Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I. Amari Michele

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - Amari Michele


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I

      Dai primi tempi della storia infino a noi molte genti straniere vennero a calpestare il suolo della Sicilia: Cartaginesi, Vandali, Goti, Bizantini, Alemanni, Francesi, Spagnuoli, a vicenda fecervi guerra, guastarono, messer su novelle dominazioni e poi dileguaronsi lasciando poche vestigia di sè. Tra tanti rivolgimenti superficiali quattro conquisti mutarono radicalmente il paese: che furono il greco, il romano, il musulmano e il normanno, o meglio direbbesi italiano. Le colonie doriche e ionie, nell'ottavo secolo innanzi l'era volgare, si insignorivano della Sicilia tra per la forza delle armi e dell'intelletto; vi recavano loro schiatta, genio e linguaggio; dirozzavano gli antichi abitatori, gente italica la più parte e avanzo di varii popoli orientali; facean lieta l'isola di città, di monumenti, di colti, di popolazione; fondavano Stati da rivaleggiare con quei della madre patria; correano, come li portava lor mobile natura, or alla libertà or alla tirannide: tra i quali continui travagli fiorirono nella Sicilia greca i più nobili e profittevoli esercizii degli uomini; e nacquervi, ad onor della umanità, Teocrito, Empedocle, Archimede. Il soldato romano poi che uccideva Archimede simboleggia pienamente il secondo conquisto, il quale, con effetto contrario a quel che si vide nelle altre province, in Sicilia distrusse più che non fondasse. Ma nell'ottavo secolo dopo la nascita di Cristo, seguì il terzo rinnovamento della Sicilia, per opera dei Musulmani, i quali avean tocco l'apice di lor subita civiltà; e riforniron l'isola di colonie arabiche e berbere; vi portarono altra religione, leggi, costumi, lingua, letteratura, scienze, arti, industrie, virtù militare e genio d'independenza; in guisa da ritrarre, se non il raffinamento e splendore, al certo l'attività dei tempi greci. Breve del resto il dominio musulmano, nè arrivò a compiere la assimilazione degli abitanti che avea trovato nell'isola. Sfasciandosi da un canto la società musulmana in Sicilia come per ogni luogo, e spuntando dall'altro canto la novella nazione italiana, questa trovò, come per caso, la insegna di ventura, gli egregii esempii d'ardire e gli ordini di guerra dei Normanni: talchè, verso la fine dell'undecimo secolo, passò il Faro sotto la bandiera di quelli; ripigliò la Sicilia, che le appartenea per ragione di geografia e di schiatta; si aggregò le popolazioni cristiane rimastevi, e raccolse i frutti delle proprie e delle altrui virtù. Perchè, sendo pochi i Normanni che le aveano insegnato a vincere, e ad ordinare lo Stato, la nazione italiana, per la ineluttabile maggioranza del numero, assorbì quella forte schiatta, in guisa che a capo d'un secolo ne rimasero appena i nomi di alcune famiglie. Quanto ai Musulmani, parte si dileguò nel seno della società italiana di Sicilia, parte emigrò o fu mietuta dalle spade cristiane. Ed intanto si era mandata ad effetto, sotto gli auspicii del nuovo popolo, l'opera cominciata dagli Arabi quattrocent'anni avanti: la Sicilia tornata a potenza e splendore primeggiò per tutto il duodecimo secolo tra le province italiane; s'insignorì delle parti meridionali della Penisola; e sparse in terraferma molti semi di quel mirabile incivilimento della comune patria nostra che pose termine al medio evo.

      La storia delle colonie musulmane di Sicilia, ch'io mi son proposto di scrivere, comprende i due detti conquisti, arabo e normanno, le conseguenze dei quali son visibili infino ai nostri giorni. Principierò con ritrarre le vicende della Sicilia innanzi la venuta degli Arabi, l'origine dello impero musulmano e le condizioni della sua provincia d'Affrica: e ciò darà argomento al primo libro. Nei tre seguenti tratterò la dominazione dei Musulmani su l'isola; nel quinto il conquisto normanno. Nel sesto libro finalmente discorrerò la condizione dei vinti e i fatti ai quali parteciparono sino alla metà del decimoterzo secolo; quando gli ultimi avanzi loro furono trapiantati di Sicilia in Puglia, e la civiltà italiana tramutò ancor sua sede, prima dall'isola alle parti meridionali della terraferma, e poi, fuggendo i capricci dei re, alle gloriose repubbliche ch'eran surte tra il Tevere e le Alpi.

      La decadenza della Sicilia greca era cominciata, come avvenir suole, prima della distruzione di sua potenza politica. Le città più grosse, straziandosi in guerra tra loro e ciascuna dentro da sè stessa; snervate dal lusso, ch'è figlio di civiltà ma uccide la madre; e logore, sopra ogni altra cagione, da tre secoli di guerra continua contro Cartagine, presto soggiacquero alla rozza vigoria di Roma (anni 241-210 avanti l'era volgare). Roma usò e abusò gli avvantaggi dell'acquisto; il primo che facesse fuor la Penisola e fin allora il più ricco. Abbattuta tanto più agevolmente Cartagine quanto l'aveano stracca le guerre con la Sicilia; fatto scala di quest'isola ad altre imprese nel Mediterraneo; accattate da lei le prime dolcezze della cultura intellettuale e del viver dilicato, i vincitori non si saziarono che non divorassero la provincia. La chiamarono granaio del popol romano, e sì vollero farne un gran podere e nulla più. Per un verso o per un altro incominciò il suolo siciliano a divenire proprietà pubblica di Roma o privata dei nobili; incominciarono a formarsi in Sicilia come in terraferma i latifondi, che rimasero a proprietarii romani o d'altre parti d'Italia infino al settimo secolo, nè sparvero che al conquisto musulmano. Ma infin dal principio della dominazione romana vasti tratti di terreno si tennero a pascolo; prima degradazione, che si accrebbe affidandosi gli armenti a schiavi marchiati in fronte, ignudi o coperti di ruvide pelli; i quali armati di mazze, spiedi e bastoni, a due, a tre, poi a frotte, si davano a ladronecci per campar la vita; poichè i padroni lor davano, in luogo di salario o vitto, la impunità dei misfatti.107 Da un'altra mano i cavalieri romani, o, come or diremmo, i cittadini della classe di mezzo, presero in fitto molte terre dell'isola per coltivarle con le braccia d'altri schiavi marchiati, incatenati, chiusi negli ergastoli la notte, menati al lavoro con la sferza.108 A tal empio sistema d'industria agraria si aggiunse la enormità delle gravezze, che prendeano il quarto, come si crede,109 del ritratto delle terre, senza contare i balzelli su le altre arti e commercii.

      Così arricchiti subitamente i pochi intraprenditori stranieri, rovinati gli indigeni che non godeano i medesimi privilegii di dritto o di fatto, ne doveano seguitare due mali: che la proprietà ogni dì più che l'altro si tramutasse in man dei Romani, e che andassero a precipizio le industrie cittadinesche e sì il commercio con gli altri popoli fuorchè i dominatori. Dal peso e dalla vergogna del giogo nascea quella disperazione universale, che al certo attizzò la prima guerra servile (a. 134-132 av. l'e. v.), e che spinse alla seconda (a. 103-101 av. l'e. v.) non poche popolazioni libere. Pur coteste guerre avevano origine da più antica e profonda iniquità di cui non erano innocenti i cittadini greci di Sicilia. Gli schiavi di tante lingue congregati nell'isola, e forse gran parte siciliani, dopo lungo alternar della fame con la rapina, della abiezione con gli omicidii, si risovvennero della dignità umana, e invocando il cielo che credeano la dovesse vendicare, si adunarono nei più rinomati santuarii, nel tempio di Cerere ad Enna o dinanzi i tremendi altari dei Palici; bandirono la naturale uguaglianza degli uomini; e valorosamente la sostennero con le armi, aiutati più o meno dai cittadini, finchè Roma, che s'intendea meglio di quella ragione, li vinse e sterminò. E mossa dalla prudenza che accompagnava la ferocità sua, l'aristocrazia romana volle rimediare con leggi che rendessero più sopportabile la condizione dei Siciliani: ma non giovò, perchè tal minuta giustizia non troncava la radice del male, e d'altronde non si osservava, per essere elusa e soffocata a Roma dalla prepotenza dei grandi. Già la patria era perduta; già i migliori disperavano di lei. Diodoro, che fiorì l'ultimo tra i sommi ingegni della Sicilia greca e fu il primo scrittore dell'antichità che abbracciasse la storia universale, Diodoro, dopo trent'anni di viaggi e lungo soggiorno a Roma (verso l'anno 45 av. l'e. v.), par sì rassegnato alle sventure della Sicilia, che accettava come vera guarigione un sollievo passeggiero dovuto alla umanità del pretore Asillio. Nè volgare animo ebbe lo storico siciliano, nè poco amore per la patria; ma vedendola perire, par ch'ei se ne confortasse con le ineluttabili leggi dell'umanità che gli lampeggiavano alla mente, e con risguardare ormai il genere umano come unica famiglia, e il popol romano come capo di quella.110 Dopo la morte di Diodoro seguirono le ultime guerre civili dei dominatori, che fecero campo di battaglia la Sicilia (a. 43-35 av. l'e. v.), e sì la straziarono, che consunta com'essa era dalle cause economiche e morali, non potè risorgere; le antiche e nuove piaghe scoprironsi di un subito. La popolazione delle cittadi scemò orribilmente; moltissime rimasero vôte d'abitatori; abbandonata gran parte dei colti: la terra di Cerere, sì cupidamente presa dai Romani, si era sfruttata nelle mani loro.111

      Chi abbia mai percorso le splendide memorie della Sicilia greca, o soltanto


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<p>107</p>

Diodorus Siculus, lib. XXXIV, XXXV.

<p>108</p>

Florus, lib. III, c. 9.

<p>109</p>

Palmieri, Somma della storia di Sicilia, vol. I, cap. 14. Ma egli non vede la causa principale del danno là dove pare a me di trovarla, cioè nella proprietà territoriale usurpata dai cittadini romani ai Siciliani.

<p>110</p>

Diodorus Siculus, lib. V, XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXVII. A creder mio, Diodoro giudicò male la prima guerra servile, credendola un imperversare di masnadieri e nulla più. Nella seconda riconosce il malo contentamento dei Siciliani. Ma la Legge Rupilia, alla quale io ho fatto allusione di sopra, sendo stata promulgata dopo la prima guerra, ne prova chiaramente l'indole politica.

<p>111</p>

Palmieri, l. c., sostiene che il grano prodotto dalla Sicilia al tempo di Verre, non montasse che ad un milione di salme d'oggi (2,753,659 ectolitri); cioè due terze parti della produzione attuale. Di più, crede che tutta la Sicilia allor ne desse appena quanto il solo Stato di Siracusa sotto Gelone.