Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I. Amari Michele

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - Amari Michele


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Verre (a. 70 av. l'e. v.) crederà a stento lo squallore che ingombrò il paese verso il principio dell'era volgare. Pur ne son prova i provvedimenti di Augusto, necessitato ad ovviare alla rovina di parecchie città, e l'espresso attestato di Strabone, uom greco, contemporaneo, sciente delle cose di Sicilia, non sospetto di esagerarne le calamità per calor poetico dell'animo. Cominciando dal lato di levante Strabone trovava sol quattro città: Messina, Taormina, Catania, Siracusa; notando che le ultime due fossero state di recente ristorate da Augusto, e Siracusa ristretta a minore spazio presso la penisola d'Ortigia, in vece dello antico giro di centottanta stadii, troppo ormai agli abitatori.112 Su la costiera meridionale, continua il geografo, v'ha Agrigento e Lilibeo e il rimanente delle città al tutto rovinate e deserte; nè la settentrionale abbonda di popolazione, ancorchè la si estenda più che le altre due, e vi si veggano Alesa, Tindaro, Cefalù, Palermo colonia romana, e lo Emporio Segestano. Delle città dentro terra ei va nominando Etna, Centorbi ristorata altresì da Augusto, Erice col magnifico tempio scarso ormai di sacerdoti, Enna designata sol come fortezza, Lentini che andava a male; e le altre abbandonate tutte e date ad abitare a pastori. Spaventevole ragguaglio confermato coi nomi delle principali città distrutte, e col dire della grande fertilità del suolo, ma che i prodotti di quello, grani, miele, zafferano, bestiame, pelli, lane, tutto portavasi a Roma, fuorchè quel poco, son le parole di Strabone, che si consuma nell'isola. A compiere il quadro egli accenna alle antiche guerre servili che più o meno ripullulavano, e che ai suoi tempi un Seleuro che si dicea figlio dell'Etna, avesse levato eserciti e tenuto una parte del paese, ma poi vinto e condotto a Roma, aggiugne romaneggiando il geografo greco, ognun l'ha veduto nel circo, esposto in cima a un gran catafalco in figura dell'Etna, il quale aprendosi, com'era congegnato, lasciò cadere il ribelle nelle gabbie delle fiere.113

      Ma la rivoluzione che oppresse la libertà di Roma, temperò anco i soprusi dell'aristocrazia romana nelle province; tendendo il principato a ragguagliar nella comune obbedienza tutte le classi dei cittadini, e tutte le parti del territorio. Per questo mutato ordine di cose, la Sicilia, come alcuni altri paesi, respirò alquanto; anche mercè i pronti e materiali soccorsi di Augusto ricordati di sopra; limosina la quale dovea accorare i Siciliani più che confortarli, e continuò, per maggior onta, sotto Tiberio e Caligola, da cui fu riedificato alcun monumento dell'isola. Succeduta poi una serie di buoni principi, che fecero dimenticare, con unico esempio nella storia, i vizii del potere assoluto, la Sicilia convalescente arrivò a partecipare di quella prospera mediocrità universale dell'impero romano: parecchi villaggi ingrossati presero il luogo delle città ch'erano distrutte ai tempi di Strabone, e alcuna di queste risorse, o così potè dirsi, perchè un pugno di gente tornava ad abitar tra le rovine. Provan ciò le opere di Plinio e di Tolomeo, e l'Itinerario d'incerta epoca che porta il nome di Antonino: scritti che tornano a un dipresso alla prima metà del secondo secolo. E in vero l'Itinerario accenna novelle stazioni di posta istituite recentemente, e i due geografi, con poco divario l'uno dall'altro, danno una lista di città il cui numero è quadruplo di quel di Strabone e metà di quel che si rinviene appo Stefano Bizantino, erudito di tempi più bassi, che spigolò negli antichi scritti dei Greci.114 Le quali cifre ancorchè vadan prese ad arcata per la poca esattezza di coteste compilazioni, pur vi si raffigura il precipizio della Sicilia negli ultimi tre secoli che precedettero l'era volgare, e lo scarso ristoro nei primi due secoli che la seguirono.

      Scarso ristoro e non durevole; perchè indi cominciò la decadenza universale dell'impero; perchè l'Italia si trovò peggio che le altre province per lo flagello dei latifondi e degli schiavi di che eran pieni; e perchè la Sicilia, divenuta del tutto italiana, fu afflitta più che la Penisola, per essere caduta una parte maggiore delle sue terre nelle mani dell'aristocrazia di Roma. A tal disordine sociale non bastavano a riparare nè la prudenza di Augusto, nè la benevolenza degli Antonini, nè l'equa amministrazione della giustizia, nè la bene ordinata azienda. Pertanto riapparvero gli antichi sintomi nel terzo secolo; e tra quell'universale scompiglio, che suol chiamarsi l'epoca dei trenta tiranni, divampò nell'isola una novella guerra servile115 (a. 259). Spenti altrove i piccioli tiranni, posata la commozione sociale dell'isola, continuò in tutta Italia l'abbandono dell'agricoltura, continuò lo spopolamento, non ultima cagione delle invasioni dei Barbari. Diocleziano prolungò alquanto la vita dell'impero. Poi la sede passò a Costantinopoli (a. 330); ripassò in Italia alla divisione (a. 395) nella quale la Sicilia appartenne all'impero d'Occidente: ma che potea ormai nuocere o giovare un mero mutamento di forme amministrative alla provincia arsa ed annichilita?

      Delle incursioni dei Barbari settentrionali avrò poco da dire. Comparvero la prima fiata in Sicilia quando appena potean temersi ai confini estremi dell'impero. Sotto il regno di Probo, una mano di Franchi, vinti nelle Gallie e trasportati in riva al Mar Nero, trovandovi un'armatetta romana, se ne impadroniano con disegno di tornarsene in Ponente; e nell'arrisicato lor corso dal Bosforo allo stretto di Gibilterra, per necessità e vendetta, saccheggiavano molti luoghi delle costiere, e, tra gli altri, piombati sopra Siracusa, le dettero il guasto, vi fecero una carnificina, e salvi si ridussero finalmente alle Bocche del Reno116 (a. 278).

      Dopo quel turbine passeggiero, consumata la rovina dell'impero occidentale, Alarico, come ognun sa, morì a Cosenza quand'era in punto di assaltare la Sicilia (a. 410); ma Genserico osteggiò Palermo, prese Lilibeo (a. 440), e, sconfitti i suoi Vandali da Ricimero presso Girgenti (a. 456), dopo avere più tosto depredato che occupato l'isola, cedettela per trattato ad Odoacre (a. 476), ritenendo solo il Lilibeo come vedetta da custodire il suo novello reame di Affrica. Odoacre poi regnò su la Sicilia per quattordici anni; del quale ci resta il documento d'una concessione di terre presso Siracusa,117 e prova com'ei prendesse nell'isola quella che si chiamò la parte dei Barbari. Del resto gli Eruli non passaronvi mai; forse non vi mandarono che qualche picciol presidio: a tale debolezza era condotta la Sicilia! Così ancora, vinto Odoacre dagli Ostrogoti, la si diè quetamente a Teodorico; a persuasione di Cassiodoro, ed a condizione che le città e i campi fossero salvi dalla licenza dei vincitori, dei quali sol venisse nell'isola quel tanto che bastava a munir le fortezze principali. Teodorico, resse l'isola assai più umanamente che i suoi predecessori barbari e non barbari; ma non potè far che si dimenticasse l'origine sua, nè l'eresia ariana ond'era infetto: sì che un semplice romito di Lipari, alla morte del re affermò averlo veduto strascinare all'isoletta di Vulcano, scinto, scalzo, con le mani legate al dorso, ghermito dalle ombre invendicate di papa Giovanni e del patrizio Simmaco, che il precipitarono nel cratere ardente.118

      Tal nimistà nazionale e religiosa, comune a tutta l'Italia, fe' cadere il regno dei Goti, non guari dopo la morte di Teodorico, e spianò la strada alla dominazione bizantina, che parea meno straniera e che fu portata da Belisario, capitano degno al certo dei tempi più gloriosi di Roma. Dopo l'Affrica, e prima della terraferma d'Italia, Belisario conquistò la Sicilia entro poche settimane, con diecimila uomini al più, per la connivenza degli abitatori: ebbe Catania per un colpo di mano; Siracusa e altre città a patti; Palermo sola per ostinata battaglia; e tornato a Siracusa, capitale dell'isola, entrovvi in trionfo (a. 535), spargendo monete d'oro su la plebe, che potea credere in vero ristorato l'onor di sua nazione, sentendo parlar greco e latino tra i vincitori. La breve guerra di Totila (a. 549-551) fu l'ultima incursione dei Barbari settentrionali in Sicilia; i quali non l'avevan tenuto più che ottant'anni; non vi avean posto colonie militari, non vi lasciarono nè progenie, nè istituzioni, nè alcun vestigio. Indi il governo bizantino quetamente ricominciò nell'isola tutti gli abusi del romano, del quale riteneva il nome e le forme; e per un secolo intero che corse dal conquisto di Belisario al regno di Costanzo, la storia di Sicilia non ha altro fatto notabile, che la mutata natura dei legami tra l'isola e la terraferma d'Italia.

      La popolazione siciliana per otto secoli avea tenuto tal consuetudine con quella dell'Italia centrale, qual se l'isola si fosse venuta a porre alle foci del Tevere: tanta era la frequenza dei negozii attenenti al governo, ai commercii, e un tempo agli studii liberali, poi alla religione; sempre e più che ogni altra cosa alla cultura delle terre. Le irruzioni degli stranieri infino a Totila nulla mutarono a questo ordine di cose; avendo l'isola con rurale docilità seguíto le sorti della


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<p>112</p>

Gli stadii di Strabone sono ordinariamente di 700 al grado. Il perimetro della antica Siracusa indi torna a 11 miglia e mezzo delle italiane di cui entran 60 in un grado. Ho seguíto in questo passo di Strabone la interpretazione di M. Letronne, Essai critique sur la topographie de Syracuse, p. 100, seg., non quella che erroneamente portava Siracusa ristretta da Augusto, come dei nostri tempi, alla sola penisola.

<p>113</p>

Strabo, Rerum Geographicarum, lib. VI, p. 265, seg.

<p>114</p>

Stefano dà 122 nomi di città e castella, tra le quali alcune poste per errore in Sicilia, ma altre ne mancano. (Stephanus, De urbibus, passim). Strabone (l. c.) ne contava 16, tralasciando senza dubbio i luoghi meno importanti. Plinio (Historiæ Naturalis, lib. III, cap. 14) ne ha 69, delle quali 5 colonie romane, 13 oppida, 3 popolazioni di condizione latina, e 48 tributarie. Tolomeo (Cl. Ptolomei Geographiæ, lib. III, cap. 4) novera 64 tra città e castella, accordandosi con Plinio in 47 nomi, e discrepando negli altri, forse perchè il Romano segue la geografia politica, quando Tolomeo, geografo matematico, nota i luoghi non le genti. L'Itinerario (presso Fortia d'Urban, Recueil des Itinéraires anciens, Antonini Augusti Itinerarium, numeri XXIII a XXVII, p. 26-29) non vale in questa esamina, perchè dà le sole stazioni di poste; tra le quali 26 in città note.

<p>115</p>

Historiæ Augustæ Scriptores, tom. II, p. 85. Trebellii Pollionis, Galliani duo, cap. 4.

<p>116</p>

Zosimus, lib. I, cap. 67, 71.

<p>117</p>

Marini, I Papiri Diplomatici, numeri XXXII e XXXIII, che si credono frammenti di unico diploma dato il 489. Indi si scorge che Odoacre aveva accordato a un Pierio, forse il conte di tal nome, 690 soldi, dei quali 450 assegnati su certi beni a Siracusa, 200 a Malta, e che per questo diploma concedeva il rimanente di 40 soldi e una frazione, sopra tre fondi diversi posti nella massa Piramitana, nel territorio di Siracusa.

<p>118</p>

San Gregorio, che non credea certamente a tal fola, pur l'accreditava, con mille altre somiglianti, per promuovere la superstizione; e nel presente caso anco per aizzar la gente contro i Longobardi, barbari e tuttavia Ariani come i Goti. Vedi Divi Gregorii Papæ Dialogi, lib. IV, cap. 30.