Quartetto. Alfredo Oriani

Quartetto - Alfredo Oriani


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bisogno, o di esprimere un'idea nazionale; quindi molti furono i grandi, moltissimi gli illustri. Come se l'Italia volesse conquistarsi l'ammirazione dell'Europa per strapparle in un applauso il permesso di risuscitare, profuse i pensatori e gli artisti, i martiri e gli eroi; laonde dopo la rivolta del '31, esplose la insurrezione del '48, scoppiò la rivoluzione del '59. L'epopea fu così meravigliosa, che parve un miracolo, e resterà una favola; ma nessuno ha ancora osato fare il computo di tutti i sacrifici, che vi contribuirono, di tutti gli ingegni, che vi cooperarono. Vi furono libri che valsero battaglie, battaglie che nessun libro saprà mai narrare: si udirono motti che erano poemi, si fecero poemi, dei quali nemmeno un motto fu scritto. Accanto ai colossi del pensiero si drizzarono i giganti dell'azione, le corone dell'alloro furono posposte alle ghirlande del martirio, il sangue fu scialacquato come il danaro, le parole ebbero efficacia di fatti, i fatti prontezza di parole. E il sogno colorato dalla luce di tante fantasie si solidificò, come per incanto, sotto lo sforzo di tutte le volontà, mentre l'Europa guardava attonita dalle Alpi, e Roma si levava trasognata sul Tevere. Ma appena compiuto il prodigio, tutti si mirarono in faccia e nessuno più si riconobbe; quasi tutti i caratteri si ritirarono, quasi tutti gl'ingegni rimasero; gli eroi diventarono militari, i martiri si cangiarono in impiegati. L'epopea finiva fatalmente alla commedia, dacchè l'idea si era tradotta nel fatto, e il sentimento si riabbassava verso il senso. Era una legge della vita e della storia. Ma allora quelli, che avevano fatto l'Italia, cominciarono a sentirsi vecchi e ad essere riconosciuti per tali dai sorvenienti, leggeri e rapaci come tutti i saccomanni dopo la battaglia: l'arte e la filosofia, la politica e la milizia trionfanti non piacquero più, e si chiese del nuovo. L'ingegno, che si era manifestato così splendidamente nei padri, i figli se lo supposero volentieri, e guardando ai rivali d'oltr'alpe, si accinsero a sorpassarli nelle opere, come li avevano raggiunti nella vita. Ma la nazione aveva esaurito creandosi forse l'ingegno di due età, e i novatori d'Italia diventarono i plagiarii dello straniero. La generazione del '49 mancò nella storia del nostro pensiero. Fortunatamente l'ombra del monumento eretto sul suo confine lo nascose, e i posteri non s'accorgeranno forse della lacuna. Ma poichè l'impotenza rende malvagi e il sacrifizio ingrati, i nuovi scrittori risero dei vecchi, Guerrazzi fu troppo asmatico, Manzoni troppo cristiano, Niccolini troppo rettorico, Leopardi troppo classico. Il dualismo fra la scuola toscana e la scuola lombarda divenne scisma, e le eresie avvamparono nelle sue polemiche. Intanto nessun nuovo campione discendeva bene in armi nell'agone a percuotere sugli scudi dei vecchi tenitori di campo. Qualche paggio faceva bensì prova di destrezza giocarellando con una mazza, o un catafratto, chiuso nell'armatura pesante della erudizione, si pavoneggiava tutto solo; o un cavaliero, montato sopra un magro cavallo, tentava un giro al galoppo e, cascando ai primi passi col cavallo sul petto, giaceva. Finchè i tenitori di campo rimasero, malgrado le vanterie dei torneadori e le grida della folla, non vi fu nemmeno un duello, ma uno ad uno quegli scudi terribili furono levati. Sul primo c'era scritto Arnaldo da Brescia, sul secondo Assedio di Firenze, sul terzo Promessi Sposi. Uno solo, toscano alla parola, vestito classicamente, con un elmo tedesco sulla testa, aveva osato farsi largo fra la ressa e percuotere sprezzantemente col proprio scudo, nel quale era scolpito un Satana, sullo scudo di Manzoni. Se non che uno scudiero, dal volto smorto e gli occhi rossi, veniva in quello stesso momento a levare lo scudo glorioso: il vecchio guerriero era morto senza sapere della sfida. L'audace aveva troppo tardato.

      Quindi egli rimase solo, e fu primo.

      Ma questo illustre, per il quale ogni aggettivo comincia oggi a parer piccolo, e che seguaci fanatici invocano col nome ridicolo di pontefice, si era faticosamente educato alla stessa scuola degli antichi, fra le ombre incappucciate del primo rinascimento. I suoi giovani canti erano sembrati echi di perdute ballate; poi la rivoluzione, strappandolo a quei sogni toscani, gli aveva insegnato, coll'eroico linguaggio dei fatti, nuovi ritmi e nuove parole. Nullameno ignorato od incompreso per molti anni, invece di capitanare il nuovo movimento, parve ne continuasse un altro; mentre i giovani volontarii della letteratura, che avevano forse lasciato allora le bandiere del Garibaldi, ne cercavano un altro egualmente splendido, ma altrettanto facile. Invece il nuovo duce, che varcate le Alpi scrutava in quel momento per la Germania, preludendo alle teoriche ed ai trionfi di Moltke, affermava la necessità di una profonda dottrina per ogni ordine di milizie, e di una grande tradizione per una grande arte. Naturalmente i giovani volontari non intesero, o sdegnarono, e l'austero superbo rimase senza esercito.

      Intanto due capitani di ventura levavano il campo a rumore: uno era vestito da bardo, l'altro da menestrello. Il primo coi panni sciattati, un mantello reale, ricamato di perle e schizzato di fango neglicentemente gettato sulle spalle, coi capelli che gli svolazzavano da un elmo fantastico, si abbandonava alla stupenda dolcezza del proprio canto, e cantava di tutto. Aveva la voce maschia e molle, le note piene, le cadenze quasi sempre leziose: ma le canzoni salivano dalle sue labbra con un volo inesauribile di insetti in un raggio di sole, e la sua fronte, sulla quale le visioni passavano come le nuvole in cielo, aveva una ineffabile espressione di malinconia. Bardo e capitano fu troppo l'uno per poter essere l'altro, nobile e bello non cercò d'ingrossare il proprio seguito, e procedette combattendo e cantando come un eroe di Ossian. La gente lo chiamava Prati, i giovani imparavano le sue canzoni, i critici insultavano il poeta e la sua poesia. L'altro menestrello era una figura femminea. Portava le scarpette scollate, le calze di seta, il giustacuore a sbuffi con un cuore, trafitto da una freccia d'oro, ricamato sul petto, e un berrettino con due penne di airone, che gli ricadevano sui ricci profumati della capigliatura. I suoi occhi avevano il languore spasimante di un paggio, le sue dita erano cerchiate di anelli come quelle della sua dama; e toccando il mandolino con una grazia piena di civetteria si avanzava occhieggiando ai balconi. Un giorno, da una finestra inghirlandata di vasi, una mano bianca gli aveva gettato un mazzo di viole, ed egli le portò sempre sul petto. Quelle viole diventarono la sua poesia, il loro profumo fu tutto il suo pensiero, ed il suo sentimento. La gente lo chiamava Aleardi, le donne cantavano le sue romanze, i critici basivano di ammirazione in faccia alla sua poesia ed al poeta.

      Ma dietro loro, nel corteo variopinto, più di una figura e di una testa avrebbero dovuto attirare l'attenzione. Due vecchi, Mamiani e Tommaseo, dalla fronte alta e serena, procedevano a braccetto dietro la medesima idea e la medesima musa: il primo aveva pur trovato qualche canto, oggi perduto, e che sarà forse rintracciato fra un secolo; il secondo aveva dato il volo a qualche inno, che pochi avevano letto, ma che molti avevano ammirato, come un anello, che tentava di congiungere filosofia e religione, la tradizione dell'arte antica col sentimento dell'arte moderna. Però l'Uberti, malgrado i grandi sforzi, non potè uscire dal manipolo tumultuoso dei Tirtei da bivacco, i quali seguitavano le loro storpie canzoni senza l'accompagnamento delle fanfare ed il rullo dei tamburi: e quindi un levita ed un alfiere, irrompendo dalle file, parvero raggiungere per un momento i due acclamati capitani. Il primo era Zanella, il secondo Praga: questi morendo nominò eredi lo Stecchetti ed il Boito, all'uno lasciando la sensualità famigliare, all'altro la stramberia immaginosa. Zanella invecchiando sentì morirsi intorno quasi tutte le proprie poesie. Eppure pensatore modesto aveva avuto qualche nuovo ed elevato pensiero, cesellatore paziente aveva dato a qualche strofa la solida eleganza di un bronzo, la finitezza squisita di una orificeria. L'altro fu più una poesia che un poeta. Il tremito convulso della mano gli guastò quasi sempre il disegno, o gli intorbidò il colore, mentre il suo pensiero, che avrebbe avuto la grazia della leggerezza, prendeva volentieri la goffaggine della gravità; e la pretensione dell'orgoglio falsificava l'ingenua violenza o la mollezza nervosa del suo sentimento. Nullameno egli fu nuovo, e più semplice sarebbe stato originale.

      Intanto Rovani, discendendo la parabola luminosa dei suoi Cento Anni, arrivava fatalmente alla Giovinezza di Cesare, abbandonato da Tarchetti e da Nievo, che gli si erano serrati attorno per un momento. Ambedue erano morti presto, ambedue prima di spegnersi ebbero o parvero avere un'ora di astro. Forse il raggio della pietà accresceva la luce della loro gloria, e la morte incontrata all'avanguardia parve al resto dell'esercito un segno di vittoria. Il primo scrisse perchè sentì, ed il suo stile peccò come il suo sentimento; il secondo pensò e sentì ciò che scrisse, ed il suo stile avrebbe forse potuto mantenere ciò che aveva promesso. Tarchetti è diventato un martire nel martirologio della boemia, Nievo è dimenticato persino dai cronisti dell'arte. E mentre il romanzo si contorceva nella culla, il dramma e la commedia si contorcevano nell'agonia. Giacometti, ingegno vasto, ma corroso dalla rettorica, aveva ceduto il campo ai sorvenienti: Cicconi, sbocciato e caduto come un


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