Quartetto. Alfredo Oriani
vi aveva alzate e che il ghiaccio vi aveva rese eterne; qualche volta in un rombo lontano lontano sembrava di ascoltare fracasso di fiumi, lunghi come una vita e vasti come un pelago; talora un cavaliere, in costume irreconoscibile, si affacciava al confine della landa come un'apparizione misteriosa, gettava uno sguardo su quel mondo già vecchio due volte, e spariva in un turbine di vento con un galoppo fantastico. Quel cavaliere, cui l'immaginazione trepidante dava il nome di Sarmata, era l'avvenire, e adesso è il presente. Il Sarmata si chiama Russo; ha sconfitto l'altro ieri l'ultimo Cesare romano, che gli aveva mosso contro da Parigi, e si è fermato ieri per la seconda volta sotto le mure di Bisanzio: egli è l'ultimo vincitore nella storia dell'Europa, l'ultimo impero nella geografia dell'Occidente.
Sgraziato come tutti i colossi e senza verginità di adolescenza come tutti i mostri, egli è passato dalla infanzia alla virilità, dalla crudeltà della selvatichezza alla ferocia della civiltà. Privo di tradizione e quindi di ideale, la sua unità è un'agglomerazione, la sua vita un istinto, la sua forma un embrione, la sua potenza una massa, la sua difesa la natura, la sua ricchezza gli viene dalla atonia di ogni sentimento e dalla brutalità di ogni bisogno. A volta a volta nomade e contadino come l'arabo, il cielo gli negò coll'azzurro la bontà del cuore, il sole non gli accese coi raggi la generosità nel pensiero: quindi il freddo, che restringe tutti i pori, gli racchiuse per sempre l'egoismo nell'anima, e la neve, che confonde tutte le fisonomie, gli intorbidò le forme dell'intelletto. L'uniformità della natura pesò sulla sua società: i gruppi umani apparvero disseminati nel suo impero come i gruppi degli alberi per le sue steppe, poi come gli uccelli unirono gli alberi col loro volo di landa in landa, i cavalli congiunsero gli uomini colle loro corse di provincia in provincia; e lontano, al di là degli occhi, al disopra del pensiero, come una montagna dalla vetta invisibile, il trono e l'altare furono una visione bianca e fredda, terrifica ed incompresa. Dalla sua cima la legge ruinò e si distese come un vento, che inclina tutte le piante e rugge agli angoli di tutti i tetti; sulla sua cima lo czar, fantasma sublime ed ignoto, aperse la mano a benedire come un pontefice e la strinse per brandire la spada come un imperatore: e d'allora la croce di Ivano il Grande sfolgorò contro la luna falcata di Maometto secondo, e la lotta fra la costellazione e il pianeta ricominciò più violenta ed implacabile.
Prevalse la croce, giacchè se una bufera d'inverno può prostrare le forze della primavera, questa non potrà mai prevalere contro la rigidità dell'inverno. Il Nord è invincibile nella sua corazza di ghiaccio, ma sarà sempre torbido nella sua aureola di neve. Impero vasto forse più che il romano, esso è un oceano di terra, nel quale qualche grossa città pare un'isola e qualche bella provincia un arcipelago: come il romano, racchiude molti popoli, ma in questo diverso, non ha nè detrito di civiltà, avanzi di religione o macerie di storie, colle quali covare una nuova èra mondiale. Cresciuto ai confini della vera Europa potè, esercitando una specie di contrabbando sulla frontiera, impadronirsi di qualche idea, ma la sua è una cultura artificiale, e prima che il sole la schiuda naturalmente sulla sua immensa superficie, dovranno passare altri secoli, nè forse il sole vi sarà mai caldo abbastanza. Se Pascal ha avuto torto affermando che la giurisprudenza varia coi gradi del meridiano, Bukle ha avuto ragione constatando che la civiltà è soggetta alle leggi del calorico, e non può salire al disopra di un certo grado di latitudine. Nullameno un fermento, ancora mal giudicato, fa oggi gonfiare la crosta di questo impero, che la geografia misurando ha trovato quasi pari al chinese, sebbene la statistica sommando lo trovasse di tanto inferiore; si direbbe che i suoi frequenti terremoti siano una palpitazione di vulcani i quali rompendo fra poco il loro fragile coperchio, lanceranno fino al cielo una spuma di lava e di fiamma. Lo squilibrio, che la differenza di popolo nella differenza di clima deve arrecare alla regolarità delle sue funzioni, e l'antagonismo tra la forma feudale della sua gerarchia e la forma democratica della sua cultura; la sua stessa estensione, per la quale la volontà della legge si rilassa inevitabilmente come una corda troppo lunga, e l'altezza inaccessibile del trono, che diventa così il centro misterioso di tutta la sua vita, ma il mistero responsabile di tutte le contraddizioni: forse la miseria della minoranza più spirituale colata sopra la povertà della maggioranza quasi bruta, come una putrefazione di germi precoci sopra un marciume di germi serotini; e forse una sofferenza, alla quale occorreva la uniformità di un tale impero per diventare più forte di lui, essendovi egualmente uniforme, hanno prodotto questo fermento sotterraneo per tutta la Russia, i terremoti che subissano la reggia non potendo rovesciare il trono, i vulcani che avventano bombe invece di lapilli, e questa rivolta, nella quale i ribelli hanno la terribile ubiquità dei fantasmi, e il motto della quale è il più incomprensibile nella storia, e il più assurdo nella vita — NIKIL —. Forse Napoleone portando inconsciamente la rivoluzione francese in tutta la Europa per stabilirvi il proprio impero, ve ne lasciò la semenza in quella orribile ritirata, l'ultima epopea dell'Occidente, che ha trovato un pittore ed aspetta ancora un poeta: forse l'impero russo vi perirà, e dai suoi frammenti, come da quello dell'impero romano, nasceranno tante nazioni. Ma a rovescio dell'altro, che aveva i nemici alla periferia, esso li ha al centro; quelli erano barbari e questi sono civili; i primi portavano un sangue giovane ad un cervello esausto, ad un cuore caduco; i secondi infonderanno idee mature ad un cervello adolescente, ad un cuore quasi animale.
E mentre nell'aria vibrano i fremiti della tempesta e la terra ti sussulta sotto i piedi, tu alzi appena il capo, e guardando al nord, ti stringi nelle spalle. Scettico, ma forte come un greco, tu sai che la vita è ancora più piccola che breve, che le tue pianure sono fertili, i tuoi cavalli veloci, i tuoi servi laboriosi. Sia che la croce e la mezzaluna si urtino un'altra volta sui tuoi campi, o una rivoluzione te ne cacci; che la tua provincia diventi un regno e il tuo villaggio una capitale, e lo schiavo di oggi si faccia padrone di domani, tu, greco, ammetti con Aristotile che vi saranno sempre degli schiavi, sai che la vita è breve, e la necessità del mietere non deriva dall'aver seminato, ma dal dover macinare. Uscito dalla società per rientrare nella natura colla stessa facilità, onde leggendo si passa da Swinburne ad Esiodo, tu vi hai recato la calma della ragione nella pace dell'istinto, la semplicità di un raffinato nella innocenza di un ignaro: e quando tutta l'Europa guarda verso l'America, tu, nipote di Colombo, hai guardato verso la Russia. Ora la tua vita chiusa entro la rivoluzione dell'anno agricolo non ha altra varietà che le stagioni, altro scopo che una messe, altro avvenire che questo scopo medesimo. La terra coltivata esprimerà il tuo pensiero, il benessere dei tuoi contadini attesterà il tuo piccolo regno. Così ispirandoti ad un verso di Virgilio, il tuo poeta antico prediletto, attui l'ultima scena del Faust, il tuo poema moderno preferito, ed immergendoti nella vegetazione di una terra vergine, purifichi il tuo spirito da tutte le malattie ereditarie delle nostre vecchie civiltà.
Ed ora che la natura ti ha reso straniero al mondo, esule, nobile e felice, non ti dolga se il migliore dei tuoi amici venga a parlarti di battaglie ideali, ostinandosi nella guerra, alla quale ti sei sempre rifiutato. Forse a qualche ora della notte o del meriggio, quando il tuo spirito riposa, un'immagine del mondo abbandonato ti sovviene ancora e svanisce; o nelle tue lunghe escursioni qualche fiore innominato o qualche canzone selvaggia ti hanno già ricordato i nostri fiori dal nome sapiente, le nostre romanze dal ritmo squisito. Che se migliaia di miglia ci allontanano e due mondi diversi ci separano, la nostra amicizia non ne sarà per questo meno intima, o il nostro commercio meno stretto. Gettati dalla natura nel medesimo stampo, e condannati dal destino alla medesima vita, sebbene tu abbia potuto eludere la condanna, ci saremo pur sempre presenti; e mentre tu mi troverai spesso a vagabondare pe' tuoi campi, io t'incontrerò sovente fra i miei libri, nella luce di un pensiero o nel sorriso di una frase, nell'ombra di un quadro o nelle pieghe di una statua.
Quando prima di partire per il tuo nuovo mondo mi scrivevi dissuadendomi da questa inutile e crucciosa guerra letteraria, le condizioni della nostra presente letteratura entravano forse per gran parte nel tuo saggio e malinconico consiglio. Se è sempre triste il nascere, vi sono epoche, nelle quali è tristissimo nascere uomo di pensiero o di azione.
Nei periodi di un fatto o d'un'idea ve ne sono alcuni che ci sollevano, altri che ci lasciano affondare, finchè un nuovo gettito sotterraneo non gonfi l'onda e l'innalzi fino al raggio del sole. La prima metà del nostro secolo fu per l'Italia una delle più belle fioriture d'ingegni, una delle messi più ricche di caratteri. La necessità sempre più crescente della rivoluzione metteva negli eletti della vita una vera forza di rappresentanza, che le finzioni parlamentari hanno poscia cercato inutilmente d'imitare, e che non raggiungeranno giammai.