Quartetto. Alfredo Oriani

Quartetto - Alfredo Oriani


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famigliarmente colle stelle, essa ricompaia e ricopra astiosamente l'universo; e non è vero che nel principio fossero le tenebre, e che alla fine saranno le tenebre. L'ombra invece è innamorata della luce e la segue dappertutto. Mentre i colori si posano ovunque scintillando, osservate come l'ombra si sdraia voluttuosamente sotto a tutti i corpi, e col proprio contrasto raddoppia la loro vivezza: quando il meriggio discende, l'ombra si allunga, sale per lo stelo dei fiori, per il tronco degli alberi con una leggerezza amorosa, e li avvolge nel proprio vapore; come voi, signora, avrete molte volte riposto negli astucci i brillanti, che ad un ballo vi avevano fatto prendere per una bella notte stellata. Non è vero che l'ombra detesti la luce, e la menzogna sia nemica della verità, giacchè non si bacerebbero così spesso sulla medesima bocca e con tanto trasporto. Avete mai veduto due gemelle vestite con altrettale eguaglianza? Se la verità è il sole della vita, la menzogna ne è l'ombra; e per la strada del pellegrinaggio, quando la fatica ci ha affranti e la polvere riarsi, l'ombra di un albero è pure la sola speranza ed il solo ristoro. Che sarebbe di noi tutti, se costretti alla verità, dovessimo sollevare sempre il velo sulla cuna delle nostre intenzioni, o alzare il coperchio sulla tomba dei nostri ricordi? Se io dovessi confessarvi tutte le ragioni, perchè m'incanto a guardarvi, e voi tutte le altre, perchè vi lasciate guardare? Poichè i costumi sono la gentilezza delle nazioni, i complimenti sono la bontà degli individui: ma, come il bello ideale nella pittura non è che la correzione del brutto nel vero, il buono ideale nella vita non ci viene che dall'oblio volontario del cattivo. Mentite dunque, signora, poichè la misura della bontà consiste nel bene che si prodiga, e la natura diede per noi alle donne la menzogna e la bellezza. Profondete gli sguardi ed i sorrisi, i giorni e le notti; gettate a piene mani speranze e soddisfazioni, ricordi ed oblii; sminuzzate l'amore per moltiplicare gli amanti; invece di essere un sole immobile nella vanità della propria mole, siate la cometa, che vaga per l'empireo, ed ha un saluto per tutte le stelle. Bella come la primavera, siate così piena di grida e di fiori, abbiate la foga dei suoi balli, dei suoi canti, la sua gioventù eterna, che dà poco e si contenta di meno, ma che colora e profuma, accorda e solleva, scorazza e non fugge. Poichè tutto è menzogna nella vita, mentite voi pure, signora; mentite come mentono il pianto del bambino, che finge di arrivare fra noi dal cielo degli angeli, e il pianto del moribondo, che è sicuro di ritornarvi: come la povertà, che ha il medesimo sole della ricchezza, la ricchezza, che ha le medesime malattie della povertà; la scienza, che non sa nulla come la religione; l'arte, che ha tutti i difetti della vita, la vita, che ha tutte le impotenze dell'arte. Mentite pure se tutto mente; la gioia, che esagera se stessa per affliggere l'invidia; il dolore, che si macera per desolare la pietà; la pietà, che offrendosi ad ognuno, non si dà mai per riserbarsi a tutti; l'imbecillità, che si arroga i diritti del genio; il genio, che nell'amarezza della propria vanità si dichiara imbecille. Bisogna pur mentire, signora, per essere amabili, e lasciarsi ingannare per essere felici. Che importa la fine? Vi è forse una fine? Riso e sorriso! ma sorridendo, aprite tanto le labbra, che vi si possa gettar dentro un bacio, e spalancando le braccia, badate di chiudere gli occhi come la carità, che è la prima di tutte le virtù. L'elemosina consola più il ricco che il povero, perchè quegli non dà che il superfluo, mentre questi non riceve nemmeno il necessario; la fede giova più all'incredulo che al credente, poichè il primo vede sempre il secondo nella pania delle sue stesse sciagure; la speranza frutta meglio a chi la dà che a chi la raccoglie, giacchè l'uno ne è il padrone e l'altro ne è il servo. Vedete bene, signora, che nella nostra divisione la giustizia ha dato a voi tutto, e a me solamente il resto, a voi un palchetto di prima fila, e a me un posto nell'orchestra. E quando voi apparivate e tutte vi guardavano, io ero laggiù talmente lontano, che nemmeno il vostro pensiero poteva raggiungermi. Allora non so cosa mi accadesse nell'anima, ma, come se una bufera mi si scatenasse nel cervello, mi sentivo dei lampi dentro gli occhi e dei sibili alle orecchie. Quindi riafferravo disperatamente il violino, e mentre tutta l'orchestra reboava, e la luce dei mille fanali sembrava incendiare le decorazioni della scena, solo, senza più vedere nè intendere ricominciavo delirando a suonare. Nella effimera onnipotenza di quell'impeto, mi pareva che il mio violino coprisse tutti gli altri, e le sue note mi turbinassero sulla testa come tante faville e sopra un vulcano. Ogni crina del mio arco aveva la potenza di una corda, ogni corda dell'istrumento la sensibilità di un viscere vivo. Io stesso vibravo per ogni fibra, ma innalzandomi al disopra di tutta l'orchestra, vedevo la vostra dolce figura salire sempre più in alto, come camminando la notte per un bosco si vede la luna scavalcare ad una ad una tutte le cime degli alberi. Poi la visione mi si cangiava: ero nella tenebra, un vento gelato mi soffiava sulla fronte, le corde mi si irrigidivano sotto le dita come le gomene di una nave. L'ultima raffica strappava la vela, l'ultima onda di canto sommergeva il ponte, l'ultima stella spariva dietro le nuvole, l'ultima speranza cadeva sul cassero come un gabbiano sbattuto dalla tempesta nella alberatura: l'ultimo atto era finito, e la gente se ne andava. Io solo era rimasto nell'orchestra, voi sola eravate seduta nel palchetto. La lumiera salendo squarciava il zodiaco dorato. Allora un'orribile tentazione di suonare, perchè vi voltaste, mi artigliava il cuore: senonchè le dita, raggrinzite convulsivamente sulla tastiera, non sapevano più scorrere; e voi mi rivolgevate indolentemente le spalle. Finalmente ero rimasto ultimo nel teatro, io, che era l'ultimo anche fuori. Essere solo non è forse essere l'ultimo, come essere primo non significa essere solo? E questa giustizia mi faceva ridere di un riso muto, di pazzo, che invece di muovere la bocca agita le mani, e brancola, stritola, coi polmoni gonfi, il cervello in fiamme, il cuore che gli urla, tutte le fibre tese, vibranti come tante corde, che si romperanno ad ogni scoppio, perchè anche le corde si schiantano:

      Ah!

      La seconda corda si è rotta, ma una suonata come una impiccagione non si sospende per la rottura di una corda. Poichè siamo soli in questo gabinetto, restate là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. È notte. Il cielo si è fatto buio come un mare, e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto, voi, che sarete stata per tanti il loro più grande pericolo, ai pericoli del deserto e del mare, dei miraggi e delle sirene? Eppure nessun miraggio ha il fascino dei vostri occhi, e nessuna sirena la soavità della vostra voce. Quando tutti vi hanno detto che siete bella, lo avete saputo solamente allora, e quindi troppo tardi per ricordarvi dei primi, troppo tardi ancora per ringraziare gli ultimi? Perchè, se il genio si ignora spesso, la bellezza si conoscerebbe sempre! Volete che vi descriva col mio arco, come il pittore lo oserebbe col pennello? Non ho più che due corde, ma noi pure siamo in due, e se fallo, voi ne avrete sempre una per sferzarmi, io quell'altra per punirmi. Lasciatemi provare, e se vi conosco più della gloria, che non ho ancora raggiunto, non vi dispiaccia di ascoltarmi. I vostri capelli d'oro, biondi come l'oro della sua aureola, sono più lunghi del mantello incantato, sul quale essa vola sempre dinanzi agli avvenimenti. Quantunque neri più che l'ombra di un sepolcro, i vostri occhi risplendono come una fiamma; nessun fiore è più colorito del vostro sorriso, nessun frutto forse più sapido della vostra bocca. Leggiera come una rondine e forte come un falco, il vostro volo ha la grazia di uno scherzo e l'impeto di una minaccia; ma come l'orizzonte, del quale avete preso la leggerezza e le nuvole, siete inafferrabile e mutevole. I profumi vi attirano, i colori vi innamorano: vi ho veduto sulle vesti tutte le tinte dell'iride, vi ho odorato sulla testa tutte le fragranze della terra, dai sentori acuti del tropico agli olezzi morbidi delle serre, dalle essenze sapienti del lambicco agli olezzi morbidi del deserto. Ho veduto la vostra testa sorgere da un abito di raso bianco, coi capelli bagnati di stille, che erano perle, come una rosa delle alpi spunta sulla neve: vi ho veduta più pallida nel rosso che eccita i tori, più candida nel bruno che adombra la morte, più florida nel giallo che è il colore della ricchezza. Ho veduto il vostro collo rifulgere come quello di una colomba fra i bagliori dei brillanti, e sanguinare come per un colpo di ghigliottina fra le gocce dei coralli. Talora i vostri abiti avevano la fluidezza di un velo, tal'altra i panneggiamenti duri del marmo; il velluto vi cadeva attorno colla pesantezza di un cortinaggio; la seta vi rideva addosso con una gaiezza scoppiettante ad ogni più piccolo moto: i merletti vi gettavano un'ombra diafana, come i loro ricami, sul seno e sui polsi. Quando camminavate, tutta la vostra persona si animava; i vestiti le si drappeggiavano sopra con un discernimento da artista; seduta, avevate delle pose da regina e da tigre, da statua e da sogno. Il vostro piede piccolo, ma fatto per calpestare tutto ciò che gli altri ammirano, le pellicce e i mosaici, i fiori e gli affetti, si posava dovunque egualmente imperioso; la vostra mano, sempre molle e profumata, esprimeva il torpore terribile di un agguato, come la stanchezza soave di una carezza: facevate dei dialoghi, che parevano soliloqui: avevate


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