Quartetto. Alfredo Oriani

Quartetto - Alfredo Oriani


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quanto il maestro, il Ferrari, è morto ieri, e nessuno se ne è avveduto. Come si chiamano oggi i filosofi d'Italia? Ho letto Vera, e l'enormità di Hegel mi ha ispirato una calda ammirazione per l'interpetre; Ausonio Franchi, che Michelet battezzò il primo logico del secolo, si è ritirato dalla lotta; Augusto Conti, sentimento greve e ragione leggera, scema l'imponenza dell'autorità e il prestigio della poesia alla vecchia causa, che difende: Ardigò applica a se stesso la teorica della evoluzione, e di canonico si trasforma in ateo; Bovio, una nebulosa nella scuola, è diventato una nebbia nel Parlamento. E gli altri? Messedaglia e Correnti hanno trovato per la loro scienza una delle prose più belle del tempo; il Villari, spirito saldo ed acuto, preludia vigorosamente nella critica e nella storia; il padre Tosti mantiene il magnifico stile italiano di una volta, l'abate Fornari incolla l'abate Cesari sull'abate Gioberti, il Minghetti risente del Costa, il Tabarrini unisce al profumo dell'eleganza antica i sentori della vita moderna, il Bonghi, mente vasta e profonda, prodiga osservazioni e consigli talmente buoni, che nemmeno egli stesso sa praticare. Chi dunque alza una bandiera, la quale raccogliendo tutti gli sparsi manipoli, rannodi un esercito? Dov'è la lingua vera? quale è lo stile vivo? Manzoni prima di morire si abboccò col Bonghi su questo: che ne decisero dunque? Chi ha ragione, la piazza o la scuola, la tradizione o la vita? Certo col linguaggio della scuola non si può esprimere tutto, ma col linguaggio della piazza è altrettanto certo che non si è intesi da tutti. E non per tanto lo stile è tutta l'arte, perchè in pari tempo parola e frase, colore e disegno, ombra e luce, forma e sostanza. Quale oggi di tutti questi giovani ribelli, che disprezzano il passato e i passati, scrive una pagina come alcune del Tommaseo, o detta solamente un periodo, che si riconosca fra centomila, e sia forse il più bello, come uno qualunque del Mazzini? Profeta, apostolo e condottiero, la missione e l'epopea della sua vita gli contesero di essere forse dei primissimi fra gli scrittori del secolo, e non per tanto d'Italia fu il più nuovo ed il migliore. Immaginoso come il Niccolini ebbe il calore del Guerrazzi, colla fluidità del Manzoni e la precisione del Tommaseo: italiano dei tempi futuri, sarebbe parso un contemporaneo agli italiani del secolo d'oro, e nullameno le sue erano idee, alle quali egli primo aveva dovuto trovare una formula italiana. Filosofo etico come Socrate, non entra e non entrerà nella storia della filosofia del nostro secolo, che si inizia con Kant, sale fino ad Hegel, ridiscende fino a Spencer; ma se in lui la elevazione del sentimento superò quasi sempre l'altezza del pensiero, la perfezione del suo linguaggio ispirerà sempre una ammirazione malinconica, come se nella fiamma dello stile, col quale doveva riscaldare tutto un popolo, egli gettasse, sacrificatore disperato, colla sua vita di uomo la sua immortalità di artista. Ed oggi il Saffi, modesto Aronne di questo Mosè, che ha potuto morire nella terra promessa, conserva tuttavia nella devota interpetrazione del recente evangelo un raggio di quella purezza, che l'anima sembra comunicare alla parola, un residuo di quella efficacia nella frase, che il maestro gli apprese scaturire dalla sincerità del pensiero e dalla rettitudine della intenzione. Mazziniano meno ligio alla nuova legge, ma che pagò col proprio esilio e col sangue dell'eroico fratello la fede all'Italia, Giovanni Ruffini, del quale i giornali recano oggi la mesta notizia della morte, dovette farsi inglese per vivere del proprio ingegno e della propria gloria. La patria ingrata non lo conobbe che tardi, e non mandò nessuna rappresentanza ai suoi funerali. Scrittore del tempo eroico, quando lo scrivere era un combattere, egli parve dopo artista altrettanto fine, ma la sua arte, sempre mazziniana d'ispirazione, rimase ottimista, difendesse l'Italia o un'idea, sognasse una patria od una virtù. E nullameno fu posposto al D'Azeglio ed al Grossi, pei quali vi furono monumenti, oggi già più vecchi dei loro libri già morti. L'Ettore Fieramosca ed il Marco Visconti contemporanei del Dottor Antonio destarono un entusiasmo, che dura tuttavia in rispetto, malgrado che il primo fosse una degenerazione dei poemi guerrazziani, e il secondo rappresentasse la putrefazione del genere Walter Scott, che Manzoni, con uno sforzo allora incompreso e adesso ancora quasi incomprensibile, aveva alzato quasi sino alla maniera del Balzac. Ed oggi, che i violenti attacchi del Carducci alla lirica manzoniana hanno quasi reso di moda il disprezzo del grande poeta e romanziere, che fu naturalista, per usare questa nuova parola, quando solo Balzac lo era senza teorizzarne, e Zola sognava forse nell'utero materno, si osano citare a modelli il D'Azeglio ed il Grossi, la nullità del pensiero ed il lattime del sentimento: dai quali derivò la teorica dei buoni libri, eretta a dogma dai manzoniani. Per essa la moralità privata deve valere l'ingegno pubblico dell'autore, e la misericordia delle intenzioni ogni altra qualità di fantasia e di sentimento, di forma e di sostanza. Così la critica minuscola, ridotta dai giornali a sacerdozio come l'arte, crea e distrugge le effimere riputazioni sui giornali sbocciati. La grande critica tace: Settembrini, temperamento storico ed ingegno sistematico, è morto: il De Sanctis, temperamento poetico ed ingegno filosofico, dopo aver messo la psicologia a base della critica, sostituì troppo spesso la intuizione all'analisi; quindi i suoi ritratti diventarono teste, e le pretese lezioni di anatomia si cangiarono troppo sovente in speculazioni metafisiche, nelle quali il tempo storico era appena un colore, e il simbolismo dell'idea toglieva quasi ogni significato alla varia composizione umana dell'individuo. Il Carducci, lirico ed erudito, volle essere critico, e lo fu splendido e forte come in tutto ciò, che ottiene sempre dalla sua volontà. Forse se non il genio, poichè dei primi fra i primi del mondo, egli ha comune nel secolo col Balzac la nobile ed incalcolabile energia della volontà, colla quale coltivando instancabilmente il proprio terreno è arrivato a farne un ricco giardino, sebbene la sua flora originaria non fosse nè troppo varia, nè molto opulenta. Ma egli vi trasse semi da tutti i climi, le palme dell'Africa e gli abeti della Germania, le rose della Grecia ed i gazuma dell'America; vi educò la vite colla stessa perfezione dei vignaiuoli francesi, amò l'edera e si compiacque ad incoronarne le vecchie statue dissepolte, colle quali andava ornando i viali. Ma nella critica preferì la necroscopia alla diagnostica, i morti ai vivi, simile in questo al D'Ancona, che spinse la passione dell'anticaglia fino alla ghiottornia dei più minuti particolari, sprecando non si sa se più ingegno o dottrina; mentre il Zendrini, morto da poco, scambiava la propria cultura per una capacità critica, e il Massarani sdottrineggia ancora pigliando l'arte per la riprova di una teoria morale, piuttosto che per una totale rappresentazione della vita: il Trezza svapora in una fraseologia nebbiosa, il Franchetti nell'Antologia oscilla fra il buon senso ed il buon gusto, il Nencioni in articoli brevi e talvolta bulinati corregge l'influsso delle letterature straniere sulla nostra, analizzando gli esempi che la più parte invocano senza conoscere. Così, mentre la critica diventata embriologia nel Bartoli studia con amore sapiente le origini della nostra letteratura, e falsa o sdegna l'opera contemporanea, il verso che tubava ieri coll'Aleardi, zirla adesso col Fontana, parla collo Stecchetti, sorride col Panzacchi, stuona col Rapisardi, abbaia col Cavallotti, novella col Giacosa, si libra col Zanella, esulta ancora col Prati, crea col Carducci. Questi risuscita miracolosamente gli antichi metri latini, e vince nella prosodia una battaglia combattuta infelicemente da altri ingegni in altri secoli, ma il pubblico applaude senza gustare: Rapisardi, invidioso della risurrezione, profana il sepolcro dell'epopea, e ne trascina sulla piazza il cadavere purulento. Quando alla vita scema lo splendore manca il rispetto alla morte: i forti sono prudenti, i deboli sfacciati. E tra il Carducci e il Rapisardi, un poeta ed un ingegno, Renato Fucini è ancora l'uno e l'altro, sebbene il Porta gli sia ancora troppo al disopra e il Belli ancora molto innanzi. Ma primo fra i nostri lirici viventi, il Carducci pretende di essere l'ultimo nella storia e nella nostra lirica, poichè essa muoia: e già la musica, questa lirica della lirica, agonizza. Verdi, il superstite dell'immortale quadriglia, ricorregge colla mano tremula le opere della giovinezza, come un vecchio capitano ama di riforbire egli stesso la spada, che non può più cingere: il Boito ha impiegato dieci anni a scrivere il Mefistofele e riposa sugli allori guadagnati contro il Gounod: il Gobatti, giovane e fortunato condottiero dei Goti, ha d'uopo ancora di nuove battaglie e di nuovi trionfi. La musica classica è quasi obliata malgrado il valore dei suoi tre ultimi campioni, lo Sgambati, il Bazzini, il Rinaldi; nella piccola musica si adora il Tosti, e si misconosce il Gordigiani, si chiedono romanze da salone, le quali girino sulle casse dei pianoforti come tanti scarabei luminosi, invece di libellule, che balzino nei raggi del sole e vi scintillino. Così il canarino vince l'usignolo, e il profumo dei fazzoletti copre l'olezzo dei fiori.

      Ed ecco l'arte dell'Italia fatta alla sbarra del mondo e della storia.

      Certo la grande questione pregiudiziale della lingua ha efficacemente contribuito alla attuale miseria, epperò sorvolandola, penso collo Zola, che la nuova lingua dovrà uscire dalla officina del giornale,


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