L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico. Gaetano Negri

L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico - Gaetano Negri


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l'assistenza degli dei, occupai il paese dei Salii, e scacciai i Camavi, avendo predati molti buoi e donne e fanciulli78. Così li atterrii tanto coi preparativi delle mie invasioni, che tosto mi mandano ostaggi, e assicurano il libero passaggio dei viveri. Sarebbe troppo lungo l'enumerare, e lo scrivere, ad una ad una, tutte le cose che io feci in quattro anni. Le riassumo. Tre volte passai il Reno: ricuperai dai barbari venti mila nostri prigionieri che si trovavano oltre il Reno; in due battaglie ed in un assedio [pg!64] presi migliaia di uomini, nel fiore dell'età; mandai a Costanzo quattro schiere di fortissima fanteria, tre un po' più deboli, due coorti di cavalieri valorosissimi; ora, per la grazia degli dei, io posseggo tutte le città, avendone riprese poco meno di quaranta»79.

      ❦

      Or siamo giunti al momento fatale della vita di Giuliano. Sta per maturare l'evento che deve portarlo al vertice della potenza. Mentre il Cesare, nella Gallia e nella Germania, correva di vittoria in vittoria, Costanzo, in Oriente, si dibatteva fra le più gravi ed ingloriose difficoltà, in conseguenza della guerra che, da tanti anni, ferveva contro i Persiani e che minacciava di diventar un disastro per l'impero. L'animo meschino e perverso di Costanzo s'ingelosiva del cugino. Temendo che la continuazione dei suoi trionfi potesse sollevarlo ad aspirazioni d'impero, Costanzo, istigato da Florenzio, a quel che narra Ammiano80, pensa di troncargli le ali. A tale intento, manda a Parigi il tribuno Decenzio, coll'ordine a Giuliano di spedirgli, in Oriente, la parte migliore delle sue truppe, le legioni degli Eruli, dei Batavi, dei Petulanti e dei Celti, raccomandando di non frapporre indugi, così che quei soldati possano giungere in tempo di prender parte alla campagna della prossima primavera contro i Parti alleati dei Persiani. Il generale Lupicino doveva condurre quelle truppe. Giuliano prevede che l'ordine dell'imperatore non può eseguirsi senza contrasto e senza pericoli. Quei soldati barbari avevano [pg!65] preso volontario servizio, a condizione di non abbandonare i loro paesi. Era certo che si sarebbero rifiutati a lasciarsi portare nel lontanissimo Oriente, a morire lungi dalle loro famiglie. Lupicino, intanto, era assente, mandato, molto prima, da Giuliano, in Inghilterra, e Florenzio, prevedendo il temporale, si era ritirato a Vienna, e indugiava ad accorrere alla chiamata di Giuliano. Questi si trovava senza consiglieri, solo ad assumere la responsabilità, pressato da Decenzio, che sentiva il pericolo dell'indugio. Infatti, nelle legioni, correva un libello anonimo in cui fra le altre cose si diceva: « — Noi, come colpevoli e condannati, siamo cacciati agli estremi confini della terra, e le nostre famiglie, che, dopo tante sanguinose battaglie, liberammo dalla prigionia, saranno serve per sempre ai Germani»81. Letto questo libello, Giuliano, onde togliere ciò che pareva fosse pei soldati il maggior sacrifizio, dispone che le famiglie possano seguirli e fornisce i mezzi di trasporto. Decenzio insiste affinchè, dai luoghi circostanti, in cui erano alloggiate, le legioni siano concentrate a Parigi, donde prendere le mosse. Così si fa, e, raccolte le truppe nei sobborghi di Parigi, Giuliano le visita, le esorta, parla ad uno ad uno a quei soldati che personalmente conosce, e cerca di animarli con la previsione della liberalità dell'imperatore e dei premi che li aspettano. Poi raccoglie i capi ad un solenne banchetto, da cui questi si ritirano tristi e commossi, perchè la fortuna inclemente li privava, insieme, di sì giusto condottiero e della loro terra natia82.

      [pg!66]

      Tutto pareva ormai tranquillo, ed ogni pericolo di resistenza sventato, quando, nel cuore della notte, le legioni prendono le armi ed, accorrendo al palazzo, lo circondano in modo che nessuno possa fuggire. Con grida immense, proclamano Giuliano Augusto, cioè, Imperatore, e, al primo albeggiare, lo costringono a presentarsi e raddoppiano, alla sua vista, il festoso clamore. Invano Giuliano tenta di calmarli, promettendo loro che non avrebbero passate le Alpi, ed assicurandoli del perdono di Costanzo. I soldati s'infuriano di più, e, alzatolo sugli scudi, vogliono che si ponga in capo il diadema imperiale. Egli non ne ha. Ebbene, s'incoroni con una collana di sua moglie. Ma un ornamento femminile non conviene come emblema d'impero. Si prenda il pettorale dorato di un cavallo. Peggio ancora. E, allora, un vessillifero dei Petulanti, strappandosi una collana che portava come segno del suo grado, ne circonda il capo di Giuliano. Questi, che non ha potuto resistere alla pressione dei soldati, si ritira incerto, stupefatto, esitante nella reggia. Ma ecco che, il giorno seguente, fra i soldati, si diffonde la voce che Giuliano è stato segretamente trucidato. E tosto riprendono le armi e furiosi corrono alla reggia, e non si acquetano finchè il nuovo imperatore non viene al loro cospetto, rifulgente delle insegne del potere. Da quel momento, Giuliano assume apertamente la sua posizione, parla ai soldati come imperatore, loro ricorda le imprese insieme compiute, dichiara di confidare intieramente nella loro lealtà, e promette ricompense e promozioni. Egli spera ancora di evitare la guerra civile e di trovare un accordo con Costanzo, ma è risoluto a non indietreggiare, e si dice sicuro di sè stesso e della sua sorte. Anzi, ai più intimi racconta che, nella notte [pg!67] antecedente alla sua proclamazione, gli era apparso il genio dell'impero, e gli aveva detto: «Più di una volta, o Giuliano, io occupai il vestibolo del tuo palazzo, nell'intento di accrescere la tua dignità, ma sempre mi ritirai quasi respinto. Se anche ora non mi accogli, malgrado il parere concorde di tanti, io me ne partirò mortificato e mesto. Ma, tientelo bene in mente, io teco non sarò mai più!»83.

      Di questi avvenimenti interessanti noi abbiamo il racconto, scritto da Giuliano stesso. Nel manifesto, da lui mandato al Senato ed al popolo d'Atene, nel momento in cui, rotto ogni indugio, egli moveva contro Costanzo, il nuovo imperatore narra come sia avvenuta la sua proclamazione. Quel racconto, che ci fa rivivere nella realtà, è, nelle sue linee principali, in completo accordo con quello che ci lasciava Ammiano. Dice Giuliano come egli fosse circondato da spie e da calunniatori, di cui nomina i principali, Pentadio, Paolo, Gaudenzio, Luciniano. A costoro si aggiunge anche Florenzio, in causa dei disaccordi finanziari di cui già trovammo notizia in Ammiano ed in Libanio. Costoro, primieramente, ottengono da Costanzo che sia allontanato il più fidato amico di Giuliano, Sallustio, che conosceva tutti i segreti di lui, e poi istigano l'imperatore a portargli via l'esercito. «Costanzo, forse solleticato dall'invidia delle mie imprese, mi scrive una lettera piena di offese per me, e di minacce pei Celti. E comanda che, senza distinzione, quasi tutte le truppe migliori, siano condotte via dalla Gallia, e affida l'esecuzione dell'ordine a Lupicino ed a Gentonio, e mi ammonisce di guardarmi [pg!68] bene dall'oppormi ad essi. Ma come dirvi ora ciò che gli dei hanno fatto per me? Io aveva in animo — gli dei stessi mi sian testimoni — di gittar via tutti gli splendori e le cure del regno, e di vivere in riposo, lontano dagli affari. Ma aspettava che giungessero Florenzio e Lupicino, il primo dei quali era a Vienna, l'altro in Brettagna. Intanto, cominciava una grande agitazione nei cittadini e nei soldati, e, in una città vicina, si spargeva, nelle legioni dei Petulanti e dei Celti, un libello anonimo, in cui si diceva assai male dell'imperatore; si lamentava l'abbandono della Gallia; e lo scrittore deplorava, insieme, le offese che mi erano fatte. Quel libello produsse in tutti una viva impressione, e i partigiani di Costanzo insistettero, presso di me, con tutte le loro forze, onde facessi partire i soldati, prima che simili scritti si spargessero nelle altre legioni. Non aveva intorno a me nessuno che mi fosse benevolo, ma solo Nebridio, Pentadio, e Decenzio che era venuto a comunicarmi gli ordini di Costanzo. Diceva io che conveniva aspettare Lupicino e Florenzio, ma essi non approvano e affermano che bisogna agire subito, se non voglio agli antichi sospetti aggiungere, come dimostrazione, questo nuovo esempio. E continuavano: — Se tu ora spedisci i soldati, il merito sarà tuo. Venuti quei due, Costanzo non darà il merito a te, ma a loro, e tu sarai accusato... — Si aprivano a me due strade. Io voleva andare per l'una, essi mi costringono a prendere l'altra, nel timore che quanto era avvenuto potesse essere pei soldati un principio di rivolta, e diventare causa di un completo disordine. E, per verità, quel timore non era del tutto irragionevole. Infatti, vennero le legioni, ed io, secondo i presi accordi, andai incontro, e loro annunciai l'imminente [pg!69] partenza. Passò un giorno, durante il quale io nulla conobbi delle loro risoluzioni. Lo sanno Giove, il Sole, Marte, Minerva e tutti gli dei, che, fino alla sera, non mi venne neppur l'ombra di un sospetto. Non fu che tardi, dopo il tramonto, che mi giunse qualche notizia, ed ecco, d'un tratto, la reggia, è circondata, e tutti gridano, mentre io penso a ciò che si dovesse fare, e non credo a me stesso. Io mi trovava solo in una camera vicina a quella di mia moglie, allora ancor vivente. Di là, guardando il cielo, da un'apertura nella parete, mi prosternai a Giove. Diventando sempre più forte il rumore, e gridando tutti, giù nelle sale della reggia, io supplicai il dio di darmi un segno, ed egli me lo diede, e mi rivelò che doveva


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