Quartetto. Alfredo Oriani

Quartetto - Alfredo Oriani


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occhi mi si dilatavano come quelli di un felino. Le ombre sfiorandomi come per guardare il fortunato, che montava alle regioni della vita, mi gettavano nell'anima un raccapriccio senza nome: la vostra luce attirava colla stessa forza del sole, che raggira i pianeti. Avete mai provato in fondo al cuore una ondulazione insensibile, un moto lento di spirale, che s'innalzava sempre colla continuità e colla leggerezza di un'ombra? Ero io. Alle volte giungevo talmente in alto, che le ombre mi restavano laggiù sotto i piedi, e passavo fra gli ospiti del vostro cuore. Erano molti, alcuni li ho poi riconosciuti nella vostra società. In cima la luce cresceva, e cresceva la bellezza del vostro viso; l'aria cominciava a discendere satura di profumi, trepida di suoni. Ma a quella luce la mia corda diventava bionda come un filo di sole: una volta, che salii fino quasi al cratere, la riconobbi per uno dei vostri capelli. Però senza che le forze mi mancassero, quando già ricevevo il bacio dell'aria sulla fronte, e sentivo gli ospiti del vostro cuore bisbigliare sotto di me come una platea di spettatori, e colla testa sotto alla vostra stavo per chiedervi in un altro bacio il battesimo della vita, improvvisamente il vostro capello si rompeva:

      Ah!

      La terza corda si è rotta, signora, ma il suicidio è ancora possibile quando ne resta una. È notte: il cielo è bruno come un mare e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto che il silenzio è nero e l'ombra è silenziosa, e quando si riuniscono sul mondo fanno la notte, quando si congiungono sopra un uomo fanno la morte? Il vento della sera non soffia più, le stelle hanno naufragato nelle tenebre, le voci sono sprofondate nel silenzio. Poichè il mondo si è dileguato, e siamo soli in questo gabinetto, rimanete ancora per pochi istanti su quella poltrona, ed ascoltatemi. L'infinito e la eternità ci circondano; il primo è buio, la seconda immobile. La luce è un moto nella tenebra, il tempo un moto nella eternità; furono e quindi non saranno, l'infinito e l'eternità sono. Noi passiamo, voi proseguirete, io mi fermo. Ascoltatemi. Non ho più che una corda per esprimermi, ma non ho più che una parola da dire, l'estrema e l'unica, e quando l'avrò detta, il silenzio non sarà per questo più profondo, nè l'oscurità più fitta. Non è forse la sola consolazione per chi parte di non abbandonare alcuno, e per chi muore di non lasciare infelici? Se così non fosse, il mondo non sarebbe sempre un ululato di funerale, poichè la morte vi è incessante? Vedete bene che potete ascoltarmi, signora, se la vostra memoria non sarà nemmeno costretta alla gentile pietà dell'eco. Sono solo, la mia cuna fu deserta, come sarà dimenticato il mio sepolcro: non ho che il violino per parlare e il violino per vivere. Ignoro le sillabe, non so comporre una parola; le mie sillabe sono le note, le mie parole le battute; i miei periodi scritti in cifra, come tutti quelli che contengono un secreto, sono una varietà del linguaggio. L'aristocrazia non è una varietà in un popolo? Però di tutte le arti la mia è la più infelice, perchè la più mortale; e mentre di un terremoto restano almeno le ruine, non un'eco rimane di una grande suonata. Soli di tutti gli uomini, la nostra vita è un sopravvivere a noi stessi e alla nostra gloria, che muore posandoci sulla fronte una corona, della quale i fiori avvizziscono al contatto dei nostri capelli. Quindi nessun artista desta il nostro entusiasmo, e soccombe più disperatamente sotto la lapidazione dell'applauso. Io sono solo, non come voi, signora, che siete sola, perchè siete al disopra, ma perchè ho il nulla sulla testa e il vuoto sotto i piedi; perchè cammino e non proseguo, sono partito e non arrivo, creo e non formo. Il sole della mia vita illumina, ma non riscalda; l'orezzo dei miei meriggi è senza riposo, come l'ombra delle mie notti senza sonno. Fra coloro che possono, coloro che vogliono e coloro che sanno, io solo vorrei quello che non posso, e non so quello che voglio: quando desidero non mi è lecito sperare, quando spero non desidero più. Il mio passato non si dilegua, il mio futuro non giunge. Il sorriso scivola sulle mie labbra, come sulla superficie di un vetro; i dolori passano dentro il mio cuore invisibili, come i mostri nella profondità del mare. Le prime illusioni della giovinezza svanirono come i vapori iridati dell'alba, le ultime illusioni della mia virilità come le nuvole nella notte. Ma se nella serie drammatica l'egloga è il vagito, l'idillio il sorriso, la commedia il riso, la tragedia il rantolo; quattro forme che comprendono tutta la vita, come le quattro corde del mio violino esprimono tutta la musica: osservate come il vagito ed il rantolo, il cantino ed il basso, la corda dello strido e la corda del gemito siano gli estremi della gamma. L'egloga è il vagito che cerca, l'idillio il sorriso che trova, la commedia il riso che prende, la tragedia il rantolo che lascia. Nella commedia la coscienza si eleva sugli altri, e li ferisce: nella tragedia supera se stessa e si suicida. Così voi, signora, siete al disopra del mondo, e ne ridete; ma siete al disotto di voi stessa, e v'ignorate. Ah! non vi lusinghi l'altezza dello scoglio, e contentatevi della vostra magnifica terrazza piena di aranci e di magnolie. Sulla cima dell'Etna Empedocle è più alto di Aristofane sul palco del proprio teatro, ma per discenderne non gli resta più che gettarsi dentro al vulcano. E vi è una vetta ancora più alta dell'Etna, alla quale pochi potranno salire, e dalla quale nessuno può discendere. Di là si scorge la carovana della umanità passare per il panorama dell'infinito, come una carovana di camelli nel deserto, atteggiando una labile coreografia di fatti e di sogni. Quella è la cima del Nirvana, un monte di dolori più alto del Davalaghiri gettato sul Everest, del Chimborazo gettato sul Davalaghiri, sul quale la indifferenza sta eternamente. Un uomo solo vi è arrivato e si chiamava Bouddha; ma noi spiriamo tutti sui gioghi più bassi della tragedia, mentre egli ci guarda sublime di insensibilità dibatterci nelle spirali della vita, bambini col riso convulso di un solletico, uomini col riso straziante di una convulsione. Egli vede la rivolta di tutti e la rissa di ognuno contro il medesimo problema; la folla che stramazza nel piano, i pochi che rotolano dai dirupi, l'arte che soccombe di angoscia, la scienza che muore d'inanizione, la filosofia che s'inerpica e si arresta morente ad ogni minuto, la religione che precipita agonizzante di scheggia in scheggia: mira la rivelazione del nulla, suprema verità, nelle anime; quelle che si contraggono nello strazio, che si gelano nell'orrore, che si frantumano nella disperazione, che si dissolvono nella coscienza del dolore universale: guata la santa indignazione dei martiri e la collera virile degli eroi, l'avvilimento contenuto dei buoni e il motteggio funebre dei tristi, la desolazione incredula di quelli che pregano e lo spavento credulo di quelli che bestemmiano, quelli che uccidono e quelli che generano, quelli che nascono e quelli che muoiono; ma di lassù, dalla cima del Nirvana, nella indifferenza dell'infinito, dell'assoluto, della insensibilità. Discendiamo, signora, o se ci è fatalmente conteso, restiamo, voi sul carro di Tespi, io sul Caucaso di Eschilo: là almeno si ride, qua almeno si piange; ma più in alto, fra il Caucaso ed il Nirvana, vi è ancora meno aria che fra la luna ed il sole; un etere sottile, che impedisce la vita e non produce la morte. Poichè la nostra esistenza è una scala, alla quale rompiamo giornalmente i gradini, montandoli; e quindi la commedia non può più discendere fino all'idillio, nè l'idillio sino all'egloga: poichè non mi è dato invitarvi sulla mia tragica balza, lasciate almeno che vi miri laggiù in tutta la vostra bellezza di donna, e la vostra festività di commedia. Sgranate le perle del vostro riso, lanciate i trilli del vostro canto, vibrate i raggi dei vostri occhi; moltiplicate il numero delle vostre feste ed aumentatene la pompa; mettetevi la corona d'oro sulla testa e il manto di porpora sulle spalle; togliete all'alba i colori e al mare i riverberi, e fatevene una bellezza, la quale stordisca il desiderio e confuti il paragone, accechi la memoria ed aromatizzi il pensiero. Solo sul mio dirupo vi guarderò non visto e non cercato. Nel silenzio della notte, quando i venti dormivano negli antri e le stelle vegliavano nel cielo, le oceanidi venivano a frotte sotto lo scoglio, i capelli verdi fluenti sulle spalle bianche del candore della perla, ed offrivano a Prometeo il ristoro del loro compianto, la distrazione del loro chiacchierio. Ma nessuno degli spensierati, che solcano, cantando, il mare, ha mai diretto la prora verso il mio Acrocerauno. Da molti anni vi sono solo e ignorato, come le ceneri di Biorn lo scandinavo, il primo che scoperse l'America, e che i compagni seppellirono sopra un promontorio di Vinland. Egli il primo era partito per un nuovo mondo senza sapere quale si fosse l'antico, nè dove giungessero i suoi confini; la sua barca bruna come il mistero, che affrontava, aveva tre vele come sono tre le virtù: era leggiera come la poesia, e piccola come la fortuna di tutti coloro che inventano. Nessuno sapeva forse del viaggio, nessuno sospettava l'impresa: forse il capitano non volle nemmeno confessarla, e, issando la vela, credette di salpare per l'infinito. Ora egli dorme sulla cima di un promontorio sconosciuto, e l'amante del poeta scandinavo porta il nome di un mercante fiorentino. E che importa la gloria? Quando le brezze del mare porteranno su quella cima il fumo delle vaporiere e le canzoni dei naviganti, il vecchio marinaio non alzerà nemmeno la testa per rispondere con un sorriso: perchè egli sa


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