notavano gli anni di ciascun re; ovvero far capo dalla missione di Maometto; o infine dalla hegira di lui, la emigrazione cioè, la Separazione solenne, l'atto d'un uomo libero che ripudia la società in cui sia vissuto. Fu vinto il partito della hegira, e sanzionato da Omar; il quale contemplò quello evento come divisione di due epoche: l'una d'errore, l'altra di verità. Nondimeno si contò non dal giorno della fuga, ma dal principio dell'anno in cui avvenne lasciandosi il calendario come stava, cioè l'ordine antico dei mesi, e lunare il periodo dell'anno, come per ignoranza lo volle Maometto.141

      Fuggissi il Profeta a Medina (622); adunò i discepoli; maneggiò gli antichi e i nuovi da savio capo di parte; li infiammò, promettendo bottino e paradiso; combattè con varia fortuna; vincitore usò verso i nemici il più sovente con magnanimità; rade volte inflessibile, rade volte assentì o comandò assassinii; fu sempre giustissimo coi suoi partigiani; nè acquistò mai per sè stesso, ma per loro. Alfine traendo mezz'Arabia sotto le insegne sue, gittò via la maschera o forse il sincero proponimento della tolleranza che già gli era parsa sì bella, quando i politeisti il perseguitavano, e i Giudei si collegavano con essolui. E allora la repubblica aristocratica della Mecca piegossi a patteggiare col cittadino ribelle (a. 628); poco appresso a salutarlo principe, a confessarlo profeta, a sgomberar la Caaba dei trecensessanta idoli, per renderla al culto del Dio uno (a. 630). Le tribù beduine, le città del Iemen, tutti gli Arabi fuorchè i cristiani di Hira e di Ghassan ch'erano soggetti agli stranieri, credettero, accettarono per interesse, o per forza


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<p>141</p>

Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. I, fol. 3 recto e verso.

Sul giorno della fuga, gli eruditi non son di accordo; ponendolo chi in giugno e chi in settembre 622. Vedi Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes, tom. I, p. 16, seg.

In ogni modo il primo anno dell'egira cominciò il giovedì 15 luglio 622, secondo gli astronomi arabi, e, secondo l'uso comune, il 16; contando gli astronomi il principio della giornata da mezzodì, e i magistrati e il popolo dal tramonto del sole. Vedi Sédillot, Manuel de Chronologie universelle, Paris 1830, tom. I, p. 340, seg.