Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I. Amari Michele

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - Amari Michele


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uniti l'uno alla Persia, l'altro a Costantinopoli, apprendeano molte parti di civiltà; e se ne spargea qualche barlume nelle tribù dell'Arabia centrale, comunicanti con Hira e Ghassan, e anco a dirittura coi due imperii, mescolandosi talvolta nelle continue guerre di quelli. A mezzo il sesto secolo accelerossi tal movimento per le relazioni di Giustiniano con l'Abissinia, i conquisti di Cosroe Nuscirewan, e la venuta degli Abissinii nel Iemen: poi il maraviglioso progredimento materiale dello impero persiano, l'occupazione del Iemen, resero popolare in tutta l'Arabia il nome dei Sassanidi e l'ammirazione di loro possanza e civiltà. Ma da tempo più lontano varie colonie ebree avean cominciato a venire in Arabia or fuggendo la dominazione straniera, destino implacabile di lor sangue, or attirate da quel fino lor sentimento dell'utilità commerciale. Gli Ebrei recavan seco loro il genio dell'industria, i ricordi d'un antico incivilimento e le teorie d'una religione spirituale; e, contro lor costume, davan opera a far proseliti per mettere radice nel paese. Notabili anco furono i progredimenti del cristianesimo. Non portava colonie, se non che qualche mano di ostinati spinti dalle chiese ortodosse a cercare asilo in estranei paesi. Ma scuoteano gli animi fortemente quel focoso zelo dei missionarii, quei principii sì efficaci a dissodare ogni terreno inculto, e la virtù della parola di che son lodati parecchi Arabi cristiani; sopra ogni altro il vescovo Kos, vivuto alla fine del sesto secolo e passato in proverbio come il più eloquente oratore della nazione. Il cristianesimo si sparse molto più nella schiatta di Kahtân e nelle due estremità della penisola, che nel centro e presso la schiatta di Adnân.

      Per tal modo nascea tra la rude aristocrazia degli Arabi una età eroica che non impropriamente si è detta di cavalleria. Cominciano ad apparire atti di magnanimità nella guerra; alcune tribù si danno giorno e luogo al combattere; cavalieri escon dalle file a singolar tenzone: nella rotta, nelle più crude nimistà, offron asilo inviolato ai vinti le tende degli stessi vincitori; spesso in vece di mettere a morte il nemico abbattuto, i forti gli tosano i capelli della fronte e lo mandan via; le compensazioni degli omicidii, dopo provato il valore, più volentieri s'accettano; è consentita una tregua di Dio in certi tempi dell'anno. E allora le tribù nemiche seggono insieme al ritrovo di Okâz e altri di minor fama, fiere annuali insieme e accademie di poesia; quivi alcuna volta i guerrieri depongono le armi presso un capo, perchè lor indole impetuosa abbia meno incitamento alle risse; e quegli, vedendo non poter evitare la rissa, la prima cosa si affretta a rendere le armi ai nemici della propria tribù. Altrove quattro valorosi fanno tra loro un giuramento di difendere gli oppressi dall'altrui violenza, senza guardare a persona; e chiamasi dai nomi loro la lega dei Fodhûl: egregio esempio imitato poscia alla Mecca. Così la forza cominciò a parteggiare pel dritto. E, maggiore progredimento, si rinunziò tal volta all'uso della forza: famiglie rivaleggianti nel principato delle tribù, anzichè correre alle armi, venivano sostenendo lor nobiltà con dicerie e versi; rimetteano il giudizio ad arbitri stranieri, come nelle corti d'amore del medio evo.

      Indi si vede che insieme coi costumi più generosi apparivano gli albori della cultura intellettuale. Fa ritorno nell'Arabia centrale la scrittura, che ormai vi si tenea com'arte ignota; ma pochissimi l'apprendono; difficilmente si pratica su foglie di palma, liste di cuoio, ed ossa scapolari de' montoni; si adopera a perpetuare qualche atto pubblico, non a conservare le produzioni dell'ingegno; le quali raccomandansi tuttavia alla memoria dei raccontatori, prodigiosamente rafforzata dall'esercizio, e che parve per lunghissimo tempo più comoda e sicura che le carte scritte. Avanti questa età gli studii degli Arabi, se studio può dirsi il brancolare di barbari ciechi dell'intelletto, non erano altro che le osservazioni degli astri applicate empiricamente alla meteorologia e i ricordi delle genealogie, e geste degli eroi. A poco a poco rischiarandosi ad una medesima luce tutte le regioni intellettuali, la saviezza pratica si affinò in filosofia morale; si cercò dietro le superstizioni qualche idea astratta, fallace forse ma grande; si meditò su le origini e arcane leggi del mondo; s'intese disputare di predestinazione, di libero arbitrio; sursero scettici che rideansi dei numi di lor tribù e della vita futura; si vide il poeta guerriero Imr-el-Kais gittare in faccia all'idolo di Tebala le frecce con che gli avean fatto tirare la sorte. Ed epicureggiavano più che niun altro i poeti: donde seguì un bizzarro contrasto con la letteratura contemporanea dei Greci e Latini, i quali, non sapendo ormai cavare una scintilla di genio da' loro tesori letterarii, dettavano ponderose omelie, o scipiti inni sacri; mentre gli Arabi ignari improvvisavano poesie spiranti la indifferenza filosofica di Lucrezio e il sentimento estetico di Omero e di Pindaro. Perchè prima degli altri esercizii dell'ingegno fiorì appo di loro, come necessariamente dovea, la poesia. Ai poeti classici dell'Arabia, nati in questo tempo, non s'agguagliò nessuno delle età precedenti nè delle seguenti; nè la eccellenza dei pochi imponea silenzio ai moltissimi mediocri. Per tutte le tende suonavano in versi i vanti, così chiamarono la poesia che noi diremmo eroica, vanti di nobil sangue, di valore, di liberalità; si celebravano la bellezza, gli amori, le guerre, le cacce, le corse dei cavalli; o la satira aguzzava il pungolo contro un uomo o una gente. E cento e cento lingue andavan ripetendo i versi del poeta ch'avea il grido: i grandi lo temeano sì da comperarne a caro prezzo il silenzio o la lode; la tribù facea pubbliche feste quando saliva in fama il suo cantore: alla accademia di Okâz il poema coronato, come noi lo diremmo, si trascrive a caratteri d'oro, e si sospende alle pareti del tempio.

      Lo studio dell'eleganza nel dire, dalla poesia passò alla prosa; e lo promossero le tenzoni di nobiltà alle quali abbiamo accennato, e i sermoni degli Arabi cristiani; poichè il parlare in pubblico è la vera e unica scuola dell'eloquenza. Seguì ancora il perfezionamento della lingua e si sparse nell'universale un gusto per le bellezze della parola, non raffinato al certo come quello degli Ateniesi nel secolo di Demostene, ma forse non meno caldo e vivace. Così fatta disposizione estetica degli Arabi favorì assai l'apostolato di Maometto. Dagli esempii che ci avanzano, messo anche da parte il Corano, par che i pregii della eloquenza arabica in quel tempo fossero stati la purità della lingua, l'argutezza dei concetti, la vivacità delle imagini, il laconismo. E gli Arabi si vantarono sempre, tanto profonda era la loro ignoranza, di avanzare ogni altro popolo nell'arte della parola!

      Tali principii ebbe il risorgimento della schiatta arabica nel secolo avanti Maometto. Al par che in tutte le età eroiche, la barbarie non avea per anco ceduto il campo. Stolide millanterie, brutali oltraggi provocano al sangue ad ogni piè sospinto; e il sangue chiama alla vendetta. Il gioco e il vino non fan rossore agli eroi. Appare stranissima intanto la contraddizione dei costumi nella condizione delle donne, le quali or disputano ai sommi la palma della poesia, reggono una casa col consiglio, e libere e adorate spirano sentimenti da romanzo; or son avvilite da patti di concubinaggio temporaneo, e talvolta venendo al mondo, si tengon peso della famiglia, pericolo dell'onore di quella, e i padri le seppelliscon vive. Allato a tanta abominazione, indovini e sibille; consultati dalle tribù nelle più gravi fortune; presi per arbitri dalle famiglie, anco quando ne va l'onore: l'universale crede al fascino, adopra sortilegii; chi spia il volo degli uccelli, chi legge l'avvenire intrecciando ramoscelli d'alberi, chi sorteggiando frecce senza punta. Donde a leggere i ricordi dell'Arabia in questo tempo si veggono confuse l'una con l'altra le fattezze dei periodi istorici analoghi che meglio conosciamo: dei tempi omerici, dei primi secoli di Roma e del medio evo. Alla cavalleria dell'Arabia non mancarono infine nè la moltiplicità dei protettori celesti, nè una città santa, nè il pellegrinaggio.

      Le credenze religiose degli Arabi, ancorchè mal ferme, diverse d'origine, e niente connesse tra loro, davano appicco a un riformatore che imprendesse di ridurle ad unità. Primo avviamento a questo la idea d'un nume supremo; antichissima tradizione semitica, la quale appo gli Arabi mai non si dileguò, quantunque turbata dal politeismo. Credeano a una vasta popolazione d'esseri invisibili come i demonii degli antichi Greci, e chiamavanli Ginn che risponde alla nostra voce genii. Correa tra loro altresì una vaga speranza della immortalità dell'anima, non insegnata da metafisica nè da teologia, ma dalla superstizione, scuola senza dispute: e affermava che dal cerebro del trapassato escisse un gufo, il quale, sendo stata violenta la morte, non cessasse fino alla vendetta di mostrarsi ai parenti gridando: “ho sete, ho sete.” In altre pratiche superstiziose è agevole altresì di scoprire l'aspettativa della risurrezione.

      Molti erano gli obietti del culto: idoli di pietra o di legno in sembianze umane, diversi nelle diverse genti; anco il sole, la luna, le costellazioni, simboleggiate da idoli o no; credute angioli, o com'essi diceano, le figliuole di Dio. Ma comechè amassero meglio praticare con cotesti iddii minori, visibili e palpabili, più pronti ad entrar nei


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