L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico. Gaetano Negri

L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico - Gaetano Negri


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stesso gli dei e ti rifiuti a ciò per cui essi vogliono usarti? Guarda di non agire stoltamente e di non offendere la giustizia divina. Invece di strisciare e di adulare per timore della morte, gittati nelle mani degli dei; fa ciò che vogliono e lascia loro la cura di te stesso, come faceva anche Socrate. Prendi le cose come vengono; riferisci tutto a loro, nulla acquista o afferra per te stesso, ma ricevi, senza esitanza, ciò che essi ti danno. Io mi convinsi che questo ragionamento, ispiratomi dagli dei, era il più sicuro ed il più conveniente ad un uomo equilibrato, poichè il correre ad un pericolo manifesto, per timore delle future insidie, mi sembrava cosa davvero avventata. Cedetti dunque ed obbedii, e così, in breve, mi si gettò intorno il nome e la clamide di Cesare»51.

      [pg!46]

      Che era avvenuto per porre Giuliano in una tensione d'animo così grande e penosa? Ce lo narra Ammiano Marcellino52. Giuliano, come dicemmo, era stato chiamato a Milano, perchè il complotto di Sirmio e la ribellione di Silvano avevano ridestati i sospetti di Costanzo. Quando Giuliano fu a Milano, ogni timore di congiura era sventato, e Silvano era caduto ed ucciso. Ma le inquietitudini dell'imperatore risorgevano e, questa volta, per ben più gravi ragioni. L'uragano barbarico, che, circa un secolo dopo, doveva rovesciarsi sull'impero, faceva sentire sempre più vicini i suoi fragori minacciosi. I Germani passavano il Reno, devastavano le terre orientali della Gallia, ed apparivano come un pericolo, come una forza che l'impero non era più capace di fronteggiare. Costanzo non era uomo da prendere in mano la somma delle cose e di porsi alla testa dell'esercito. Ma pur sentiva che le circostanze richiedevano uno sforzo supremo e il prestigio della suprema autorità.

      Eusebia, la protettrice fervida di Giuliano, sa cogliere l'occasione e consiglia al marito di chiamare il giovane cugino a partecipare al governo dell'impero, nominandolo Cesare, ed investendolo di pieni poteri per l'amministrazione e per la guerra nelle Gallie. I cortigiani tentano di opporsi alla nascente fortuna del giovane Costantiniano, facendo balenare agli occhi di Costanzo i pericoli che possono venire dall'avere al fianco un collega d'impero, e gli ricordano la recente esperienza del cesarato di Gallo. Ma Eusebia insiste e vince ogni resistenza, e Giuliano è dall'imperatore nominato Cesare. Dalle parole che abbiamo riportato di [pg!47] Giuliano stesso parrebbe ch'egli avesse grandi esitanze ad accettare l'altissimo ufficio, perchè in lui rimaneva vivissima la diffidenza verso l'imperatore. Ma, come vedemmo, la fede nella saggezza della provvidenza, che vuol dire la fede in sè stesso, lo risolve a non resistere al suo destino, ed a lasciarsi avvolgere dalla clamide di Cesare.

      Questo così radicale mutamento nella fortuna di Giuliano che, da principe perseguitato, passa, d'un colpo, ad essere collega dell'impero, in condizioni estremamente difficili, ispira qualche sospetto sulle intenzioni di Costanzo. Libanio addirittura le dichiara perverse. «Ed onde alcuno non si meravigli — egli scrive — che io chiami nemico di Giuliano chi se lo univa nell'impero, dirò quale fosse la ragione di tale unione. Non è già che colui vedesse con piacere un altro sul trono imperiale, e con le vesti purpuree; chè anzi, nemmeno in sogno, avrebbe sopportato quella vista. E perchè dunque fece un altro partecipe del suo potere? Da ogni parte egli era premuto dai barbari, ma sopratutto verso occidente. Un generale non bastava a rimettere le cose a posto, si sentiva il bisogno di un imperatore che fermasse la corrente. Ora, non volendo l'imperatore accorrere lui, e, d'altra parte, essendo necessario che si prendesse un collega, egli elegge, lasciando in un canto tutti gli altri, colui che aveva tanto offeso, certo, non dimentico di tutto il sangue versato, ma pure più fiducioso di chi poteva accusarlo che di quelli che dovevano essergli grati. Nè si ingannò.... Ma tosto egli sentì un pentimento irragionevole di quanto aveva fatto, e, in conseguenza di ciò, gli pose al fianco, coll'ufficio di consiglieri, non già esortatori, ma intralciatori [pg!48] di ogni bella azione»53. Ammiano che, probabilmente, era testimonio oculare, descrive la cerimonia solenne con cui, in Milano, fu data a Giuliano l'investitura dell'ufficio di Cesare. L'imperatore Costanzo, in presenza dell'esercito, tenne un discorso lusinghiero e incoraggiante per Giuliano. I soldati accolsero, con immenso entusiasmo, il nuovo Cesare, e battevano, in segno di gioia, lo scudo sul ginocchio. Fiammeggiante della porpora imperiale, egli rientrò nella reggia, seduto nel medesimo cocchio dell'imperatore. Ma, durante la via, sussurrava il verso omerico

      Mi ha colto la morte purpurea e il destino onnipotente.

      Per confermargli sempre più il suo favore, Costanzo gli dava in moglie la sorella Elena. Dopo un mese di festeggiamenti, ai primi di Dicembre del 355, Giuliano partì per la Gallia. Costanzo lo accompagnava fin oltre il Ticino, a mezza strada fra Lomello e Pavia54.

      Così narra Ammiano, e da lui non discorda Giuliano stesso nell'elogio dell'imperatrice Eusebia ch'egli scrisse per attestarle la sua riconoscenza, elogio nel quale il nuovo Cesare, come negli altri due discorsi diretti all'imperatore Costanzo, cela, sotto la maschera della devozione, i suoi veri sentimenti. Egli pure narra le pompe solenni e i donativi ricevuti, specialmente da Eusebia. Ed insiste su di un pensiero tanto gentile dell'imperatrice che basta a dimostrarci come, fra lei e Giuliano, dovessero correre relazioni confidenziali ben più strette di quanto appare dai discorsi ufficiali. «Io voglio, egli scrive, rammentare uno dei [pg!49] suoi doni, perchè ne ho avuto un singolare godimento. Siccome essa sapeva che io avevo portati con me pochissimi libri, nella speranza e nel desiderio di ritornarmene a casa il più presto possibile, così me ne diede tanti e di filosofia e di storia e di retorica e di poesia da soddisfare largamente il non mai saziato mio desiderio dei loro colloqui, e da trasformare la Gallia in un Museo di libri greci. Non staccandomi mai da quel dono, non è possibile che mi dimentichi della donatrice. E, quando io parto per una spedizione di guerra, ho meco uno di quei libri come un viatico della marcia»55. Giuliano si esalta nell'esprimere l'ammirazione per la sua protettrice. «Quando io giunsi al suo cospetto, mi parve di vedere, in un tempio, ritta la statua della saggezza. La riverenza empì l'anima mia, ed inchiodò, per qualche tempo, i miei occhi al suolo, finchè essa mi esortò ad aver coraggio. — Le presenti cose, — disse — le hai da noi. Il resto lo avrai da Dio, pur che tu sia fedele e giusto con noi. — E non disse di più, sebbene sappia fare discorsi al pari dei più insigni oratori. Licenziatomi dall'udienza, io rimasi pieno di stupore e di commozione, parendomi di aver udita la voce stessa della saggezza, tanto dolce e mellifluo era alle mie orecchie il suono della sua loquela»56.

      Ma, se cordiali e delicati erano i favori di Eusebia pel giovane principe, non pare davvero che fossero tutte sincere le dimostrazioni di fiducia di cui lo circondava l'imperatore. Nel manifesto agli Ateniesi, Giuliano afferma [pg!50] che la sua prigionia, diventando Cesare, si fece più grave, tale e tanto era lo spionaggio con cui lo seguiva, ad ogni passo, il sospettoso Costanzo. «Quale schiavitù — egli esclama — era la mia, quali e quante, per Ercole, le minacce sospese, ogni giorno, sulla mia vita! Vegliate le porte, vegliati i portieri, esaminate le mani dei famigliari, caso mai taluno mi recasse un bigliettino degli amici, servi stranieri. Appena potei condurre meco quattro famigliari, pel mio servizio più intimo, di cui due ancora giovinetti, due già adulti. Di questi, uno che conosceva la mia devozione per gli dei, seguiva con me, in segreto, le pratiche del culto, ed io gli aveva affidata la custodia dei miei libri; l'altro era un medico, il quale, solo dei miei molti amici e compagni fedeli, aveva potuto seguirmi, perchè non si sapeva che mi fosse amico57. Era tanto il mio timore che io credetti di dover proibire, con mio dolore, a molti miei amici, di venirmi a vedere, trepidando di diventar causa di sciagura per loro e per me. Del resto, Costanzo mi mandò con soli 360 soldati, nel paese dei Celti, a mezzo inverno, non tanto per comandare gli eserciti che là si trovavano quanto per obbedire ai loro generali, perchè aveva scritto loro e raccomandato di guardarsi da me più che dai nemici, caso mai io tentassi qualche novità»58.

      I difensori che Costanzo ha trovato fra gli storici moderni59 mettono in dubbio la verità delle notizie [pg!51] date da Giuliano stesso. Ora, io voglio ammettere che ci possa essere qualche esagerazione e qualche tinta troppo caricata. Così non sembra giusto il trovare una ragione di lamento nell'esiguità della scorta militare che accompagnava Giuliano. Questi non doveva condurre in Gallia un nuovo esercito, doveva andarvi a prendere il comando degli eserciti che già vi erano. Ora, ciò posto e posto anche che il viaggio di Giuliano si faceva tutto in paese amico e tranquillo, una schiera di 360 uomini bastava all'uopo. Ma, quando Giuliano si lamenta di avere intorno a sè nemici e spie, deve esser nel vero, e gli avvenimenti che seguirono il suo


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