Quartetto. Alfredo Oriani

Quartetto - Alfredo Oriani


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processo, ma diggià sull'incudine dell'articolo quotidiano qualche lamina viene superbamente battuta. La necessità di trovare un nome per ogni nuovo oggetto ed una formula per ogni nuova idea, egualmente compresa da tutti con uguale prontezza, ma specialmente uno stile agile e nervoso, elegante nella semplicità della eleganza moderna, colla fluidezza di un discorso e la correzione di un testo, predomina il giornale. Fiume e cloaca, che raccoglie ogni rivo e ogni scolo, come l'orchestra sognata da Berlioz, ha tutti gli strumenti e tutte le voci; effimero ed immortale come la vita, ne ha la stessa unità multiforme; è la forza più grande del nostro secolo, e ne sarà la gloria. Il giornale è essenzialmente moderno. La lingua, che in fondo non è se non un dialetto epurato, vi è in continua fusione; le parole vi si rompono e vi si formano fra un rombo assordante, un lavoro minuscolo ed assiduo, al quale cooperano migliaia di operai senza nome, mentre pochi direttori si aggirano fra di loro, sorvegliando con orgoglio di padroni. Molti articoli, che oggi si leggono già negligentemente, avrebbero fatto strabiliare inserti nelle pagine di un libro di trent'anni fa. Nullameno pochi sono ancora coloro, ai quali si possa riconoscere il merito vero di stilisti, sebbene, come osserva giustamente il Martini, il miglioramento nello scrivere comune italiano cominci ad essere sensibile. Tra i primi il Martini stesso, il De Zerbi, il Panzacchi, diversi di opinione e di indole; il primo forse ancora troppo toscano, il secondo ancora scorretto, il terzo italiano veramente, più fino di gusto e più forte di studi. Ingegno alato si posò dappertutto per involarsi appena posatosi; nato oratore come pochi, poeta che potrebbe tradurre nel verso più di una musica gentile, mentre tutti gli storpiano in musica le sue delicate romanze; critico, pel quale nessuna musica ha molti misteri, quella dei colori e delle note, della poesia e della prosa. Egli è celebre ed avrebbe potuto essere glorioso, se la pagana serenità del suo spirito, e l'ateniese indolenza del suo temperamento fosse stata guasta da un solo vizio: la vanità. Intorno ad essi altri molti vanno sorgendo, ma parlando di stilisti non posso citare nè il Ferrigni, nè il Petruccelli della Gattina. Il primo, costretto ad una moltiplicazione miracolosa di articoli, si sorregge collo spirito, come gli operai estenuati si rinforzano coi liquori; il secondo discende ancora nel giornale, come in un campo chiuso, a commettervi qualche prodezza colla vanteria di un vecchio giostratore. Pensatore senza sistema, dialettico senza metodo, artista senza forma, egli ha reso quasi cosmopolita il proprio ingegno: conosce tutte le lingue, meno l'italiana, ha difeso tutte le idee ed abbandonate tutte le opinioni. Ma la sua fibra, che nè gli anni, nè le apoplessie poterono fiaccare, è ancora della vecchia razza, che ha fatto l'Italia. Quando Petruccelli della Gattina sarà morto, nessuno si accorgerà della sua perdita, nullameno di tutti i giovani, oggi illustri, che piglieranno il suo posto senza dirlo, nessuno vi porterà la stessa ricchezza di cognizioni ed altrettanta forza d'ingegno.

      E scioccamente i giovani letterati si lagnano ora della loro fortuna nel popolo, giacchè la sorte non fu mai più lieta ai novizi. Quelli che battono il teatro si dolgono perchè la società non abbia ben contornata la propria fisonomia come in Francia, dove il salone uniforma costumi e linguaggio, quasichè la società dovesse esistere per l'arte, e non questa per quella; mentre nella stessa Francia i grandi scrittori, da Balzac a George Sand, da Zola a Flaubert, cercarono i loro modelli fuori dell'ambiente falso del salone, falsato ancora peggio dal Dumas e dal Feuillet. Tutti gli altri del romanzo e del melodramma, del canzoniere e della tragedia guaiscono sulla indifferenza crudele del pubblico, mentre questi, che teme istintivamente la miseria della nostra arte, ne ricusa la coscienza, ed è pronto ad acclamare delirando ogni più vaga apparenza di grandezza. Applaude ancora al Ferrari: per dieci anni ha messo Cossa sugli altari, ed oggi paga una sottoscrizione per erigergli un monumento; si sollevò come un sol uomo alla marcia trionfale dei Goti, ha imparato a mente tutte le canzoni dello Stecchetti, batte perfino le mani ai greci di Cavallotti. Giammai vi fu epoca nella quale la celebrità fosse più pronta, e la gloria più facile. Tutti i grandi sono morti, tutti i seggi sono vuoti. Lo Stecchetti oggi è a fianco del Carducci, come il Leopardi trenta anni or sono era a fianco del Manzoni. Che se malgrado queste eccellenti disposizioni, cui la storia dovrà un giorno trovare piuttosto ridicole, nessun nuovo nome sorge dalla folla, si è che nessuno arriva nemmeno ad essere la larva di uno scrittore; e quando non si tocca la vita è più spregevole che pietoso il lagnarsi della immortalità. Muoia domani il Carducci, e dovremo per decoro di patria augurarci che le Alpi, le quali non poterono mai trattenere gl'invasori, trattengano la nostra letteratura dal commercio europeo. Che avrebbero dunque esclamato questi pigmei, i quali implorano istantemente il pubblico di farli grandi, poichè la natura non volle, se invece di capitare oggi, che il minimo della statura nella leva è diventato il massimo della statura nell'arte, fossero nati ottanta anni or sono fra i colossi, che hanno fatto l'Italia, ed ella avesse detto loro, come disse a Rossini, a Leopardi, a Manzoni: siate la mia gloria in Europa, poichè io debbo con questa ricomprarmi la libertà; mentre la Francia aveva Balzac e Hugo, la Germania Gian Paolo Richter ed Heine, l'Inghilterra Dikens e Thakeray, la Polonia Mickiewitz, la Russia Gogol e Puskin, l'America Pöe e Longfellow?

      Se domani avremo una guerra, Cavallotti potrà essere il Petöfi, come lo è stato il Berchet? Non sanno dunque costoro, che dopo la Grecia l'Italia è artisticamente la più grande nazione, che l'Europa è il continente più piccolo per la geografia, ma il più grande per la storia, che l'America passa già dall'industria all'arte attraverso la scienza, e che per rappresentare il pensiero di un popolo anche in un solo e nel più piccolo dei momenti, bisogna essere ben grande, e quando non si ha questo onore doloroso non bisogna commettere la sciocchezza di augurarselo, o peggio la viltà di mentirlo? Quando Castelar combattendo la elezione di Amedeo di Savoia a re di Spagna opponeva la storia spagnuola alla nostra, conchiudendo ad ogni periodo del discorso col pesante ritornello: siete piccoli! aveva torto; ma noi eredi di una rivoluzione, che non avremmo mai saputo compiere, possiamo e dobbiamo ripetercelo amaramente sul volto, perchè la prima speranza di un risorgimento sta nella coscienza della propria prostrazione.

      E ora che la natura ti ha ripreso dalla società, e il vento della steppa t'invola ad uno ad uno i ricordi d'Italia, t'immagini tu come sia la nostra coscienza nazionale? Mentre Garibaldi è ancor vivo crederai che in noi sia spento il senso epico della nostra rivoluzione? Nullameno, sventura od infamia, è vero. Quando Vittorio Emanuele morì all'improvviso, parve che il cuore della nazione desse un balzo, e da tutte le labbra rompesse un tremendo singulto: egli era l'Agamennone della nostra Iliade, il simbolo più sintetico della nostra idea. L'individuo non montava, e fosse stato pur pazzo, nullo come suo nonno, o inferiore come suo padre, poichè con lui si era trionfato e in lui s'incontravano la tradizione romana e l'italiana, il concetto dei pensatori e la visione dei poeti: poichè aveva riassunto tutte le forze, quella di Garibaldi e di Cavour, di Mazzini e di Cattaneo: poichè aveva fuso il regno di Piemonte con quello di Napoli, la repubblica di Genova con quella di Venezia, il ducato di Milano con quello di Firenze; poichè aveva riaperto Roma, chiusa dai papi al mondo civile; poichè infine tutto quello che si era voluto, e che si era fatto, aveva dovuto passare attraverso lui, come per un perno, che intrecciando i fili, torce la corda; tutti coloro, che la miseria di partito non abbassava sotto il livello del cittadino, dovevano convenire in questo simbolo, che uscendo dalla vita per entrare nella storia, prendeva la consacrazione della irrevocabilità. Cattolici e repubblicani, conservatori e socialisti, l'unità italiana doveva imporsi a tutti ed essere accettata da tutti come un campo, dal quale si erano scacciati i barbari e che restava libero ed aperto ad ogni coltura. E parve che fosse così. Quindi una voce, alla quale tutti risposero, invocò un monumento, che fosse testimone eterno di un'ora già passata, ma che resterà una stazione nel viaggio della civiltà. Si apersero sottoscrizioni, e tutti sottoscrissero, poveri e ricchi, vecchi e fanciulli. La mente raggiava, il cuore batteva. Ma quando il monumento dovè uscire dal sentimento per concretarsi nell'idea e tradursi nella forma, nessuno più si comprese. Le opinioni irruppero, i disegni fioccarono, le commissioni moltiplicarono i pareri e i dissensi. Nullameno vi era una idea vecchia di migliaia di anni, destinata a viverne altre migliaia, che era tutto il nostro passato, in nome della quale eravamo risorti, perchè con essa eravamo vissuti, perchè per essa il mondo aveva vissuto con noi. E questa idea era il Campidoglio. Come ora fosse sconciato non caleva; il Campidoglio era pur sempre il Campidoglio, il vertice più alto della civiltà antica, il primo centro della unità mondiale, che l'idea cristiana non osò occupare, e fece bene, poichè essa era un'idea religiosa, e il Campidoglio è un'idea civile. Roma era stata saccheggiata molte volte, distrutto il suo impero, ma nessuno di quei barbari trionfatori aveva osato fermarsi


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